PADRE BALDO ALAGNA "CHI VUOLE ESSERE LEADER … SIA SERVO !"

Commento alla Liturgia della Parola –XXV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) -- 20 settembre 2015
 Di colpo all’inizio di questa parola evangelica l’evangelista nota quasi come una pennellata in quadro raffigurante i discepoli davanti a certe scelte di Gesù di far silenzio con il secondo annuncio della passione: essi non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni. Avevano timore,
evidentemente, che la spiegazione fosse tale da infrangere i loro sogni e le loro speranze che andavano in ben altra direzione. Quei discepoli non sembrano molto lontani ai discepoli di oggi che magari conosciuto Gesù cominciano a sognare sogni di Gloria e sembra che Gesù con la “disciplina” del “discepolato” ci propone come direzione dello sguardo l’attraversare la Croce. L’evangelista Marco, come al solito, riassume e con­centra al massimo gli avvenimenti e le parole di Gesù e dal testo vorremmo più elementi. Noi abbiamo però la possibilità di saperne qualcosa di più, mettendo accanto al racconto di Marco quello degli altri due evangelisti – Matteo e Luca – che seguono in genere lo stesso ordine narrativo, anche se ognuno aggiunge dei det­tagli che l’altro non ha. E quella che gli esegeti chiamano la sinossi evangelica, cioè la messa in parallelo delle notizie su Gesù, e che ha dato ai tre Vangeli di Matteo, Marco e Luca il nome di Vangeli sinottici, vale a dire di racconti paralleli (sinossi = abbracciare con un solo sguardo, o ve­dere insieme). Questo fatto si rivela particolarmente illu­minante per capire il breve tratto del Vangelo odierno.

All’inizio la domanda di Gesù. L’evangelista Marco inizia con la domanda di Gesù su cosa avevano da discutere tanto animatamente per via, i discepoli tacquero, perché avevano discusso tra loro “chi fosse il più grande”. Un motivo piuttosto strano formulato così genericamente; Matteo però precisa che avevano di­scusso chi fosse il più grande nel regno dei cieli  (Mt. 18,1). Questo rende tutto chiaro; basta ricordare l’episodio della madre dei figli di Zebedeo (cf. Mt. 20, 20ss.). I discepoli, pensando imminente l’inaugurazione del Regno di Dio che concepivano ancora, alla maniera dei loro contempo­ranei, come un regno terreno con incarichi e onorificenze, cominciano a candidarsi ai posti di prima classe. Non è neppure difficile ricostruire il tenore dei loro discorsi: Pietro avrà fatto valere l’episodio recente di Cesarea, per dimostrare la sua superiorità sugli altri; Giuda avrà ricordato che a lui Gesù aveva già affidato le finanze dell’intero gruppo; Gia­como e Giovanni che erano stati scelti per assistere alla Trasfigurazione. I riflettori puntati su talenti o riconoscimenti magari reali ma che rinchiudono i discorsi su se stessi e le proprie aspirazioni gloriose.

Ma Gesù ha un altro piano. Allora Gesù li chiama vicino a sé e dice loro: Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti. C’era, nella casa che li ospitava, un bambino. Gesù lo fa veniva accanto a sé, se lo prende in braccio, e prosegue il discorso dicendo: Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me. Fu una delle frasi pronunciate da Gesù in quell’occasione, non certamente l’unica; ecco di nuovo la necessità di tener conto degli altri Sinottici. Mat­teo, infatti, riferisce un’altra frase di Gesù ancora più for­te, pronunciata in quell’occasione: Se non cambierete e non diventerete come i bambini, nel regno dei cieli non ci entrerete affatto (cf. Mt. 18, 3); come dire: altro che discu­tere chi in esso sarà il direttore megagalattico! Poche scene evangeliche sono più semplici di questa e più cariche di tensione e di luce; i pensieri dell’uomo si scontrano con i pensieri di Dio: ecco la vicinanza a distanza dei secoli! Gli apostoli non furono liberati definitivamente dai loro sogni terreni; vi ritorne­ranno sopra a più riprese (cf. Mc. 10, 35ss.; Lc. 22, 24ss.); ma certo nello sguardo del Maestro quel giorno essi dovet­tero misurare la distanza che li separava da lui e quanto cammino dovevano ancora fare per avvicinarsi alla sponda in cui lui li aspettava. Solo più tardi, dopo la Pasqua, tutto divenne loro chiaro e i loro pensieri combaciarono perfettamente con quelli di Gesù.

Chiamati alla stessa Speranza. Se i discepoli hanno gli stessi problemi nostri abbiamo la loro stessa chiamata e le stesse possibilità di santificazione. Non siamo anche noi di quelli che per strada, cioè nel­la vita, discutono e si danno da fare per essere i più grandi? Pure movimenti, gruppi, parrocchie, che possono avere la tentazione di pensare di essere i migliori rispetto ad altri. Ebbene, adesso « entrati in casa» con Gesù, egli si siede di nuovo e ci riunisce intorno a sé per istruirci, come fece quel giorno. Non fa lunghi discorsi; dice due sole frasi… a noi non solo ai discepoli di 2000 anni fa, a noi oggi : « Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti »; « Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli ». Siamo noi che dobbiamo moltiplicare le parole quasi per dar tempo a quelle frasi di stamparsi dentro di noi e di diventare, da parola che risuona all’orec­chio, parola che risuona nel cuore, cioè parola di vita.

Gli uomini vogliono essere leader: è un desiderio innato, primordiale; non è neppure un desiderio cattivo; in fondo, esso coincide con il desiderio di « essere », di valo­rizzare la propria esistenza, di salire più in alto. Questo in ogni campo: il bambino vuoi essere il primo a scuola e, se ciò non gli riesce, vorrà esserlo nei giochi; non c’è forse nessuno di noi, se sappiamo esaminarci bene, che per vi­vere non sente il bisogno di essere il primo in qualche cosa, fosse pure nella fama di essere il più sfortunato. Da che mondo è mondo, questa è stata la molla che ha spinto avanti gli uomini e lo stesso progresso raggiunto dall’uma­nità è figlio di essa. Non è dunque una cosa cattiva; è solo ambigua. Se uno vuol essere il primo…: dunque è lecito volerlo essere!; ciò che Gesù cambia radicalmente è il motivo di questo desiderio e, quindi, anche il modo di realizzarlo. Con queste parole Gesù dava un colpo mortale all’idea che gli uomini si son sempre fatta dell’autorità, del potere e del governo. La vera autorità non sta nel primeg­giare, nello spadroneggiare sugli altri, nell’affermare sé stessi e ridurre gli altri in schiavi, in clienti o in adulatori o gente da sfruttare per i propri interessi; sta nell’«essere primi per gli altri», nel mettere ciò che si è e ciò che si ha di buono a beneficio di tutti. Questo crea la nuova grandezza evangelica che è vera leadership dei discepoli, perché, se è vero che « i primi saranno gli ultimi », è vero anche che gli ultimi  saranno i primi (Mt. 20, 16).

Un vero rovesciamento di valori. I motivi di questa rivoluzione da una parte sono da vedere nel fatto che l’uomo ha peccato; il suo desiderio si è distorto fin dall’inizio; al posto dell’amore che si dona, nel suo cuore si è annidata la volontà di po­tenza, la sete di dominare che porta ad assoggettare l’al­tro, magari distruggendolo. Questa passione va sanata, l’uomo deve fare ormai un cammino contro corrente: per essere se stesso – quello vero e originario – deve lot­tare contro quest’altro se stesso, frutto del peccato, e così diventare creatura nuova. Da un’altra parte Gesù ci ha dato l’esempio: Io sto in mezzo a voi come colui che serve (Lc. 22, 27); Il figlio dell’uomo non è venuto per essere servito) ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti (Mc. 10, 45); egli che era Dio, cioè il primo, si è fatto il servo, cioè l’ultimo (cf. Fil. 2, 6-7). Gesù ci indica un’altra strada, la sua strada: aprire la mano che teniamo chiusa, perdere, farci come bambini. É questa, forse, una delle frasi del Vangelo più profonde e più difficili da capire; ma se cominciamo a praticare il servizio, il Signore ce la farà capire e sarà una rivelazione: tornare bambini significa tornare quello che l’uomo era quando uscì dalle mani di Dio (giacché Adamo fu creato anche lui bambino!), quando per essere lieto e per godere delle cose intorno a sé, non aveva ancora bisogno di pos­sederle solo per sé, di difenderle dai rivali; quando Eva era ancora la sua « compagna » e non la sua « proprietà ». Dobbiamo tornare a quell’infanzia, perché è di essa che i bambini sono anche oggi segno e ricordo.  Ora noi riceviamo colui che si è fatto davvero per noi l’ultimo e il servo di tutti, fino a farsi nostro cibo.

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