CIPRIANI SETTIMO SDB"Forse anche voi volete andarvene?"


23 agosto 2015 | 21a Domenica - Tempo Ordinario B | Appunti per Lectio
Il brano evangelico di questa Domenica (Gv 6,60-69) contiene le reazioni conclusive al "discorso eucaristico", tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao (v. 59) e che abbiamo fin qui commentato. Ci sono le reazioni negative, di rottura perfino, e ci sono quelle positive, in minor numero però, che provocano ad un
impegno maggiore di affidamento a Cristo, come proclamerà alla fine Pietro: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna" (v. 68).
Che il discorso fosse "scandalizzante" lo si era già notato dalle numerose interruzioni e dai numerosi interrogativi che lo avevano come punteggiato: "Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti?... Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?... Come può costui darci la sua carne da mangiare?" (vv. 30.42.52).
D'altra parte, Gesù aveva impostato tutto il suo discorso sulla necessità di affidarsi esclusivamente alla "fede" per potersi incontrare con lui: "In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna" (v. 47). Il solo "vederlo" e il solo "ascoltarlo" non bastano: "Vi ho detto che voi mi avete visto e non credete" (v. 36). A maggior ragione se da lui si toglie anche il materiale "vederlo", che pur dà qualche garanzia! È quanto avviene nell'Eucaristia, in cui il "corpo" e il "sangue" del Signore (cf vv. 54-56) sono mediati da certi "segni" che immediatamente rimandano a realtà visibili e palpabili del tutto diverse. Qui siamo veramente nell'assurdo e nell'incredibile!

"Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?"
È a questo punto che scoppia lo "scandalo", che già stava nell'aria ed ora afferra non più la folla dei Giudei, ma gli stessi "discepoli" del Cristo. Neppure chi già aveva una certa dimestichezza con lui può seguirlo in queste ultime provocazioni, lanciate contro il buon senso e la normale ragionevolezza dell'uomo: "Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?" (v. 60).
Gesù tenta un'ultima spiegazione, non per attenuare la forza delle sue dichiarazioni, ma per riportare tutto il problema all'interno del discorso di fede che permette di penetrare nel "mistero" con gli occhi stessi di Dio: sono disposti i suoi "discepoli" a lasciarsi "spogliare" del loro modo di vedere e di giudicare per lasciarsi "illuminare" della nuova "lungimiranza" di Dio? Se si affideranno allo Spirito, invece che alla "carne", potranno vedere cose anche più grandi: il problema è tutto qui!
Ma ascoltiamo il testo evangelico: "Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli proprio di questo mormoravano, disse loro: "Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dove era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita"" (vv. 61-64).
Gesù, dunque, non toglie lo "scandalo" delle sue parole, anzi sembra dire che in lui vi sono delle realtà e si verificheranno dei fatti anche più "scandalizzanti": "E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dov'era prima?" (v. 62). L'espressione, piuttosto enigmatica, dovrebbe alludere alla futura risurrezione ed ascensione, mediante le quali il Cristo "ritorna" nella gloria del Padre, assumendo per sempre i suoi poteri di "giudice" universale: il termine "Figlio dell'uomo", infatti, in questo contesto credo che rimandi alla sua potestà di "giudice" escatologico. Orbene, tutto questo è molto più "provocatorio", per l'intelligenza umana, delle cose dette fin qui da Cristo: se i suoi "discepoli" si "scandalizzano" delle cose più semplici, cosa avverrà davanti a quelle infinitamente più grandi? (cf 3,12).
D'altra parte, proprio "salendo là dov'era prima", egli potrà mandare il suo Spirito (7,39), che è quello che "dà la vita", cioè colui che ha capacità di "rinnovare" dal di dentro l'uomo, "creando" in lui la struttura spirituale adatta per percepire il messaggio che viene dall'alto: "Lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto" (14,26). Perciò non bisogna appoggiarsi sulle risorse dell'intelligenza umana, che è soltanto "carne": "La carne non giova a nulla" (v. 63).
Queste ultime espressioni, anche se prendono spunto dal precedente discorso eucaristico dove si era parlato della "carne" di Cristo, a mio parere non vogliono dire che l'Eucaristia senza la fede "non giova a nulla", come molti commentatori sostengono: sarebbe una irriverenza nei riguardi del "corpo" di Cristo e, del resto, è una cosa scontata da tutto l'insieme del discorso. È piuttosto una riaffermazione della incapacità dell'uomo, fiducioso sulle sue sole forze ("carne"), a penetrare nel mistero di Dio.

"Le parole che vi ho dette sono spirito e vita"
Siamo di nuovo rimandati alla fondamentalità della fede, come ribadiscono le ultime parole di Gesù e anche il commento amareggiato dell'evangelista: ""Ma vi sono alcuni fra voi che non credono". Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E continuò: "Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio"" (vv. 64-65). L'ombra del "traditore" già si staglia nello sfondo e rende più drammatico il senso delle parole pronunciate da Cristo.
Alla luce di queste riflessioni si comprende anche meglio che cosa vuol dire l'affermazione di Gesù, in contrapposizione all'"inutilità" della carne: "Le parole che vi ho dette sono spirito e vita" (v. 63). Le "parole" che egli ha detto sono tutte quelle del discorso eucaristico, in cui egli progressivamente si è rivelato come "il pane della vita" sia in quanto Figlio di Dio, sia in quanto darà veramente la sua "carne" e il suo "sangue" in cibo agli uomini: esse sono "spirito e vita" nella misura in cui saranno accettate nella docilità della fede, che solo lo Spirito di Dio può far nascere nel cuore dell'uomo. Animate dallo Spirito, esse dànno già la "vita eterna".
A qualcuno potrà sembrare anche strano che al termine del discorso eucaristico, dove la realtà del "sacramento" eucaristico è stata così fortemente sottolineata, san Giovanni metta l'accento sulla priorità della "parola". C'è stato chi ha pensato ad una intenzione polemica dell'evangelista nei confronti di tendenze che esageravano il sacramento al punto da mettere in ombra l'importanza della fede e dell'ascolto della parola. In realtà, c'è da dire che per Giovanni il "sacramento" è esso pure parola, che ci "parla" attraverso la "significatività" che il Cristo ha voluto conferirgli: "parola e sacramento" ci "dicono" la realtà totale del Cristo, nella luce e nella forza dello Spirito.

"Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna"
Mentre da quel momento "molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui" (v. 66), san Giovanni ci descrive al termine la reazione positiva dei Dodici. Le stesse parole producono in alcuni contestazione e ripulsa, in altri generosa adesione di fede. Come spiegare tutto questo? È la controprova drammatica di quanto Gesù ha appena detto: "Nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio" (v. 65).
Per far vedere meglio come tutto negli apostoli provenga dall'alto e non dalla "carne", che "non giova a nulla", l'evangelista ci presenta Gesù che lancia quasi ostentatamente la sua ultima provocazione: "Disse allora Gesù ai Dodici: "Forse anche voi volete andarvene?". Gli rispose Simon Pietro: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio"" (vv. 67-69).
La domanda di Gesù, oltre che provocazione, è anche un invito agli apostoli a prendere posizione, a "decidersi" per lui o contro di lui. La risposta di Pietro, fatta a nome di tutti, è dapprima trepidante e direi quasi indecisa: "Signore, da chi andremo?" (v. 68). Poi diventa sicura e piena di gioia e di entusiasmo, riconoscendo dapprima in Cristo l'unica fonte di salvezza: "Tu hai parole di vita eterna" (v. 68). Sembra che qui Pietro riecheggi la precedente affermazione di Cristo: "Le parole che io vi ho dette sono spirito e vita" (v. 63). Per ultimo proclama solennemente Gesù come "il Santo di Dio", cioè l'inviato ed eletto di Dio, "consacrato" e unito a lui in modo eminente, e appunto per questo capace di salvarci, di dirci le "parole" che dànno la vita.
Si noti la successione dei due verbi, con cui Pietro fa la sua confessione di fede: "Noi abbiamo creduto e conosciuto", che non dovrebbe essere priva di significato. Il "credere" precede il "conoscere", e in un certo senso lo genera: in un contesto dove Cristo si è sforzato di mettere in evidenza la fondamentalità e decisività della "fede", non si poteva mettere al primo posto la "conoscenza", che pur è implicita nella stessa fede. La fede, infatti, è una forma altissima di "conoscenza", che però non trae la sua origine "dalla carne e dal sangue", come dichiara Gesù in risposta all'analoga confessione di Pietro in san Matteo (16,17), ma "dal Padre che sta nei cieli".
Al termine del brano si coglie anche meglio la voluta "contrapposizione", continuamente sottesa a tutto il discorso eucaristico, fra l'incredulità dei Giudei e dei discepoli e la fede dei Dodici che si fa più matura. È un tema analogo a quello che si trova nei Sinottici e che gli studiosi chiamano "crisi galilaica", dove determinante ancora è la confessione di fede di Pietro.
Per Giovanni la "crisi di fede" si verifica attorno al mistero eucaristico, cioè proprio là dove c'è il massimo di donazione: il che significa che la mancanza di fede deriva soprattutto da poca capacità di "amare".

"Scegliete oggi chi volete servire
Anche la prima lettura, ripresa dall'ultimo capitolo del libro di Giosuè (24,1-2a.15-17.18b), ci presenta una scena di "decisione", di "scelta" per Dio o contro Dio: "Se vi dispiace di servire il Signore, scegliete oggi chi volete servire: se gli dèi che i nostri padri servirono oltre il fiume (Eufrate), oppure gli dèi degli Amorrei, nel paese dei quali abitate" (v. 15).
Conquistata e già distribuita alle dodici tribù di Israele la terra promessa, Giosuè, prima di morire, indice una grande assemblea del popolo a Sichem che, a causa della sua posizione centrale, era facilmente raggiungibile dalle varie zone della Palestina. Egli vuol mettere il popolo davanti alle sue responsabilità: dapprima ricorda le tappe fondamentali della storia della salvezza (24,2-13), quindi lo invita a scegliersi un dio: o gli dèi venerati dai padri prima della chiamata di Abramo, o gli dèi degli Amorrei, vinti da Jahvè nella conquista della terra promessa, o Jahvè stesso (v. 15). Il popolo sceglie Jahvè, in riconoscimento dei numerosi benefici accordatigli dal Signore: "Lungi da noi l'abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché il Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri nostri dal paese d'Egitto..., anche noi vogliamo servire il Signore perché egli è il nostro Dio" (vv. 16-18).
Si noti quel "noi" costantemente ripetuto: in tal modo il popolo radunato a Sichem, che non era di fatto uscito dall'Egitto e che in gran parte non aveva attraversato il deserto, intendeva associarsi agli eventi del passato, "rivivendoli" alla luce della fede.
In ogni atto di fede anche noi rendiamo presenti tutti i gesti salvifici di Dio, "decidendoci" per lui sempre da capo. È per questo che la "parola" e il "sacramento" non sono delle realtà morte, ma sempre "vive": "Le parole che vi ho dette sono spirito e vita" (v. 63), ci ricordava sopra il Signore.

"Questo mistero è grande..."
Anche nella seconda lettura, che ci riporta un bellissimo testo di san Paolo sul matrimonio e sul rapporto marito-moglie (Ef 5,21-32), ci muoviamo in un contesto di fede e, in parte almeno, anche "sacramentale".
Infatti, è solo nella dimensione di fede che si può afferrare il matrimonio come una reciproca "donazione" e appartenenza che si moduli sul rapporto di amore che lega per sempre Cristo alla Chiesa. Come il Cristo si è "donato" alla morte per noi e ci ama di un amore infrangibile e senza pentimento, così devono fare marito e moglie.
A questo punto è chiaro che il richiamo alla "sottomissione" delle moglie ai propri mariti (v. 22), che indubbiamente si rifà alla situazione giuridica e culturale del tempo, viene superato dal primato dato all'amore: quando due si amano, non conta più chi sia primo o chi sia secondo! In ogni caso, per rimanere nell'analogia di san Paolo, chi è il primo deve amare di più, come ha fatto Cristo per la Chiesa: in questa condizione direi che la moglie ha tutto da guadagnare, proprio perché dovrebbe essere fatta oggetto di maggiori attenzioni e delicatezze.
"E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell'acqua accompagnato dalla parola..." (Ef 5,25-28).
Paolo, però, non propone semplicemente il rapporto Cristo-Chiesa come "modello" da imitare ma soprattutto come "sorgente" da cui attingere energie sempre rinnovate perché mariti e mogli si amino con fedeltà e con spirito di gioia e di martirio, sapendo superare tutte le forme di chiusura e di egoismo che si annidano sempre nel cuore di ogni uomo e di ogni donna. Il matrimonio cristiano ha bisogno di ritornare ad essere il grande "mistero" dell'amore di Cristo travasato nel nostro piccolo cuore: "Questo mistero è grande: lo dico di Cristo e della Chiesa!" (v. 32). Allora soltanto sopravviverà alla crisi violenta, che oggi sembra quasi travolgerlo, e "rigenererà" la stessa società civile ed ecclesiale.

                      Da CIPRIANI S.

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