Mons.Silvano Piovanelli, «E noi che cosa dobbiamo fare?»

«E noi che cosa dobbiamo fare?»
Domenica 13 dicembre - III DOMENICA DI AVVENTO «GAUDETE»
09/12/2015 
«Che cosa dobbiamo fare?». Dalla risposta che il Battista dà per le categorie disprezzatissime dei
pubblicani e dei soldati emerge che il comandamento radicale dell’amore era già preparato nell’Antico Testamento e poteva brillare in ogni coscienza come riferimento luminoso.

Si tratta della condivisione tra uomini dove il prossimo non ha vestito o alimento sufficiente (Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto).

Si tratta della giustizia nelle richieste degli esattori e negli altri affari (Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato).

Si tratta, il che per i soldati poteva essere difficile, di mantenere i limiti sul piano del potere (Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe).

Essere felici e aperti per il Regno domanda, dunque, di tener conto degli altri, collegando così la linea verticale dell’impegno della fede con quella orizzontale dell’impegno della solidarietà.

L’inizio della conversione, di ogni conversione, di ogni reale immersione in Dio (battesimo= immersione! dal greco baptìzo=immergo) non è tanto cambiare le proprie responsabilità negli impegni e compiti personali, quanto cambiare radicalmente il modo di compierli. Ogni vero mutamento esteriore e sociale esige una profonda e radicale conversione del cuore. Ma ogni conversione autentica si riconosce dalla realizzazione di questi tre impegni:

- condividere quello che abbiamo a livello materiale, intellettuale, spirituale;

- realizzare nel modo più pieno il nostro lavoro, e quindi compiere, nel modo più bello, felice e professionale, il proprio incarico;

- scegliere la strada della non-violenza, conseguentemente non usare mai la forza per sottomettere o minacciare i propri fratelli.

Nel secondo momento del Vangelo di oggi Giovanni il Battista definisce la sua missione. Proprio perché egli presenta alla gente una strada già indicata dalla voce dei profeti, poteva rispondere con chiarezza assoluta e in modo credibile: «Io non sono il Cristo» (Gv 1,20). Infatti in Israele era particolarmente forte in quel tempo l’aspettativa di un liberatore (il popolo era in attesa) e tutti si domandavano se non fosse lui il Cristo (cioè il Messia).  Giovanni il Battista non solo si umilia dinanzi al Messia, dichiarando: «lui è più forte di me», e: «io non sono degno di sciogliere i lacci dei suoi sandali», ma illumina con grande precisione la differenza fra la sua missione e quella del Messia: «io - dice Giovanni - vi battezzo con acqua … Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco», cioè ci mostrerà i nostri peccati  e li brucerà col suo fuoco.

Il fuoco di Dio ci raggiunge attraverso la sua parola: una parola che  trafigge il cuore e, a suo modo, brucia le coscienze, ma per svegliarle e liberarle.

Gesù stesso ne parlerà un giorno: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12,49). L’unico fuoco che Dio conosce è quello che Gesù ha portato sulla terra, è lo Spirito che rinnova la faccia della terra (salmo 104,1). Scenderà dal cielo nella festa della Pentecoste (At 2,3) e unirà gli uomini in un’unica lingua, la lingua dell’amore.

Ma l’immagine del fuoco sottolinea anche la nostra enorme responsabilità dinanzi al dono di Dio: chi rifiuta l’amore, sceglie la seconda morte (Ap 2,11; 20,6; 20,14; 21,8).


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