don Marco Pedron" La realtà non si cambia, la realtà si vive"

XIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) 
Vangelo: Gv 6,41-51
Il vangelo inizia dicendo che “i Giudei mormoravano di Gesù perché aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”.
Anche Elia nella prima lettura mormorava contro Dio: voleva morire, voleva arrendersi. Non voleva accettare la realtà e preferiva morire piuttosto che inchinarsi alla realtà.

Gesù parlava del “pane disceso dal cielo” e i Giudei non potevano accettare questa realtà, per questo mormorano. Come non capirli: arriva uno che dice di essere disceso dal cielo. Al giorno d’oggi probabilmente avremmo chiamato un medico e lo avremmo ricoverato immediatamente in psichiatria. I Giudei rifiutano ciò che non possono accettare. Non potevano accettare che in quell’uomo ci fosse ben più di che si vedeva, che quell’uomo venisse dall’alto.
E’ sempre così: ciò che non puoi accettare lo rifiuti. Ciò che critichi è ciò che rifiuti, ciò che non puoi integrare.
La protesta dei Giudei è il tentativo di alterare (di far cioè altro, diverso) quello che è. Allora iniziano a dire: “Ma costui non è Gesù, il figlio del carpentiere; di lui conosciamo il padre, la madre. Come può dire tali stupidaggini?”. Cercano di convincersi che non è così come lui dice e protestano.
Quando protesti, chiediti sempre: “Cosa dovrei accettare ma non riesco?”.
La realtà non si cambia, la realtà si vive.
La realtà è che altre persone sono più sensibili di te, sono più intelligenti di te, sono più attraenti o affascinanti di te. La realtà è che altri sono più di te e tu dici di accettarti ma vorresti essere come loro.
La realtà è che non tutte le vite hanno la stessa fortuna. Ad alcuni la vita ha riservato delle strade preferenziali, delle autostrade, mentre ad altri è riservata una dura salita di montagna. Confessiamocelo è così, e non nascondiamoci dietro al consolatorio “ognuno ha le sue”.
La realtà è che siamo importanti ma che la vita va avanti anche senza di noi. Tu sei una goccia del mare, una foglia dell’albero, una minima parte dell’universo. Non è bello, vero!, ma è così.
E noi, invece, vorremmo essere gli unici, vorremmo che ci ricordassero, vorremmo essere ricordati nel cuore delle persone e anche nei libri di storia. Per quanto tu sia stato, quando nella tua azienda te ne vai, dopo un po’ vieni dimenticato e altre strategie vengono prese (magari opposte alle tue!). E’ normale, è giusto che sia così.
La realtà è che non stiamo vivendo in maniera naturale: c’è la luce a tutte le ore del giorno e della notte; ci sono le auto che ci impediscono di camminare e di muoverci; mangiamo cose conservate e quindi morte; ci allontaniamo sempre più dai nostri bisogni e dal nostro istinto naturale; chiudiamo i nostri figli “dentro scatole di cemento e di solitudine” mentre avrebbero bisogno di muoversi tranquilli all’aria aperta, di gridare, cantare e di stare a contatto con la natura. La realtà è che il progresso è solo economico e non dell’anima e che ci riteniamo più evoluti di molte antiche popolazioni ma la cui saggezza è grandissima solo che ci è sconosciuta.
La realtà è che tutto inizia e che tutto finisce perché tutto evolve. Noi vorremmo che le cose non avessero mai fine: le serate dove ci si diverte non dovrebbero finire mai; i momenti di serenità dovrebbero durare in eterno; la gioia dell’amore dovrebbe durare notti e notti; la vita dovrebbe non finire mai. E, invece, no, tutto finisce e tutto passa.
I tuoi figli crescono e se ne vanno; tu invecchi e non sei più guardato per il tuo fascino; gli amori si concludono e ciò che prima avresti giurato “eterno” adesso non lo è più, quello che prima avresti giurato di non diventare, adesso, invece, lo sei diventato. Ed è necessario che sia così che tutto passi, che tutto divenga, che tutto fluisca, che tutto abbia il suo corso.
La realtà è che sei condizionato. Pensi di essere tu ad agire, pensi di essere tu a scegliere, a scegliere i cibi che ti piacciono, a scegliere le tue amicizie, a decidere il tuo lavoro, la tua professione, a decidere tu chi sposarti e quale donna o quale uomo. E, invece, non è così. Scegli tutto questo per motivi che a volte conosci e che a volte nemmeno sai. Pensi di essere tu a guidare il treno e invece è lui che ti porta altrove. Lo so che non ti piace ma è così¨è la realtà!
La realtà è che sei bisognoso. Vorresti - e te lo dici, quasi ci credi! – poter vivere senza dipendere dal bisogno di attenzione degli altri, vorresti aver tagliato il cordone ombelicale perché tutti i libri lo dicono come necessario; vorresti essere autonomo perché sai che solo così si è maturi, vorresti fare la tua vita anche senza farti così influenzare dagli altri, dal loro giudizio, da ciò che pensano di te. Vorresti...
E, invece, ti ritrovi ad essere bisognoso, ad accontentare chi sta sopra e a non deludere per paura del rifiuto; ti ritrovi a scaricarti su chi ti sta sotto; ti ritrovi ad aver bisogno assoluto degli altri tanto da non riuscire a stare da solo nemmeno per un mese della tua vita; ti ritrovi ad elemosinare amore in mille e mille modi mascherati. E’ la realtà.
Io vorrei che la realtà fosse come la dico e la voglio io, come la desidero, come piace a me. E, invece, la realtà è più grande e diversa da me. La realtà è quella che è.
Anch’io contribuisco a formarla e a crearla, ma lei è molto più grande e molto più saggia di me. Ho la pretesa di cambiare la realtà mentre devo vivere la resa alla realtà.
Quante volte diciamo: “Questa proprio no! Questa cosa non mi doveva succedere! Questa Dio non me la doveva mandare!”. Arrenditi alla realtà. La realtà forse è più saggia di te e comunque è realtà.
La realtà forse ci vuole insegnare ciò che dobbiamo imparare e che magari non vorremmo; forse ci vuol far scoprire ciò che dobbiamo scoprire anche se ci è difficile da accettare; forse ci vuol far vivere ciò che dobbiamo vivere e che non rientra nei nostri piani. La realtà, Dio, la Vita, è più grande di noi e fede, fiducia, significa accettarla, accoglierla, fidarsi di ciò che ci fa incontrare e lasciarsi portare. Forse tutto ha un senso anche se noi non lo capiamo. Ed è inutile lottare contro perché tanto, in un modo o nell’altro, ciò che dobbiamo vivere, ce lo farà vivere. Forse conviene lottare insieme a lei.
Un uomo era furente e arrabbiato con Dio perché sua moglie dopo dieci anni di matrimonio se ne era andata. Non poteva accettare questa situazione. Ma se non ci fosse stata quella situazione così dolorosa non avrebbe mai scoperto di aver vissuto sempre dentro ad un’illusione, ad una bolla di sapone. Per lui c’era solo il lavoro, la routine quotidiana, la dipendenza affettiva dalla moglie, ecc. Insomma non aveva mai sentito cos’era la vita con tutto il suo carico di paura, gioia, trepidazione, emozione, abisso ed altezza. Solamente dopo tre anni, quando si arrese al fatto che lei se ne era andata, capì la benedizione di quel dramma.
Una donna è caduta in depressione. Lei così attiva si era arrabbiata in modo terribile con Dio. Aveva deciso di non volerne più sapere. “Proprio io che facevo tutto, che non mi fermavo un attimo, che ero sempre sorridente e in attività, proprio a me una cosa simile?”. “Sì, proprio a te; non poteva che capitare a te!”. Solo dopo aver accettata tale situazione scoprì quanto era vissuta tutta per gli altri ma staccata da sé (era distaccata perché il dolore dentro era enorme) e dalla sua vera energia. Fu una benedizione, ma divenne tale solo quando smise di protestare, di pretendere qualcosa di diverso e con umiltà iniziò a chiedersi che cosa doveva imparare, che cosa la vita voleva insegnarle.
C’è una storia orientale eloquente a questo proposito: “Un giorno Akbar e Birbal andarono a caccia nella selva. Sparando col suo fucile, Akbar si ferì il pollice e gridò di dolore. Birbal gli fasciò il dito e lo consolò con le sue riflessioni filosofiche: “Maestà, non sappiamo mai ciò che è bene o è male per noi”. L’imperatore si infuriò e scaraventò il ministro nel fondo di un pozzo abbandonato. Poi continuò a camminare solo per il bosco. Frattanto un gruppo di selvaggi gli venne incontro in piena selva, lo attorniò, lo fece prigioniero e lo trascinò davanti al suo capo. La tribù stava preparandosi ad offrire un sacrificio umano e Akbar fu accolto come la vittima che Dio aveva loro inviato. Lo stregone della tribù lo esaminò attentamente e notando che aveva un pollice rotto, lo respinse perché la vittima prescelta non doveva avere nessun difetto. Allora Akbar si rese conto che Birbal aveva avuto ragione, provò rimorso per il suo gesto inconsulto, tornò correndo al pozzo nel quale lo aveva gettato, lo trasse fuori e gli chiese perdono per il male che, tanto ingiustamente, gli aveva causato. Birbal rispose. “Maestà, non deve chiedermi perdono, perché non mi ha fatto alcun male. Al contrario, mi ha fatto un grande favore: mi ha salvato la vita. Infatti, se non mi avesse scaraventato in questo pozzo, io avrei continuato a camminare al suo fianco e questi selvaggi avrebbero preso me per il loro sacrificio. Come vede, Maestà, non sappiamo mai se una cosa sia bene o male per noi ”.
Buona fortuna? Cattiva fortuna? Chi lo sa? Lasciamo fare alla Vita.
Se i Giudei avessero accettato quella realtà “pazza” (Gesù si definiva come veniente da Dio) si sarebbero salvati dal buio!
Qualunque cosa ti propone la vita (la realtà), accettala.
Mentre Gesù parla di una cosa (il pane dal cielo) i giudei non capiscono. Gesù è ad un livello, su di un piano, i Giudei su di un altro.
Sto per entrare in banca e incontro una ragazza di terza media con cui abbiamo fatto il camposcuola, conclusosi qualche giorno prima. Ci salutiamo e ci diamo un bacio sulla guancia. E suo padre: “Ma vai a uomini?”. La ragazza gli dice: “E’ il don, papà!”. “Anche i preti ti fai, adesso?”. Che tristezza! Che messaggio passerà a quella figlia? Secondo voi, come la considera suo padre? Quello che è passato a me è stato che la considerasse una donnaccia. Ma parlava di lei o parlava di lui?
Un detto cinese dice: “Quando il dito indica la luna, lo sciocco guarda solo il dito”.
Gli ebrei nel deserto avevano la manna: era il cibo per ogni giorno. Ma nella manna gli ebrei non vedevano tanto la bontà di Dio che li accompagnava, che li sosteneva, che non li abbandonava. Vedevano solo il cibo di ogni giorno, cibo di cui si stancarono. Che sciocchi!
Così Gesù: sta parlando di cose alte, elevate, profonde; sta mostrando suo Padre, il Dio vero, quello che ti sazia la vera fame e loro non riescono ad andare oltre. Per loro Gesù non può che essere il figlio di Giuseppe; per loro il pane è solo quello di farina; per loro il cielo è solo quello che manda il sole e la pioggia; per loro Dio è uno da pregare perché ci faccia vincere sui nemici o ci tenga lontano le disgrazie.
Gesù dirà: “Siete ciechi... Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo... e se non cambierete modo di vedere morirete nei vostri peccati” (Gv 8, 23-24).
Se tu non sai andare oltre o dentro le apparenze, cioè dietro ciò che sembra, allora tu hai decretato la morte della tua anima.
La felicità: per molte persone è avere qualcosa. Felicità per loro è avere una posizione da esibire, un auto o una casa da mostrare, una dote da manifestare, una capacità con cui avere successo ed essere stimati.
Sono ciechi. Felicità è poter sentire la vita che ti abita dentro, che cresce, che diviene, che si espande. Felicità è poter stare bene nella propria pelle, sentire il proprio valore e gustare la propria vita.
Dio, per molte persone, è una preghiera da dire, un rito da espletare, una “rottura” da evitare, un impiccio di cui non si sa che farsene. Sono ciechi.
Dio è la sensazione profonda di essere immersi in qualcosa di più grande; è vivere l’esperienza di essere parte di un di più, di essere immersi in una corrente che ti porta da qualche parte; è sentirsi amati al di là del bene e del male di ogni giorno; è sentirsi degni di esistere perché Qualcuno ci vuole; è sentire che non c’è motivo di aver paura perché c’è un grande Abbraccio che ci difenderà da ogni pericolo.
I figli, per molte persone, rappresentano il successo e la realizzazione della propria vita. Se non li hai la vita non ha senso; se li hai ti devono obbedire, devono renderti felice e non deluderti; devono diventare bravi. Sono ciechi.
I figli sono il dono della vita per me perché io possa esprimere l’amore che mi porto dentro; sono il mezzo perché la mia vita si realizzi, perché io sia fecondo, perché ci sia un senso alle mie giornate. Ma sono il mezzo non il fine. I figli sono uno stupore da vivere, una meraviglia da contemplare, una scuola di vita da cui imparo la gratuità (do senza avere aspettative), il distacco (li amo anche se se ne andranno), l’alterità (sono altri, diversi, opposti da me), l’umiltà (mi fanno vedere le mie debolezze, le mie fragilità, i miei difetti), ecc.
La malattia, per molte persone, è la cosa peggiore che ci sia. Siamo d’accordo che non è piacevole, eppure è un grande amico. Se mi ammalo forse non è un caso. Questa malattia mi sta parlando, mi vuole dire qualcosa, mi sta comunicando che c’è qualcosa in me a cui devo (o dovevo) dare attenzione.
E così per tutte le cose. Tutto può essere banale, insignificante o tutto può essere profondo, divino.
Quando il saggio indica la luna dove va il tuo sguardo?
Gesù poi dice: “Io sono il pane vivo”. C’è un pane vivo e c’è un pane morto. C’è un pane che nutre solo il corpo e c’è un pane che nutre anche l’anima.
La domanda che Gesù pone è: “Che cosa nutre veramente?”.
Il pane era il cibo tipico, normale per gli antichi. Dire “pane” era dire nutrirsi, sfamarsi.
Il cibo ci nutre; ogni giorno mangiamo, ne abbiamo bisogno. Ma è sufficiente il pane della terra? O cerchiamo qualcos’altro, qualcosa che soddisfi la nostra anima e il nostro cuore?
Il cibo riempie il nostro stomaco, ma cos’è che riempie la nostra anima? Di cosa devo sfamarmi?
E’ sufficiente nutrirmi di Nutella o di pizza? E’ sufficiente lavorare e avere un tetto sotto cui dormire? E’ sufficiente avere un auto, dei vestiti, essere rispettati dalla gente?
Perché i maghi e le chiromanti sono pieni di clienti? Perché gli studi dei terapeuti sono zeppi di persone che hanno un disagio di vita? Perché siamo così depressi e alienati? Perché siamo così isterici, “schizzati”, tristi, depressi?
Cos’è che ci manca? Che sia proprio vero che ci mancano i soldi? O non è che crediamo che se ne avessimo di più allora sì che saremmo felici, e questo ci dice chiaramente che ciò che ci manca non si può comprare?
Qual è il pane della tua anima? Cos’è che ti ciba per davvero?
La grande fame è d’amore. Sono bisognoso d’amore. Io ho bisogno di essere amato, di qualcuno che creda in me, di qualcuno che mi apprezzi, che mi dia valore e fiducia. Se non sono amato allora sono nessuno, allora non valgo, allora che ci sia o che non ci sia è la stessa cosa. Allora vivere o morire non cambia poi così tanto.
Le storie e le vicissitudini delle nostre relazioni sono la storie di uomini e donne con dei buchi d’amore enormi che chiedono al partner di riempire. Ma nessuno potrà mai riempire del tutto il nostro burrone d’amore.
Non possiamo delegare a nessuno questo compito.
Allora tocca a me prendermi cura del mio buco e lavorarci sopra. Quando mi sento solo chiamo un amico; quando mi sento giù cerco qualcuno che mi ascolti; quando mi sento solo mi aiuto facendo qualcosa o uscendo altrimenti mi abbuffo di cibo, tv, pigrizia o paranoie.
Quando sento questa fame terribile devo imparare che nessuno me la può togliere ma che per oggi posso mangiare e che domani farò lo stesso. E’ una delle grandi illusioni credere o ritenere che ci sia qualcuno che ce la toglierà.
Oggi ho bisogno d’amore – e lo devo chiedere - e domani ne avrò bisogno ancora. Mangio oggi, cerco dove posso “mangiarlo” e so che anche domani ne dovrò mangiare ancora.
La grande fame è la direzione. La grande domanda che attanaglia tutti noi è: “Perché vivo?”.
Mi alzo la mattina, mi lavo, vado al lavoro, faccio quello e quell’altro. Ma perché tutto questo? C’è un senso a tutto questo o è un semplice passare delle giornate. Perché se è un semplice passare tanto vale la pena che passi velocemente.
Ho fame di trovare una direzione, un senso vero cui andare. Se non c’è allora posso ubriacarmi, svendermi, rischiare la vita con l’alta velocità o rovinarmi, tanto! Se non c’è non posso impegnarmi, non posso resistere, non posso lottare, perché, tanto, a che serve?
La grande fame è donarsi. Io ho bisogno di sentirmi utile, importante, di sentire che la mia vita crea altra vita. Se la mia vita non produce niente, se è vuota, a che serve? Se è la stessa cosa che io ci sia o no, perché esserci? Allora sì che si sopravvive.
La grande fame è Dio. Io ho bisogno di qualcuno che mi dica: “Non aver paura”.
Perché la vita finisce, perché la vita passa, perché la vita non dura in eterno, perché i miei cari muoiono, perché lascerò i miei figli e chi amo, perché mi ridurrò a polvere, perché io non posso salvarmi.
Allora ho bisogno di agganciarmi a Lui, di sentire che mi posso fidare di Qualcuno, di percepire che non sarò lasciato solo, che non sarò dimenticato, che non finirà tutto.
Ho bisogno di Qualcuno che mi dica: “Ci sono io, non aver paura. Tu sei nelle mie mani, non cadrai mai fuori dal palmo delle mie mani. Stai tranquillo, ci sono io”.
E di fronte a tutto questo – che incoscienza non pensarci – cosa ti può salvare?
Ho bisogno di pane dal cielo, di pane vero, di pane che nutra ciò che sono dentro, la mia parte divina.
Il pane della terra nutre il corpo; solo il pane del cielo nutre l’anima.

Pensiero della Settimana
Perché il frigorifero è pieno di cibo e l’anima muore di fame?
Perché il garage è pieno di automezzi (auto, motorini, biciclette) e tu non ti sposti dalle tue certezze neanche di un centimetro?
Perché siamo pieni di telefonini e non sappiamo relazionarci?
Perché abbiamo così tanto e siamo infelici?

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