JUAN J. BARTOLOME sdb LECTIO DIVINA"Cristo Re dell'universo"

Cristo Re dell'universo
15 novembre 2015 | 33a Domenica - Tempo Ordinario B | Lectio Divina
LECTIO DIVINA: Gv 18,33b-37
Nell'interrogatorio di Pilato sulla regalità di Gesù, l'evangelista gioca con due livelli: quello storico, nel quale la pretesa di essere il re dei Giudei, essendo un grave reato di sedizione, portava alla pena di morte; quello reale, poiché nella logica del narratore, Gesù è Re, anche se non secondo le leggi di questo mondo o le aspettative del suo popolo; lo sarà certamente
jquando morirà in croce. Gesù non può sfuggire al suo destino; non farà marcia indietro, solo perché la vita è in pericolo. Confessa la sua regalità quando affronta la morte di croce. Per lo scettico di ieri e di oggi la regalità di Gesù è vana illusione, se non può salvare nemmeno se stesso. Per il credente, invece, la morte sulla croce è proprio la cerimonia della sua intronizzazione come re autentico. Non dobbiamo mai dimenticare che Cristo regna solo nella croce e da essa. Chi lo accetta re su una croce, non vive alla sua sequela lamentandosi delle tante croci della vita.

In quel tempo,
33 disse Pilato a Gesù: "Sei tu il re dei giudei"?
34 Gesù rispose: "Dici questo da te o altri lo hanno detto di me"?
35 Pilato replicò: "Sono io giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che hai fatto"?
36 Gesù gli rispose: "Il mio regno non è di questo mondo. Se il mio regno fosse di questo mondo, le mie guardie avrebbero lottato perché non cadessi in mano dei giudei. Però il mio regno non è di qui".
37 Pilato gli disse: "Dunque, tu sei re"? Gesù gli rispose:
"Tu lo dici: sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto al mondo; per essere testimone della verità. Tutti quelli che sono della verità ascoltano la mia voce.

1. LEGGERE: Capire quello che dice il testo e come lo dice

Il racconto giovanneo della Passione coincide basicamente con il sinottico; dovendo narrare gli stessi eventi in ordine cronologico (arresto, processo, crocifissione, sepoltura, ritrovamento della tomba vuota e apparizioni) e con gli stessi personaggi (Pietro, Giuda, Caifa, Pilato, le donne, Giuseppe d'Arimatea), non c'era molta possibilità di introdurre grandi cambiamenti.
La prima sezione di questa grande storia (Gv 18,1-27) narra l'arresto di Gesù nell'orto (18,1 a 12) e il suo processo davanti alle autorità ebraiche (Gv 18,13-27), durante il quale Gesù parla a malapena (Gv 18,20.23), la figura di Pietro, con i suoi rinnegamenti, ha, in contrasto con Gesù, un ruolo importante (Gv 18,10-11.15-18.25-27). La seconda sezione si concentra sulla narrazione del processo di Gesù dinanzi al procuratore romano (Gv 18,28-19,16): questo è per il narratore vero e proprio processo, nel quale le autorità ebraiche emergono come accusatori e quella romana come giudice.
Riferito in modo più dettagliato, il lungo interrogatorio si concentra a sottolineare la regalità di Gesù (Gv 18,33.36.37.39; 19,3.12.14.15.19.21). Davanti a Pilato, e al mondo che rappresenta, l'impero romano, Gesù si proclamerà, senza esitazioni né silenzi, re e messia. E lo fa quando la sua confessione è più strana. Profeticamente, il pagano romano proclamerà Gesù re e la sua dignità messianica riconosciuta sarà la causa della sua morte (Gv 19:19). La comunità cristiana si sente così aiutata a testimoniare il regno di Gesù in questo mondo a partire da una croce.
Gli elementi narrativi sono scarsi. Il dialogo, predominante, definisce gli attori. Pilato, procuratore romano della Giudea negli anni 26-36 d.C., appare nella scena e si mostra giusto con l'accusato, vuole conoscere la causa della istruzione del processo (Gv 18,29). Il primo interrogatorio di Gesù avviene dentro il pretorio, in privato, qualcosa di insolito in un processo ufficiale. Pilato, seguendo la prassi giuridica romana, chiede il motivo di accusa, cioè la pretesa messianica di Gesù, trasformando il processo in causa politica. Le domande e le risposte si succedono, ma il quesito è unico: Sei tu il re dei Giudei? (Gv 18,33, 18,39, 19,3.14.15).
Gesù risponde con una domanda personale a Pilato, dandogli l'opportunità, prima di rispondergli, di fare sinceramente e sua la domanda (Gv 18,34). Rispondendo con indifferenza e disprezzo (Gv 18,35), Pilato riconosce che non ha motivi per procedere contro di lui; tra l'altro, scarica la responsabilità sui capi e il popolo d'Israele, erano stati loro a consegnarglielo (Gv 18 , 35). Gesù risponde affermando il suo regno, senza utilizzare il titolo di re (Gv 18,33); utilizza per tre volte il termine il mio regno, e chiarisce che il suo regno non è come quelli di questo mondo, sostenuti dalla forza e dalla resistenza violenta. Pilato non coglie la sottigliezza di Gesù e poi chiede di nuovo, tu sei re? Gesù risponde indirettamente: tu lo stai dicendo che sono re. E' evidente l'ironia dell'autore: Pilato lo ha detto senza crederlo, poiché solo chi è nella verità può ascoltare e seguire questa testimonianza (Gv 18,37).

II. MEDITARE: APPLICARE QUELLO CHE DICE IL TESTO ALLA VITA

Oggi, ultima domenica dell'anno liturgico, celebriamo la regalità di Cristo Gesù, una festa che, pur rispondendo a una delle più sicure convinzioni cristiane, non manca di ambiguità. O, almeno, può essere fraintesa. Ed è che ogni volta che si è proclamato Gesù Re sono sorti equivoci, dai tempi di Gesù fino ad oggi. Qualcosa c'è, dunque, in questa fede nella signoria universale di Gesù, che può prestarsi ad equivoci. E il brano evangelico, così sottile, fa ben poco per sbarazzarsi di essi.
Già nei giorni in cui Gesù di Nazareth predicava in Galilea lo si voleva proclamare re; ma Gesù rifiutò questa dignità e giunse a fuggire da coloro che lo cercavano per proclamarlo loro sovrano (Gv 6,15). Più tardi morirà con l'accusa di aver cercato di essere il re dei Giudei, il loro liberatore dal dominio straniero (Gv 19,19-21). Eppure Gesù ha rivendicato solo per sé questa dignità, e il titolo, nell'unico momento in cui non vi era alcuna possibilità di essere frainteso: durante un processo, quando anche i suoi amici lo avevano abbandonato, mentre i nemici lo schernivano e le autorità lo avrebbero condannato a morte. Nella debolezza più estrema, nel momento di maggiore solitudine, Gesù si riconosce e si confessa re con dignità e fermezza.
Come non ammettere che, a volte, abbiamo proclamato la Signoria di Gesù, al fine di poter sottomettere gli uomini al nostro dominio? Neanche oggi possiamo essere sicuri che la situazione sia cambiata molto tra di noi: nella nostra società ci sono troppi dubbi, purtroppo a volte giustificati, dinanzi a predicazioni della fede e proclami dei diritti e delle libertà per la chiesa che, alle orecchie e per la sensibilità di molti dei nostri concittadini, risultano troppo interessati a conservare privilegi o poteri.
In questi tempi di sincerità che la comunità cristiana deve vivere, bisogna raccogliere i rimproveri che ci vengono fatti per esaminare la loro ragione e verificare se sono veri: se non è vero che ancora cerchiamo privilegi sociali, sicurezza che non violerà il nostro modo di essere, mentre cerchiamo di sottomettere quelli che non credono nel nostro modo di pensare. Perché una cosa è chiedere rispetto, perfino esigerlo, per la nostra vita cristiana e il nostro modo di esprimerla in pubblico, e un'altra, ben diversa, è cercare di imporla aspettandosi che coloro che non condividono la nostra fede oggi si comportino come noi, se non meglio. Perché indignarsi, quindi, che coloro che non credono agiscono secondo le nostre convinzioni? Accettiamo con tutte le conseguenze che la sequela di Gesù, e il suo regno, spetta solo a quanti siamo disposti ad essere suoi discepoli. O per dirlo con le parole di Gesù re, a quanti "sono nella verità e ascoltano la sua voce."
E non basta proclamare oggi che Cristo è il nostro re. Bisognerà confessare con la stessa forza e lo stesso entusiasmo che il suo regno non è di questo mondo, che il suo potere non è come quello dei potenti di questo mondo. Solo una comunità cristiana che rinuncia a privilegi sociali e posizioni di potere è affidabile quando dice che è suddito di Cristo re. Solo se i cristiani serviamo a fare qualcosa nella nostra società faremo più credibili le nostre esigenze di rispetto; quando noi rispettiamo meglio i diritti degli altri, riusciremo a farci rispettare. E il diritto più irrinunciabile è il saperci sudditi dell'unico Signore e avere il coraggio di festeggiarlo oggi, senza pretese ma senza complessi, senza perdere la gioia, perché non tutti la pensano come noi; ma senza invidiare coloro che non hanno, come noi, Cristo come solo Re.
Poiché Egli fu re su una croce. Accettare questa verità richiede un atteggiamento formidabile di spogliazione che non si trova nella nostra società e che troverà in essa alcun eco. Stiamo celebrando il regno di un condannato a morte, la signoria di un re che ha servito i suoi sudditi, il dominio di un uomo che ha dato la vita per i suoi servi. Il suo destino deve essere il nostro, se vogliamo un giorno condividere il suo trionfo e il suo regno. Non possiamo - non dobbiamo - essere qui oggi, celebrando un regno che è stato raggiunto nella debolezza e nella sofferenza e pensare contemporaneamente ad assicurarci posizioni di potere in futuro o vivere con nostalgia i privilegi che abbiamo avuto in passato.
Forse ora più che mai abbiamo bisogno di testimoni cristiani che credono in questo regno, che non è di questo mondo, ma lo facciano credibile nel nostro mondo: che credono nella possibilità di un amore senza gratificazione immediata, che lavorino per un mondo più fraterno senza aspettarsi ricompense o benefici, che si dedichino a migliorare la vita quotidiana degli altri senza che glielo debbano chiedere. I cristiani dovremmo essere coloro che ci distinguiamo per essere pronti a servire, coloro che meno invidiamo i potenti, coloro che più ci impegniamo a risolvere i problemi dei poveri. Chi crede in Cristo Re si fa costruttore di una nuova società, che non si basa sul potere, sia esso politico, economico o religioso, in cui non si cerca solo, e soprattutto, di avere più degli altri, in cui il sapere di più non è privilegio di pochi. I cristiani dovremmo essere in questa società coloro che chiedono meno conto agli altri e contano di più su tutti. Se non aspiriamo, con entusiasmo ed efficacia, a stabilire una maggiore fraternità tra di noi, se continuiamo a ignorare tutti coloro che vivono con noi, se ci ostiniamo a diventare leader che dominano, non siamo cittadini del Regno di Cristo, che è venuto non per essere servito ma per servire.
Perché la nostra celebrazione del regno di Cristo sia, quindi, credibile, dobbiamo impegnarci a credere senza ombra di dubbio in Cristo Re e immediatamente creare tra noi già questo regno di verità e di vita, di santità e di grazia, di giustizia e di pace. Nel bel mezzo di un mondo ingiusto, oggi possiamo iniziare a proclamare che è possibile una maggiore giustizia e che noi siamo i suoi portabandiera. In un mondo lacerato dalla diffidenza e dall'odio, dove abbondano i predicatori della lotta e della divisione, possiamo iniziare oggi ad affermare che la pace è possibile mentre ci impegniamo a farla divenire realtà, che è urgente la fraternità proprio perché ci stiamo allontanando da essa, che la solidarietà continua ad essere attuale anche se oggi non è più di moda.
Nonostante l'apparente paradosso, solo coloro che credono che Cristo regnò nella e dalla croce, attraverso il servizio e l'offerta della vita, capiranno che ancora hanno motivi per attendere un regno di giustizia e di pace. E troveranno la forza di provare. Se non ci proviamo, non abbiamo il diritto a celebrare questa festa, in quanto non sarà nostro il trionfo di Cristo e del suo regno. E la nostra fede rimarrà dominata dall'ambiguità. Preghiamo, con tutto il cuore, come Gesù ci ha insegnato, che venga a noi, una volta per tutte, il suo regno. Ma impariamo che il suo regno viene solo attraverso la croce e il servizio. Perché solo da una croce, e dando la sua vita, Cristo regnò.
                                                                                    JUAN J. BARTOLOME sdb

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