CIPRIANI SETTIMO SDB"Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti"

6 settembre2015 | 23a Domenica - Tempo Ordinario B | Appunti per Lectio
"Ha fatto bene ogni cosa:
fa udire i sordi e fa parlare i muti"
"Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti", grida la folla ammirata, dopo che Gesù, di ritorno dalla regione di Tiro, aveva guarito un sordomuto, nonostante il severo
"comando" ad essa rivolto di "non dirlo a nessuno" (Mc 7,36-37).
Con tali parole la gente intendeva collegare il miracolo, operato da Gesù, con un noto testo di Isaia, in cui il profeta preannuncia sorprendenti gesti di salvezza e prodigiose trasformazioni nella natura stessa come segno della presenza salvante di Dio nei tempi "messianici": "Allora si apriranno gli occhi dei ciechi / e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. / Allora lo zoppo salterà come un cervo, / griderà di gioia la lingua del muto..." (Is 35,5-6).
Collegando poi l'operato di Gesù con quel brano, la folla intendeva anche riconoscere che Gesù era il Messia "preannunciato" dai profeti. Almeno questa è l'intenzione di Marco al momento in cui scrive il suo Vangelo e rimedita sul significato teologico dei detti e dei fatti del Signore.

"Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi"
Questa è sicuramente la ragione per cui il testo di Isaia, appena ricordato, viene proposto nella prima lettura (35,4-7).
Esso fa parte della "piccola apocalisse" isaiana (cc. 34-35), così chiamata perché questi capitoli ci presentano una descrizione degli ultimi combattimenti che Jahvè sosterrà contro le nazioni pagane in generale e contro Edom in particolare (c. 34), seguita dall'annuncio che Gerusalemme sarà ristabilita in tutto il suo splendore (c. 35). Lo stile immaginifico e fantastico è tipico del genere letterario "apocalittico". Insieme alla precedente, più ampia, "apocalisse di Isaia" (cc. 24-27), dovrebbero appartenere all'ultima tappa di composizione del libro (VI sec. a.C.), date le forti rassomiglianze con il Deutero-Isaia (cc. 40-55).
Il testo inizia invitando gli Ebrei, in esilio a Babilonia, ad aver fiducia nella imminente liberazione: "Dite agli smarriti di cuore: / "Coraggio! Non temete; / ecco il vostro Dio... / viene a salvarvi"" (v. 4).
Dopo di ciò si descrivono, in forma poetica, i prodigi che Dio compirà negli uomini e nella stessa creazione per convincere i Giudei increduli che egli è veramente all'opera per salvare il suo popolo. "Allora si apriranno gli occhi dei ciechi / e si schiuderanno gli orecchi dei sordi... / La terra bruciata diventerà una palude, / il suolo riarso si muterà in sorgenti d'acqua" (vv. 5-7).
Nelle ultime espressioni è evidente il riferimento ai prodigi del "primo" esodo: lo sgorgare dell'acqua dalla roccia, pur in mezzo al deserto, l'ingresso nella terra dove scorre "latte e miele", ecc.
I "ciechi" che riacquistano la vista e i "sordi" che riacquistano l'udito, ecc., più che alludere a miracoli veri e propri, vogliono sottolineare il senso di stupore che colpirà tutti davanti al prodigio della strepitosa liberazione d'Israele, che può finalmente ritornare nella sua terra. Il "miracolo" vero è che Dio liberi il suo popolo! Questo genererà tale meraviglia, che sarà come un aprire gli "occhi" e gli "orecchi" per vedere, sentire e "gioire" di cose prima neppure immaginabili.
Alla luce del Nuovo Testamento il testo venne riletto in chiave di "realizzazione" profetica e fu applicato ai miracoli compiuti da Gesù sui malati. Ecco, infatti, quello che Cristo stesso manda a dire a Giovanni Battista in prigione, che gli aveva inviato alcuni suoi discepoli: "Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito... e beato colui che non si scandalizza di me" (Mt 11,5.6).

"E gli condussero un sordomuto..."
E in chiave di "realizzazione" profetica lo rilegge anche Marco nell'episodio della guarigione del sordomuto (7,31-37), facendola commentare dalla folla con le parole che abbiamo sopra ricordato.
A proposito di questo miracolo, c'è da osservare che è esclusivo di Marco e non trova alcun riscontro negli altri Sinottici. Anche il modo di narrare, semplice, movimentato ed efficace nello stesso tempo, è caratteristico del secondo evangelista.
Interessa prima di tutto la situazione geografica, in cui si inserisce l'episodio: Gesù si trova in territorio "pagano" (Tiro, Sidone, la Decapoli), rispettivamente al nord e ad est della Galilea. In questa zona egli aveva già guarito la donna sirofenicia e qui avverrà anche la seconda moltiplicazione dei pani. Questo sta a dire che a Gesù interessa la salvezza dei pagani, oltre che degli Ebrei.
E anche la guarigione del sordomuto, con tutto il "simbolismo" di cui è carica, vuol significare che nessuno ormai è estraneo alla salvezza, a condizione di sapere e volere porgere "ascolto" alla parola di Dio. Egli diventa perciò "simbolo" di tutti i futuri credenti, da qualsiasi razza e paese provengano.
Sorprendono poi i gesti di Gesù, che hanno quasi del magico e rimandano a pratiche terapeutiche in uso a quei tempi: egli pone le dita negli orecchi del sordomuto, tocca con la saliva la sua lingua, guarda verso il cielo, emette un sospiro e grida: "Effatà", cioè "Apriti!".
In realtà, non sono gesti magici, ma storico-simbolici per affermare come una specie di trasmissione della sua potenza salvante, che si comunica attraverso la sua umanità ad un'altra umanità sofferente. Cristo afferra tutto l'uomo, così come si trova davanti a lui. È significativo soprattutto quel "sospiro", che è piuttosto un "gemito" secondo il testo greco (esténaksen = emise un gemito) e che esprime tutta la partecipazione di Gesù alla sofferenza altrui. Anche quel "guardare verso il cielo" (v. 33) esprime di dove viene a Gesù la "forza" per compiere il prodigio: non è magia, la sua, ma "potenza" che viene dall'alto.

"E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua"
Il fatto però, oltre alla sua realtà oggettiva, contiene una forte carica simbolico-allusiva e perciò trascende, in un certo senso, se stesso: esso allude a tutti gli uomini, siano essi giudei o pagani, che hanno ancora le orecchie "chiuse" all'ascolto della parola e perciò non possono "proclamare" le meraviglie della salvezza operate in loro dalla fede. Del sordomuto guarito si dice appunto che, non appena "gli si aprirono gli orecchi, si sciolse anche il nodo della sua lingua e parlava correttamente" (v. 35).
Questo spiega perché già per tempo l'episodio del sordomuto fu interpretato in chiave "sacramentale" e fu trasferito di peso nell'amministrazione del battesimo. Nel rito attuale il gesto dell'effatà è stato trasferito verso la fine, quasi come riepilogo di tutto il significato del sacramento battesimale. Mentre il celebrante, sull'esempio di Gesù, tocca con il pollice le orecchie e le labbra del battezzato, pronuncia questa formula augurale: "Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola e di professare la tua fede a lode e gloria di Dio Padre".
In fin dei conti, tutto il senso della vita cristiana è contenuto in quei gesti e in quella parola che pronunciò allora Gesù: "Apriti!". Avere gli orecchi "aperti" per "ascoltare" la sua parola, lasciarsi da essa trasformare come avvenne per il sordomuto in quella occasione, ed annunciare apertamente a tutti la fede, testimoniata dalla nostra vita: questo significa essere fedeli al nostro battesimo.
Il miracolo del sordomuto, perciò, non è una storia del passato, ma una realtà del presente che, oltre tutto, si ripete più d'una volta nella nostra vita: infatti, pur guariti dalla sordità, si rischia continuamente di tornare ad essere sordi e, soprattutto, di restare muti. Anzi, normalmente si è muti proprio perché si è sordi: non abbiamo nulla da "proclamare", perché non sappiamo "ascoltare" con docilità ed attenzione la "parola"!
Perciò abbiamo tutti bisogno che il Signore ci guarisca sempre da capo, come dice meravigliosamente sant'Agostino: "Cristo rese ai ciechi gli occhi che la morte avrebbe ancora chiusi; risuscitò Lazzaro, che sarebbe dovuto ancora morire... Con queste azioni terrene, che si vedevano, costruiva la fede in ciò che non si vede. Il Signore fece tutto ciò per incitare gli uomini alla fede. E ora si compiono guarigioni maggiori, in vista delle quali, allora, egli non disdegnò di mostrare quelle minori. Oggi il corpo cieco non apre gli occhi per miracolo del Signore, ma il cuore cieco apre gli occhi alla parola del Signore; oggi il cadavere mortale non risorge, ma risorge l'anima che giaceva morta nel cadavere vivente; oggi le orecchie corporee e sorde non si aprono alla voce, ma quanti hanno chiuse le orecchie del cuore e poi le spalancano alla parola di Dio! Tanto che credono coloro che non credevano e vivono bene coloro che vivevano male e obbediscono coloro che disobbedivano".

"Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d'oro al dito..."
E non è facile "obbedire", cioè avere gli orecchi "aperti" alle esigenze della parola in ogni situazione della vita. Così, ad esempio, era una comunità "sorda" quella a cui si rivolge san Giacomo, nella quale non pochi cristiani si comportavano secondo i vecchi (e purtroppo sempre ritornanti!) schemi di adulazione e di "favoritismo" per i ricchi, mentre venivano "emarginati" i "poveri".
Ecco la vivacissima descrizione di una assemblea liturgica, nella quale il Vangelo veniva indubbiamente proclamato, ma era anche puntualmente disatteso: "Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d'oro al dito, vestito splendidamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite: "Tu, siediti qui comodamente", e al povero dite: "Tu mettiti in piedi lì", oppure: "Siediti qui ai piedi del mio sgabello", non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi?" (Gc 2,2-4).
Davanti a Dio non si è tutti uguali? Non ha forse detto Gesù ai suoi: "Voi tutti siete fratelli" (Mt 23,8)? E non ha egli dato le sue "preferenze" ai "poveri", esaltando lo "spirito" di povertà nella prima beatitudine? È evidente perciò che quei cristiani stavano tradendo il Vangelo nel momento stesso in cui, come comunità riunita liturgicamente, credevano di proclamarlo al mondo.
Era una "fede" falsa la loro, come dice ancora l'autore della lettera, perché "mescolata" all'ascolto di altre voci, provenienti dalle vecchie pratiche di vita, dai vecchi egoismi, dallo spirito di privilegio o di interesse, che è sempre pronto ad avvinghiare e risucchiare il cuore dell'uomo. Perciò esorta a purificarla, perché il suo annuncio arrivi distinto e sonoro agli orecchi degli ascoltatori: "Fratelli miei, non mescolate a favoritismi personali la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria" (v. 1).
L'ultimo versetto, poi, capovolge completamente le prospettive: "Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano?" (v. 5). Qui è anche più evidente l'invito ad "ascoltare". Se ben "ascoltata", poi, la parola farà vedere come sia, oltre che anticristiana, anche stolta quella discriminazione fra ricchi e poveri che si operava nella comunità; infatti, davanti a Dio, i veri "ricchi" sono i "poveri" che hanno la fede e che lo "amano" con tutto il cuore. Essi sono i veri "eredi del regno"!
Perciò se una "preferenza" deve essere fatta a qualcuno, sia fatta ai più poveri, ai quali anche Dio concede maggiore attenzione. Poiché la vita cristiana vuol essere uno sforzo di "imitare" Dio, c'è qui una via aperta ad un impegno senza fine.

 Da CIPRIANI SETTIMO

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