Don Giorgio Scatto "Il significato dell'abbraccio del bambino"

5° Domenica del Tempo Ordinario (anno B)
Letture: Sap 2,12.17-20; Gc 3,16-4,3; Mc 9,30-37
MONASTERO MARANGO CAORLE (VE)
1 Gesù, attraversata la Galilea, giunge per l’ultima volta a Cafarnao, il luogo degli inizi del suo ministero pubblico. Il viaggio non era stato proprio tranquillo, ma era stato movimentato da una disputa piuttosto accesa. Dopo il primo annuncio della passione era esplosa la protesta di Pietro, che rimproverava aspramente Gesù per la sua decisione di voler salire a Gerusalemme, dove avrebbe dovuto affrontare
molte sofferenze, il disprezzo più assoluto da parte delle autorità religiose e la loro decisione di condannarlo a morte.
Lungo la “via”, che è il simbolo della sequela dietro a Gesù, Pietro voleva evitare a tutti i costi l’umiliazione fino alla morte del suo amico; voleva fargli strada, alla maniera del mondo. Gesù lo chiama “satana” e lo invita con parole durissime a tornare al suo posto, dietro di lui.
Continuando il cammino, Gesù aveva ripreso a parlare apertamente: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini». E’ l’umanità in generale, e non più soltanto i capi dei giudei, che Marco coinvolge nella morte di Gesù: ogni uomo, potenzialmente, potrebbe mettere a morte il Figlio dell’uomo.
In questo «venir consegnato» c’è una sensazione acuta di impotenza e di orrore. C’è un dolore mortale. Riecheggiano le parole del libro della Sapienza: «Mettiamolo alla prova con violenza e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. Condanniamolo ad una morte infamante».

Gesù ha coscienza di andare incontro ad una morte crudele, ma non possiamo affermare che abbia previsto nei dettagli il suo futuro. Gli annunci della passione non vogliono dirci che Gesù ha avuto dinanzi ai propri occhi lo scenario preciso di ciò che gli sarebbe accaduto. Sono piuttosto dei testi redatti da autori che erano diventati familiari ai racconti della passione, e che li hanno voluti trasmettere a noi riaffermando, lungo la via che anche noi dobbiamo percorrere, la loro inevitabile e drammatica attualità. Cito un testo, tra i molti, del grande teologo Urs Von Balthasar: «Gesù è un uomo autentico. Ora la nobiltà inalienabile dell’uomo consiste nel potere, e perfino nel dover progettare liberamente il disegno della propria esistenza in un avvenire che gli rimane ignoto. Se quest’uomo è un credente, l’avvenire nel quale si abbandona e si proietta, è Dio nella sua libertà e nella sua immensità. Privare Gesù di questa possibilità, e farlo avanzare verso una mèta conosciuta in anticipo e distante soltanto nel tempo, ciò equivarrebbe a spogliarlo della sua dignità di uomo».
Rimane il fatto che per noi risulta estremamente difficile mettere d’accordo la chiara consapevolezza di Gesù sul proprio destino di sofferenza e di morte – espresso nei tre annunci della passione – e la condizione oggettivamente fragile della sua condizione umana, ignara, come tutti noi, di ciò che accadrà domani.

Continuando la nostra lettura del testo notiamo che c’è una reazione scomposta da parte dei discepoli, anche dopo il secondo annuncio della passione: nessuno di loro ha capito, e nemmeno vuole capire: hanno infatti paura di porgli delle domande. Piuttosto parlano animatamente di altro.
«Per la strada avevano discusso tra di loro chi fosse il più grande».
Il tema domina ancor oggi le prime pagine dei giornali. Anche la Chiesa, spesso, ha voluto prendere posto tra i “grandi”. E non è detto che non sia più tentata di farlo. Ma “seguire Gesù” comporta un capovolgimento radicale delle posizioni e delle precedenze stabilite nel mondo. Nella società palestinese del tempo di Gesù, l’aspirazione ad essere “grande” veniva fuori continuamente, nelle assemblee religiose, nell’amministrazione della giustizia, nell’assegnare i posti a tavola, in qualsiasi attività. Allora come oggi, anche in mezzo a noi, anche nelle nostre comunità.
Gesù «sedutosi, chiamò i Dodici».
E’ l’atteggiamento del Maestro, che deve insegnare qualcosa di importante. Esige, da parte dei discepoli, una grande disponibilità all’ascolto
«Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
Forse questa è una delle frasi originali, uscite dalla bocca stessa di Gesù. E il senso di queste parole è sotto gli occhi di tutti: Gesù è il primo perché si è fatto ultimo e servo di tutti.

«Preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: "Chi accoglie anche uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me"».
Nella versione di Marco non c’è l’insistenza a farsi piccoli, come in Matteo: il bambino come modello di umiltà, di semplicità, di fiducia, condizioni indispensabili per poter entrare nel Regno.
Marco insiste invece sull’accoglienza dei piccoli, nel nome di Gesù. Nel testo di Marco il bambino simboleggia le realtà più insignificanti agli occhi degli uomini, tutto ciò che non ha importanza, che non conta, che non è degno di attenzione, che si trova in una situazione di inferiorità.
Abbracciando il bambino, Gesù si identifica con chi è irrilevante, non ha prestigio, è debole, indifeso, bisognoso di assistenza, giudicato ‘diverso’. Oggi, per esempio, Gesù abbraccerebbe per primo lo zingaro dei campi rom, lo straniero che fugge dalla guerra e si trova davanti il filo spinato, il malato terminale, lasciato solo in un misero ospedale di periferia. Oggi Gesù abbraccerebbe chiunque è minacciato, torturato, umiliato e offeso per la sua fede religiosa o per il suo credo politico.
L’attenzione del discepolo, concentrata sui diritti di precedenza, sulla grandezza mondana, viene spostata sull’esigenza di accogliere qualcuno che è “grande” perché oggetto di attenzione da parte di Dio.

Sarei tanto contento di leggere questa pagina di vangelo nella carne di ciascuno di noi e nella vita delle nostre comunità, piccole o grandi.
Sulla strada, tutta in salita, di Gerusalemme.


Giorgio Scatto

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