CIPRIANI SETTIMO SDB Il difficile "mistero" della croce

20 settembre2015 | 25a Domenica - Tempo Ordinario B | Appunti per Lectio
Il difficile "mistero" della croce
Continua la lenta e faticosa opera di educazione degli apostoli al mistero della croce: in essa soltanto si può comprendere "chi" è Gesù, secondo la domanda da lui medesimo posta ai Dodici e che abbiamo meditato la Domenica scorsa. Come là Pietro si rifiutava di accettare la prospettiva della sofferenza e della morte del "Messia", così fanno ora i Dodici davanti al secondo preannuncio della
passione: "Essi non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni" (Mc 9,32).
Vorrei dire che nel cuore dell'uomo c'è un istintivo rigetto della sofferenza, e soprattutto di un Dio "sofferente": un Dio debole, per noi che siamo deboli e abbiamo bisogno di aiuto e di consolazione, sembra un Dio inutile!
D'altra parte, l'itinerario della sofferenza e della rinuncia per degli Ebrei credenti, come certamente erano gli apostoli, non doveva apparire così strano come la loro reazione invece dimostra. L'Antico Testamento, infatti, è pieno del tema del "giusto" perseguitato, come ce lo dimostrano i famosi "carmi" del Servo di Jahvè in Isaia.
Anche la Liturgia odierna ci offre due passi particolarmente significativi al riguardo.

"Tendiamo insidie al giusto..."
Il primo è quello offertoci dalla prima lettura, che ci riporta alcuni versetti di un più ampio discorso degli "empi", i quali hanno una concezione essenzialmente materialistica ed edonistica della vita: "La nostra vita è breve e triste; non c'è rimedio, quando l'uomo muore, e non si conosce nessuno che libera dagli inferi... Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile!" (Sap 2,1.6).
È chiaro che, in tale prospettiva, la sola presenza di un "giusto" che si affida a Dio e vive la sua vita dandole un significato completamente "diverso", è per loro un cocente rimprovero, che essi sono tentati di far tacere anche con la sopraffazione fisica. È quanto emerge dal brano propostoci oggi dalla Liturgia: "Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni; ci rimprovera le trasgressioni della legge e ci rinfaccia le mancanze contro l'educazione da noi ricevuta" (Sap 2,12).
L'atteggiamento violento e intollerante degli empi diventa, nello stesso tempo, sfida contro Dio, al quale il "giusto" si è affidato: se Dio è veramente con lui, dovrà manifestarsi liberandolo dalle loro insidie! "Vediamo se le sue parole sono vere; proviamo ciò che gli accadrà alla fine. Se il giusto è figlio di Dio, egli l'assisterà, e lo libererà dalle mani dei suoi avversari..." (vv. 17-18.20).
Anche se il "giusto", di cui qui si parla, è una figura collettiva che, in concreto, rappresenta tutti quegli Ebrei alessandrini fedeli alla Legge, i quali al tempo dell'autore (II sec. a.C.) subivano le vessazioni degli altri Ebrei paganizzanti e, forse, anche di gruppi fanatici di pagani veri e propri, sta di fatto che gli interpreti cristiani hanno incominciato per tempo (Giustino, Origene, Cipriano, Agostino, ecc.) a vedervi il volto sofferente di Cristo. Anzi, il primo che ha fatto questa applicazione sembra che sia stato lo stesso san Matteo, quando fa dire agli schernitori giudei, che stanno ai piedi della croce, le seguenti parole: "Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso... Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio" (Mt 27,42-43). È evidente il riecheggiamento del passo della Sapienza (2,18-20) appena ricordato.
Il secondo passo offertoci dalla Liturgia è il Salmo responsoriale, relativo anch'esso alla sofferenza di un innocente: "Dio, per il tuo nome, salvami, / per la tua potenza rendimi giustizia..." (Sal 54,3.5-6).
Il salmo dovrebbe riferirsi ad un momento assai drammatico della vita di Davide, ormai sul punto di cadere nelle mani di Saul che voleva ucciderlo. La Liturgia, però, intende indubbiamente riferirlo a Cristo, che solo in Dio ha avuto "sostegno" nel dramma atroce della sua passione, quando perfino i più fidi lo hanno abbandonato.

"Il Figlio dell'uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini..."
Ma cerchiamo adesso di esaminare il brano di Vangelo, che nella sua prima parte contiene la profezia di Gesù sulla sua prossima passione (Mc 9,29-32) e nella seconda parte contiene un forte richiamo all'umiltà per i suoi apostoli, che lungo la strada avevano bisticciato chi fra di loro fosse "il più grande" (vv. 33-37).
"Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Istruiva infatti i suoi discepoli e diceva loro: "Il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà"..." (vv. 30-32).
Intenzionalmente Marco osserva che Gesù si trova di nuovo solo con i suoi discepoli, come era già avvenuto nell'occasione del primo annuncio della passione (8,27.32-33). Se neppure i suoi più intimi, a incominciare da Pietro, riuscivano ad accettare l'idea di un Messia "sofferente", che cosa poteva fare la folla?
È per questo che egli neppure "voleva che qualcuno sapesse" (v. 30) dei suoi spostamenti, adesso che sta incamminandosi verso Gerusalemme, dove si consumerà il suo martirio. Nessuno ha il diritto di trattenerlo o di distrarlo dal suo obiettivo. In tal modo l'evangelista mette in evidenza non solo la difficoltà di afferrare il "mistero" del Cristo nella sua totalità e in tutte le sue più tragiche conseguenze, ma anche la sua assoluta "libertà" da ogni condizionamento di uomini e di cose.
Questo secondo annuncio della passione è più sobrio del primo (8,31); è però caratterizzato da quel generico "sta per esser consegnato nelle mani degli uomini" (v. 31), che va molto oltre i "capi" dei Giudei che lo condanneranno a morte, per includervi anche i Romani e tutti gli "uomini" per i quali egli sta per sacrificare se stesso. In realtà, la forma passiva del verbo (in greco paradídotai) allude al disegno del Padre, che Gesù non può non attuare. È come una "fatalità" che incombe sulla sua vita! Al termine però ci sarà il trionfo: "...dopo tre giorni, risusciterà" (v. 31).
Nonostante il balenio della vittoria, però, gli apostoli "non comprendono" (v. 32) queste parole, sia nella parte in cui si riferiscono all'umiliazione del Messia, sia in quella in cui si riferiscono alla sua glorificazione: l'umiliazione sembrava ad essi una cosa assurda; la glorificazione, poi, non solo non l'avevano esperimentata, ma non riuscivano neppure ad immaginarsela!
Di qui quel senso di "paura" che li immobilizzava: "...avevano timore di chiedergli spiegazioni" (v. 32). La stessa "paura", che bloccherà le donne proprio davanti al fatto della risurrezione (Mc 16,8).

"Di che cosa stavate discutendo lungo la via?"
Contrastante con questo atteggiamento di "paura" davanti al mistero della sofferenza è la scena che Marco aggiunge, relativa all'infantile disputa degli apostoli sul "primo" posto. Ed è un contrasto volutamente sottolineato dall'evangelista, per dimostrare quanto siano divergenti le vie di Dio da quelle degli uomini: mentre Gesù esalta l'umiltà fino all'annullamento di sé, gli apostoli cercano di strapparsi a vicenda un brandello di inconsistente prestigio!
È certo che in tal modo, né ora né mai, arriveranno a "comprendere" le parole che Gesù aveva loro detto per la seconda volta. Però egli non diffida di poterli aiutare a "capire" almeno qualcosa del suo mistero: perciò si mette a ammaestrarli di nuovo.
"Giunsero intanto a Cafarnao. E quando fu in casa, chiese loro: "Di che cosa stavate discutendo lungo la via?". Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso fra loro chi fosse il più grande..." (vv. 33-37).
È significativo il "silenzio" dei Dodici (v. 34) davanti all'imbarazzante domanda di Gesù sull'oggetto della loro discussione "lungo la via" (v. 33). Esso sta a dire un senso di vergogna e anche di resipiscenza: automaticamente avvertono la immensa distanza che li separa dal Maestro! Mentre egli si incammina sulla "via" della passione, essi si immiseriscono in una vacua questione di precedenza, come talora avviene anche nelle nostre comunità, perfino religiose, dove si perdono i contorni veri delle cose!

"Se uno vuol essere il primo, sia l'ultimo"
Egli, però, non si ferma qui. "Sedutosi", come facevano normalmente i "maestri" a quel tempo, proferisce una sentenza, che sconvolge radicalmente i più normali modi di pensare e di comportarsi fra gli uomini: "Se uno vuol essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti" (v. 35).
Gesù non predica l'anarchia: è convinto che ci debba essere in ogni comunità, e anche nella Chiesa, un "primo", o dei "primi" che provvedano per i fratelli. Soltanto, capovolge il significato dell'autorità e della presidenza: solo chi è capace di mettersi al "servizio" di tutti, considerando gli altri da più di sé per intelligenza, bontà, grazia, capacità, è degno di stare al "primo" posto. Nel momento stesso in cui bramo il primo posto per emergere, affermarmi, essere di più degli altri, me ne dimostro palesemente indegno: esso non è un gioco per le piccole o grandi ambizioni, ma una "messa in croce" per essere di aiuto ai fratelli. Gesù ha acquistato la sua "regalità" morendo sulla croce.
Infatti, più tardi, egli ripeterà quasi ad litteram la stessa sentenza, collegandola proprio con la sua morte di croce: "Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti" (10,43-45). Egli ha dato l'esempio di come si possa essere "il Signore" (= Kyrios) di tutti, prostrandosi però a lavare i "piedi" dei suoi apostoli (Gv 13,1-20).

"Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me..."
Non contento di questa lezione già così forte, data ai suoi discepoli, Gesù aggiunge un gesto esterno di commento a quello che aveva detto, per renderlo ancora più incisivo: prende un "bambino", lo abbraccia, lo pone in mezzo al gruppo dei Dodici e lo propone loro come esempio.
Già il fatto di interessarsi ad un bambino, che nella società antica, sia giudaica che pagana, era privo di ogni diritto, è di per sé rivoluzionario: più tardi troveremo ancora Gesù che abbraccia e benedice i fanciulli (Mc 10,16).
Più rivoluzionaria ancora, però, è la sentenza con cui Gesù commenta il suo gesto: "Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato" (v. 37).
Nel contesto in cui è attualmente inserita, essa vuol dire almeno due cose: la prima è che trovarsi ad essere l'ultimo, non considerato da nessuno, come erano allora i bambini, ci fa rassomigliare di più a Cristo che si identifica appunto con i più umili. Gli apostoli, se vogliono essere davvero i "segni" della sua presenza in mezzo agli uomini, devono farsi come "bambini", diventare gli ultimi: solo allora saranno i primi!
La seconda cosa che la sentenza vuol dire, al di là del gesto simbolico, è il valore immenso e la dignità di ogni bambino: in ognuno di questi "piccoli" è misteriosamente presente Cristo, così come lui è presente in ognuno che ha fame, che ha sete, che è malato, che è prigioniero, ecc. Ed è presente per garantirne la dignità e il rispetto, per proteggerne la debolezza e segnalare il rischio continuo in cui essi si trovano di venire strumentalizzati, corrotti, sfruttati, perfino respinti e assassinati nel seno della madre. Gesù ci dice invece che essi sono il "sacramento" del suo amore e di quello del Padre celeste: "Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato" (v. 37).

"La sapienza che viene dall'alto è anzitutto pura, poi pacifica..."
È precisamente nel riscoprire il valore delle cose semplici, come il sorriso e la carezza di un bambino, oppure il non far pesare la propria autorità o autorevolezza, se l'abbiamo, il non richiedere di più di quello che ci spetta, che consiste la vera "sapienza", di cui ci parla san Giacomo (3,16-4,3) nella seconda lettura. Tale "sapienza viene dall'alto" (v. 17), cioè è un dono di Dio che può essere solo supplicato umilmente e insistentemente. Ma quando è venuta nel nostro cuore, essa, che è "pacifica" (v. 17), porterà abbondanti frutti di "pace" per noi e per gli altri.
Infatti, "da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra!" (4,1-2). Difficilmente si poteva descrivere in maniera più veristica il guasto che produce nel cuore dell'uomo e nella società la folle "brama" di primeggiare e di possedere.
Anche alla luce di queste considerazioni appare l'urgenza di recuperare l'insegnamento di Gesù: "Se uno vuol essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti" (Mc 9,35). Soprattutto all'interno della Chiesa, dove lo spirito di "servizio" dovrebbe essere la regola; oltre che nel convivere civile, dove spesso gli uomini si sbranano fra di loro, pur di conquistare quello che ad essi appare un posto che appena appena "riluce".

        Da CIPRIANI SETTIMO

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