CIPRIANI SETTIMO SDB "Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono?"

1 novembre 2015 | 31a Domenica: TuttiSanti - Tempo Ordinario B | Appunti per Lectio
"Quelli che sono vestiti di bianco,
chi sono e donde vengono?"
La festa di oggi sembra fatta proprio a misura per ciascuno di noi: non intendiamo, infatti, celebrare qualche grandiosa figura di santo, che ci intimidisce con la sua statura gigantesca, per le opere ardite da lui compiute o per i prodigi che Dio ha operato per mezzo di lui. Si pensi a san
Paolo, a san Pietro, a san Benedetto, a san Francesco, a san Giovanni Bosco, a don Orione, a Massimiliano Kolbe, o a Padre Pio, e a tantissimi altri che non finiremmo di elencare
Questi hanno già la loro festa nel calendario: tutti li conoscono, li amano, li pregano, si affidano a loro come intercessori presso Dio.

I santi nostri "fratelli"
Oggi invece la Chiesa intende celebrare il ricordo di una "moltitudine immensa, che nessuno può contare", come ci dirà tra poco l'Apocalisse (7,9), di cristiani di ieri e di oggi, vicini e lontani, che hanno servito fedelmente il Signore Gesù, vivendo lo spirito delle "beatitudini" nella trama della vita di ogni giorno, con semplicità, umiltà e perseveranza: padri e madri di famiglia, operai, professionisti, giovani, religiosi e religiose, ammalati, sofferenti, gente che molte volte non ha contato nulla nella vita.
Tutti questi nostri fratelli nella fede, che già godono la visione di Dio, noi oggi ricordiamo nella preghiera, sentendoli vicini ai nostri bisogni e alle nostre necessità. Essi ci lanciano un appello ed una esortazione: alla santità appunto, che non consiste in cose straordinarie, o nel rifuggire dalle situazioni normali della vita, ma nel fare la volontà di Dio in ogni situazione della nostra esistenza.
E a questo ci chiama semplicemente il nostro battesimo, per mezzo del quale siamo "rinati" a vita nuova in Cristo: la santità è precisamente lo sviluppo coerente e doveroso del nostro battesimo.
Tutto questo ci ricordano gli infiniti santi che celebriamo oggi, molti dei quali sono passati accanto a noi: amici, parenti, conoscenti, forse nostro padre o nostra madre o i nostri figli. La festa di oggi, perciò, è l'esaltazione di quell'articolo di fede che recitiamo al termine del Credo e che forse talora ci sembra così lontano dalla nostra vita: "Credo... la comunione dei santi", mentre fa parte viva della nostra esperienza cristiana.
E nella "comunione dei santi" ci scambiamo tutto: la santità dei nostri fratelli viene ad arricchire la nostra vita, stimola i nostri propositi, ci trascina verso l'alto; la nostra situazione di militanza terrena e di fragilità, molte volte anche di peccato, viene presa a cuore, quasi fatta propria da loro, perché anche noi approdiamo, dopo tanti rischi, al porto della salvezza eterna.
È quanto cantiamo nel prefazio odierno: "Oggi ci dài la gioia di contemplare la città del cielo, la santa Gerusalemme che è nostra madre, dove l'assemblea festosa dei nostri fratelli glorifica in eterno il tuo nome. Verso la patria comune noi, pellegrini sulla terra, affrettiamo nella speranza il nostro cammino, lieti per la sorte gloriosa di questi membri eletti della Chiesa, che ci hai dato come amici e modelli di vita".

"Poi udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo"
Le varie letture bibliche illuminano, da vari punti di vista, la natura, le caratteristiche, le vie, la sorgente della santità.
In questo senso mi sembra assai interessante la prima lettura, ripresa dall'Apocalisse, in cui san Giovanni, con il suo solito linguaggio immaginifico-simbolico, prima di descriverci la rottura del settimo sigillo (8,11), che preannuncia ed attua il grande "giudizio" di Dio sulla storia, ci presenta una scena quasi di "catalogazione" degli eletti, cioè di coloro che hanno accettato di lasciarsi "sigillare" da Dio per la salvezza. In realtà, non si tratta tanto di una "numerazione" o di una "conta", quanto di una "garanzia" che Dio "proteggerà" da ogni male coloro che a lui si affidano.
"Dopo ciò vidi un angelo che saliva dall'oriente e aveva il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso il potere di devastare la terra e il mare: "Non devastate né la terra, né il mare, né le piante, finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi". Poi udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila, segnati da ogni tribù dei figli d'Israele... Dopo ciò apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani. E gridavano a gran voce: "La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all'Agnello"..." (Ap 7,2-4.9-10).
Stupisce in questa scena la quantità e l'universalità dei salvati. Essi provengono sia da Israele, rappresentato qui dai "centoquarantaquattromila segnati", cioè dodicimila per ogni tribù; sia dal mondo pagano: "una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (v. 9). Segno, questo, che per Iddio non ci sono barriere e che la sua salvezza è offerta a tutti senza distinzione.

"La salvezza appartiene al nostro Dio"
Un'altra cosa qui da osservare è che non tanto gli uomini conquistano da sé la loro salvezza, quanto è Iddio che li salva nella gratuità del suo amore. Lo dicono gli stessi eletti: "La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all'Agnello" (v. 10; cf v. 12).
Dio, però, non concede a prezzo facile la sua salvezza! È il senso della risposta alla domanda di uno dei vegliardi, che aveva chiesto chi fossero e "donde" venissero tutte quelle persone: "Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello" (v. 14). La "grande tribolazione", oltre che a indicare forse qualche ben precisa persecuzione (di Nerone o di Domiziano), allude a tutte le prove che la fedeltà al Vangelo immancabilmente porta con sé.
Anche le "vesti candide", rese tali perché intrise nel "sangue dell'Agnello", rimandano alla passione, alla lotta, alla sofferenza che non sono un "accidens" nella vita dei cristiani, ma ne costituiscono la trama giornaliera, se vogliono essere fedeli al loro Signore.

"Carissimi, fin d'ora siamo figli di Dio"
La seconda lettura ci offre un orizzonte più rasserenante. È ancora san Giovanni, che ci parla nella sua prima lettera e ci rimanda alla vera "sorgente" di tutta la santità, o piccola o grande, che noi possiamo realizzare nella nostra vita, cioè "l'amore di Dio", che talmente ci ama fino a generarci come suoi "figli". L'amore più grande che si può realizzare fra gli uomini è quello che si esprime nel "generare" alla vita un figlio. È quello che Dio ha fatto per noi.
"Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui..." (1 Gv 3,1-3).
L'apostolo per primo è sorpreso davanti al "grande amore" che Dio ci ha dimostrato generandoci come suoi "figli". Quasi per fugare la perplessità di qualcuno davanti ad un annuncio tanto alto, egli ribadisce: "E lo siamo realmente!" (v. 1).
Il nostro rapporto "filiale" con Dio non è solo simbolico, ma "reale", tocca cioè il nostro stesso essere: c'è dunque qualcosa in noi che ci rende diversi da chi non ha la fede e non è stato "rigenerato" in Cristo.
Però questo ci impegna anche ad una autentica santità: non si può appartenere alla "famiglia" di Dio, senza vivere degnamente questa nuova situazione di vita. È quanto l'apostolo dice al termine di questo brano: "Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso come egli è puro" (v. 3). Proprio perché la nostra filialità tocca il nostro essere, deve tradursi in coerente agire morale: la santità delle nostre azioni è necessariamente esigita dalla nostra "ontologia" cristiana.
Tanto più che i traguardi ultimi della nostra assimilazione a Dio non sono stati ancora raggiunti: "Fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è" (v. 2).
In attesa di quello che "saremo", dobbiamo fin dal presente renderci sempre più "simili" al Padre. La santità cristiana, in concreto, è proprio questo sforzo di "rassomiglianza" sempre più a Dio, seguendo fedelmente il suo Figlio nella sua vita e nell'ideale altissimo che egli ci propone nel suo Vangelo. Tanto più saremo "figli" quanto più imiteremo il "Figlio"!

Il paradossale annunzio delle "beatitudini"
E così siamo arrivati alla sublime pagina di Vangelo, che propone alla nostra riflessione le "beatitudini", che sono il contrassegno più autentico della santità cristiana.
Esse fanno da contrappunto a tutta la struttura liturgica. Infatti le troviamo come ritornello al salmo responsoriale e vengono di nuovo proclamate nell'antifona alla comunione. Quella che ritorna più frequentemente è la sesta: "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio" (Mt 5,8), forse perché meglio delle altre esprime la situazione in cui si trovano oggi i santi, che già "contemplano" il volto di Dio "così come egli è" (1 Gv 3,2).
Nell'impossibilità di commentarle tutte, vorrei prima dire qualcosa sul significato delle "beatitudini" in genere e poi fermarmi sulla quinta ("Beati i misericordiosi..."), perché mi sembra estremamente attuale.
Prima di tutto, che senso hanno le "beatitudini"? Esse sono la proclamazione di una particolare presenza e benevolenza di Dio verso certe persone che si trovano in situazioni, o creano delle situazioni in cui, secondo la valutazione corrente, beatitudine o felicità non potrebbero trovarsi.
Si pensi, ad esempio, all'ultima beatitudine: "Beati i perseguitati per causa della giustizia... Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia..." (vv. 10-12). Qui è evidente il paradosso: come ci si può sentire "felici" in mezzo alla persecuzione, alla calunnia, agli insulti? Non è questo un controsenso? Oppure si pensi alla seconda: "Beati gli afflitti, perché saranno consolati" (v. 4). Ma non è proprio il fatto di essere "afflitti" che contrasta con la "beatitudine", almeno come più comunemente si interpreta?
Che cosa dire poi della prima: "Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli" (v. 3)? E non è forse vero che tutti ritengono che la "ricchezza" sia fonte di felicità?

Le beatitudini come segno della "conversione" del cuore
Cristo, invece, capovolge i valori correnti e proclama che Dio è presente proprio là dove non si ha o non si ama la ricchezza, dove si piange, dove si soffre, dove c'è ingiustizia e persecuzione. In tal modo non ci sono più situazioni "maledette" nella vita, o persone infelici. Il "regno di Dio" irrompe dovunque, e il povero e l'afflitto possono entrarvi, mentre il ricco e colui che è sazio ne viene messo fuori.
Questo però suppone un cambiamento interiore, una "conversione", o "metànoia", per esprimerci con il Vangelo: quando il povero non ha più terrore o tristezza della sua povertà, e non si crea un animo da ricco agognando anche lui di possedere quello che possiedono gli altri; quando colui che è "afflitto", non si ripiega su se stesso e magari guarda a chi è più afflitto di lui riacquistando così serenità alla sua vita, vuol dire che il povero, l'afflitto, il perseguitato, ecc., hanno scoperto che più che l'avere è l'essere che conta, più che possedere il potere è avere amore che conta, e così di seguito.
Quando si arriva a scoprire questo, è "il regno di Dio" che ha fatto irruzione nel nostro cuore. E allora si è "felici", perché ci accorgiamo che Dio ci ama, ha cura di noi, anche se gli altri ci disprezzano o si dimenticano di noi.
È evidente perciò che la "beatitudine" evangelica è un "dono" assolutamente gratuito di Dio: là dove la troviamo vuol dire che egli ha trasformato il cuore dell'uomo, lo ha "convertito". Si pensi a san Francesco, che scopre la ricchezza nella povertà, o ai martiri cristiani di tutti i tempi che perdonano ai loro persecutori.
Però, nello stesso tempo, è una conquista faticosa che ciascuno di noi deve fare, dando sempre più spazio all'iniziativa di Dio nel proprio cuore.

"Beati i misericordiosi..."
A questo punto possiamo capire le altezze a cui ci chiama la quinta beatitudine: "Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia" (v. 7), che ritroviamo solo in san Matteo.
La "misericordia" è un attributo tipico di Dio, come egli stesso si è qualificato, passando, avvolto nella nube, davanti a Mosè: "Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato..." (Es 34,6-7).
Orbene, Gesù ci insegna che questa qualità di Dio deve diventare anche la nostra, quale conseguenza di quello stile di "imitazione" filiale, di cui abbiamo precedentemente parlato. Proprio in un contesto di amore, che si estende persino al perdono dei nemici, nel seguito del discorso della montagna Gesù dirà: "Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (5,48), il quale appunto "fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti" (v. 45).
È questo stile di "misericordia", cioè di benevolenza e di accoglienza verso tutti, soprattutto verso i più bisognosi di amore, che sono le persone più emarginate e gli stessi nostri "nemici", che forse soffrono per la loro stessa cattiveria o durezza di cuore, che noi cristiani dobbiamo imparare ad attuare nella nostra vita.
Non è forse per questa via che passa la "riconciliazione" di noi verso gli altri e di tutti gli uomini fra di loro? È attraverso i piccoli atti di amore, di perdono, di comprensione di tutti i giorni, che potremo ristabilire la concordia nel mondo.

"...perché troveranno misericordia"
È quanto ci ricorda il papa Giovanni Paolo II in una sua Enciclica molto significativa: "Se tutte le beatitudini del discorso della montagna indicano la via della conversione e del cambiamento della vita, quella che riguarda i misericordiosi è, a tale proposito, particolarmente eloquente. L'uomo giunge all'amore misericordioso di Dio, alla sua misericordia, in quanto egli stesso interiormente si trasforma nello spirito di tale amore verso il prossimo.
Questo processo autenticamente evangelico non è soltanto una svolta spirituale realizzata una volta per sempre, ma è tutto uno stile di vita, una caratteristica essenziale e continua della vocazione cristiana. Esso consiste nella costante scoperta e nella perseverante attuazione dell'amore come forma unificante e insieme elevante, nonostante tutte le difficoltà di natura psicologica e sociale; si tratta, infatti, di un amore misericordioso che, per sua essenza, è amore creatore. L'amore misericordioso, nei rapporto reciproci tra gli uomini, non è mai un atto o un processo unilaterale. Perfino nei casi, in cui tutto sembrerebbe indicare che soltanto una parte sia quella che dona ed offre, e l'altra quella che soltanto riceve e prende (ad esempio, nel caso del medico che cura, del maestro che insegna, dei genitori che mantengono ed educano i figli, del benefattore che soccorre i bisognosi), in verità, tuttavia, anche colui che dona viene sempre beneficato. In ogni caso, anche questi può facilmente ritrovarsi nella posizione di colui che riceve, che ottiene un benefizio, che prova l'amore misericordioso, che si trova ad essere oggetto di misericordia".
È così che facendo misericordia, otterremo anche noi misericordia, già qui sulla terra: ce la ritroviamo nei gesti stessi di amore che facciamo agli altri.
È proprio vero che con il Vangelo dobbiamo sempre incominciare da capo! "In quanto parole il Vangelo ha 1900 anni; come effettualità pratica ha sempre da nascere. Milioni di milioni di uomini hanno detto di essere cristiani; ma noi abbiamo tutto il diritto di aspettare l'apparizione del primo autentico popolo cristiano" (Giovanni Papini).
La festa di tutti i santi sta a dirci che questo popolo c'è; però abbraccia tutto l'arco della storia. Per parte nostra, con il loro aiuto, anche noi vogliamo farne parte.

        Da CIPRIANI S.

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