CIPRIANI SETTTIMO "Chi non è contro di noi, è per noi"

27 settembre 2015 | 26a Domenica - Tempo Ordinario B | Appunti per Lectio
"Chi non è contro di noi, è per noi"
Continua nel brano evangelico odierno l'ammaestramento di Gesù ai suoi apostoli i quali, dopo essere stati invitati a farsi "servi" di tutti i
fratelli, vengono qui esortati ad avere un animo grande e accogliente, che accetta tutti coloro che hanno un qualche amore alla verità, siano pur militanti al di fuori del gregge di Cristo: "Chi non è contro di noi, è per noi" (Mc 9,40).
La fede infatti, se non è ben capita, rischia di diventare un elemento di "discriminazione" fra gli uomini e di creare contrapposizioni fra di loro. Gesù, invece, insegna a superare gli steccati e ad accogliere tutti i "semi di verità" sparsi nel mondo: ogni "verità", sia pure parziale, è sempre un inizio di fede, o una predisposizione alla fede! Soprattutto chi annuncia il Vangelo deve saper scoprire i punti di contatto con gli altri per innestarvi, direi quasi naturalmente, il messaggio della salvezza. È così che la fede non diventerà mai "polemica" ed emarginante, ma solo ed essenzialmente aggregante e "caritativa", e perciò sempre aperta al dialogo.

"Fossero tutti profeti nel popolo del Signore!"
Già la prima lettura si muove nello sfondo di queste riflessioni. Per invito di Dio stesso, Mosè si era scelto settanta uomini, fra gli "anziani" d'Israele, perché lo coadiuvassero nella direzione del popolo (Nm 11,16-24). A tale scopo, però, essi avevano bisogno dello "spirito" che Dio aveva concesso abbondantemente a Mosè. Nel giorno stabilito essi si radunarono attorno alla "tenda del convegno" e ricevettero lo "spirito" di profezia (Nm 11,25).
Con questo antefatto è collegato l'episodio riferitoci dalla prima lettura: due "anziani", Eldàd e Medàd, che non erano stati scelti per far parte dei settanta e perciò non erano andati alla tenda dell'alleanza, furono anch'essi improvvisamente presi dallo "spirito" e "si misero a profetizzare nell'accampamento" (v. 26). Di qui lo stupore della gente: tanto che un "giovane", un po' troppo zelante, Giosuè, figlio di Nun, corse subito a riferire la cosa a Mosè. "Ma Mosè gli rispose: "Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!"" (vv. 28-29).
È meravigliosa la risposta di Mosè alla troppo zelante richiesta del giovane Giosuè: non bisogna imprigionare lo "spirito", pensando quasi di poterlo dominare e farlo camminare solo su certi binari, magari quelli che sembrano più sicuri!
Il tentativo di "imprigionare" lo "spirito" racchiude in sé un doppio peccato: il primo contro Dio, di cui si vorrebbe arrivare ad avere una specie di controllo, lui che è il sommamente "libero"! Il secondo contro i fratelli, di cui vorremmo misurare la capacità di risposta alle iniziative di Dio secondo i canoni fissati da noi, quasi che fossimo i "dominatori" e non piuttosto i "servi" degli altri. Forse che non sarebbe una comune ricchezza se tutti in Israele, e nella Chiesa, fossero "profeti" (v. 29), proprio come si augurava Mosè?
Non si può negare che più di una volta, nella lunga storia della Chiesa, si sia tentato di soffocare lo "Spirito", quando esso sconvolgeva schemi precostituiti di pensiero, o metteva in crisi un certo modo di intendere e di gestire la "istituzione", che non ha certo il "monopolio" della verità e tanto meno della santità.
Il Concilio Vaticano II ha riscoperto la fondamentale vocazione "profetica" di "tutto" il popolo cristiano sulla base dell'unica fede e dell'unico battesimo: "Il popolo santo di Dio partecipa pure dell'ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità; e coll'offrire a Dio un sacrificio di lode, cioè frutto di labbra acclamanti al nome di lui (cf Eb 13,15)".
C'è solo da augurarsi che ogni battezzato si lasci veramente guidare dallo "spirito di profezia" e, in comunione con tutti gli altri fratelli di fede, annunci al mondo, con la voce e con la vita, le "meraviglie" del Signore.

"Abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato"
La prima parte del Vangelo odierno (Mc 9,38-41) ci presenta una scena caratteristica, che ha non poca rassomiglianza con l'episodio del libro dei Numeri or ora ricordato: solo che, invece che di profezia, si tratta qui di atti di "esorcismo", fatti "nel nome" di Gesù da qualcuno che non era suo discepolo.
L'episodio dell'esorcista è facilmente ammissibile sia per l'epoca che per l'ambiente: sappiamo infatti, anche da altre fonti, di esorcisti ebrei i quali usavano determinate arti magiche. Gli stessi Atti degli Apostoli ci narrano qualcosa di analogo avvenuto ad Efeso (19,13-20), sia pure con risultati molto diversi.
Anche qui c'è un giovane, un po' troppo zelante, che denuncia subito a Gesù qualcosa che a lui sembra inammissibile: "Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri" (v. 38). Quel giovane era Giovanni che, anche da un passo di Luca (9,52-55), appare essere stato piuttosto intollerante: infatti, insieme al fratello Giacomo, chiese a Gesù di far venire "fuoco dal cielo" su un villaggio di Samaritani che non avevano voluto ricevere il Maestro, meritandosi però un forte rimprovero. Per questo i due furono anche chiamati "Boanerghes", cioè "figli del tuono" (Mc 3,17).
Si notino le affermazioni discriminanti del giovane apostolo: "Glielo abbiamo vietato perché non era dei nostri" (v. 38), quasi che Gesù fosse un oggetto da possedere con gelosia e non piuttosto un "dono" da condividere con il più gran numero possibile di persone!

"Non glielo proibite..."
È interessante perciò la risposta distensiva del Maestro: "Non glielo proibite, perché non c'è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi, è per noi" (vv. 39-40).
A prima impressione sembra che la risposta di Gesù sia opportunistica, tenda cioè a creargli un alone di simpatia: infatti, non ci può essere qualcuno "che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me" (v. 39). In realtà, essa mira molto più lontano: vuole educare gli apostoli a non considerarsi "possessori" della verità, ma "ricercatori" insieme con gli altri. In tal modo si diventa automaticamente "aperti" a tutti coloro che hanno in comune con noi qualche cosa: almeno il fatto di essere uomini e, se credenti in Cristo, anche molte porzioni di verità di fede.
Con la sconvolgente affermazione: "Chi non è contro di noi, è per noi" (v. 40), Gesù ha gettato in anticipo le basi del "dialogo" interreligioso fra gli uomini e dell'"ecumenismo" fra i cristiani, che la Chiesa ha recuperato con piena lucidità in questi ultimi tempi.
Solo apparentemente essa contrasta con un'altra notissima frase di Gesù: "Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde" (Mt 12,30; cf Lc 11,23). In realtà qui Gesù si pone come l'Assoluto per tutti: chi lo conosce per quello che è, non può non stare "con lui"; altrimenti "disperderebbe" e si perderebbe! Ciò non toglie, però, che ci siano "porzioni" di verità e di bontà anche altrove, che già sono un segno della sua presenza nel mondo: proprio questa può essere la via che porta lentamente a lui. È per questo che non bisogna cancellare assolutamente qualsiasi pur tenue "pista" nel deserto: per Gesù questo è sufficiente per arrivare misteriosamente al cuore degli uomini.
Ciò vale ovviamente sia per la Chiesa in quanto tale, che per i singoli cristiani: lo "Spirito" di Cristo agisce molto al di là dei confini della Chiesa, e perfino della stessa fede. Proprio perché Cristo è la "verità" totale, egli si trova dovunque ci sia un frammento di verità: in tal modo direi che Gesù è più grande del suo stesso Vangelo, annunciato e predicato.
Non bisogna essere gelosi, come Giovanni o come Giosuè, che altri abbiano lo "Spirito" del Signore, o che invochino o rispettino il suo "nome": c'è solo da goderne e da ringraziarne il Padre celeste!

"Chiunque vi darà da bere un bicchiere d'acqua... non perderà la sua ricompensa"
Così certamente nella primitiva evangelizzazione, a cui sembra riferirsi Marco, si doveva essere verificato più di una volta che dei predicatori cristiani venissero accolti in casa di Ebrei o di pagani con benevolenza, anche senza condividerne la fede: era già un accoglierli "nel nome" di Cristo il riceverli per una certa umana simpatia o per riguardo. Orbene, continua Gesù, "chiunque vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome, perché siete di Cristo, vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa" (v. 41).
Il cristianesimo non è un'etichettatura, ma una prassi di vita, che talvolta si trova misteriosamente anche in chi cristiano non è! Ritorna tutto il discorso fatto precedentemente.
Oltre tutto, questo dover affidarsi alla benevolenza altrui esige senso di umiltà e di discrezione: così, già in partenza, l'apostolo di Cristo riconosce di non aver potere alcuno sugli altri, ma solo un "servizio" da offrire.
È già il tema della "piccolezza", che però nel verso che segue immediatamente si estende ad ogni cristiano, specialmente ai membri più "deboli" e fragili della comunità. Guai perciò ad essere per loro occasione di "scandalo"! "Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, sarebbe meglio per lui che gli si metta una macina girata da asino al collo e venga gettato nel mare" (v. 42).
È chiaro dunque che i più "piccoli" non sono i bambini, ma i cristiani in genere ("piccoli che credono"), come abbiamo già detto, per i quali in realtà la fede può essere sempre messa in pericolo. "L'immagine della grossa e pesante macina da mulino legata al collo dell'annegato non solo fa un certo effetto, ma nell'ambiente di Gesù richiama la somma sventura di un disgraziato che rimane privo di sepoltura".

"Se la tua mano ti scandalizza, tagliala..."
Introdotto il tema dello "scandalo", esso viene sviluppato con tre immagini riprese da organi fondamentali per la nostra vita, in ordine ascendente (mano, piede, occhi), per dire che il cristiano deve essere disposto a sacrificare tutto pur di salvarsi dalla perdizione eterna: "Se la tua mano ti scandalizza, tagliala: è meglio per te entrare nella vita monco, che con due mani andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile..." (vv. 43-48).
Anche la perdita di ciò che è più prezioso per una persona, come la mano, il piede, l'occhio, non è paragonabile al danno che le deriverebbe dall'adesione al peccato che porta fatalmente alla "perdizione" eterna. Quest'ultima è espressa dall'immagine della Geenna, in ebraico Ghe-Hinnon, cioè valle di Hinnon, a sud-ovest di Gerusalemme, dove si gettavano i rifiuti della città per esservi bruciati. Proprio a cagione del fuoco che vi ardeva in continuazione, all'epoca del Nuovo Testamento essa divenne sinonimo del luogo di punizione per i malvagi.
Come si sarà notato dal testo, qui lo "scandalo" non è quello che altri possono dare ai più "piccoli" nella comunità e di cui abbiamo parlato precedentemente (cf v. 42), ma è piuttosto quello di cui ognuno può essere strumento a se stesso: è certo, infatti, che il mio "occhio" può essermi occasione di seduzione e perfino di "adulterio", come ci ricorda Matteo (5,28) nel discorso della montagna. Di qui l'invito di Gesù a tagliare netto con qualsiasi occasione di male, anche se questo può farci sanguinare il cuore. L'importante è "salvare l'anima", cioè se stessi, anche se dovessimo momentaneamente perdere il nostro corpo, o parte di esso.
È chiaro che il discorso non è da prendersi nella materialità della lettera, ma per l'impegno morale e spirituale che significa ed esige. In altre parole, abbiamo qui lo stesso paradosso esposto altrove da Gesù: "Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà. Che giova infatti all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima? E che cosa potrebbe mai dare un uomo in cambio della propria anima?" (Mc 8,35-37).

"Piangete e gridate, ricchi, per le sciagure che vi sovrastano"
Ed allora che cosa ci gioveranno le ricchezze che avremo accumulato, soprattutto se sono frutto, come il più spesso avviene, di ingiustizie e di sfruttamento dei fratelli? È l'austera e impietosa lezione che ci viene dalla seconda lettura, che continua la presentazione della lettera di Giacomo.
Con accenti adirati e tempestosi, alla maniera degli antichi profeti d'Israele, Giacomo si rivolge ai ricchi della sua comunità, minacciando loro la rovina finale, se continueranno ad opprimere il povero e a defraudare della giusta mercede gli operai che lavorano nelle loro terre:
"Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono state divorate dalle tarme; il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine; la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni!..." (vv. 1-3).
L'ironia dell'ultimo versetto è bruciante: quello che i ricchi ingiusti e spietati avevano "accumulato", considerandolo "tesoro" prezioso, in realtà diventerà "ruggine" che corroderà le loro stesse carni, così come la ruggine corrode il ferro. Volevano possedere sicurezza con il denaro, per proteggere la loro "vita", e invece la "perderanno" per sempre! Non hanno avuto il coraggio di "cavarsi" l'occhio, da cui nasce ogni cupidigia, e adesso "con tutti e due saranno gettati nella Geenna" (Mc 9,47).
È una lezione molto austera quella della Liturgia di oggi: conviene davvero "perdersi" per "ritrovarsi"!

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