Padre Paolo Berti, “Che cosa dobbiamo fare?”

Omelia III Domenica di Avvento    Lc.3,10-18
“Che cosa dobbiamo fare?”
La gente che andava da Giovanni domandava: “Che cosa dobbiamo fare?”. Un fatto sorprendente che tutti, più o meno, rivolgessero la stessa domanda a Giovanni, il quale parlava della necessità della
conversione, del pentimento dei propri peccati, e quindi il cosa fare era ben chiaro. Fatto sorprendente che la gente non conoscesse i comandamenti, tanto da aver bisogno di fare quella domanda che il Vangelo ci presenta ripetuta per ben tre volte a Giovanni.
Quella domanda ripetuta rivela che molti in Israele pensavano che la salvezza richiedesse una serie di gesti speciali, ritualistici. Gesti che erano ritualistici ossessivi, meticolosi fatti per creare un alone di sacralità destinato a suscitare compiacimento di se stessi, non interiorità. Erano abluzioni, lavature di bicchieri e piatti, ecc.
“Cosa dobbiamo fare?”; è la domanda - venendo a noi - di chi ha della vita cristiana solo un vago ricordo che risale al momento della Cresima. Dopo quell’evento, sappiamo che per moltissimi c’è il vuoto. Si parla che oggi i 3/4 dei giovani dopo la Cresima cessano la pratica cristiana. Costoro interpellati ed esortati a pensare alla loro salvezza non esitano a dire, appunto: “Cosa dobbiamo fare?”. Essi pensano a delle ritualità, magari esoteriche, che non immettono nella vita concreta. Così i sacramenti li ritengono come momenti del sacro e non come momenti di vivo incontro con Dio e con i fratelli, per una maggiore intensità di unione. Costoro sono contenti quando ci fanno vedere i santini che hanno nel portafoglio, la medaglietta al collo, e ci dicono con particolare fierezza che sono andati a Lourdes e a San Giovanni Rotondo, e che ogni domenica vanno al cimitero.
La risposta di Giovanni - l'abbiamo ascoltato - è però ben lontana dal presentare pratiche ritualistiche, presentando invece la vita morale nella concretezza della vita. Ed è quello che anche noi dobbiamo presentare con forza ai nostri fratelli.
Ma Giovanni non si limitò all’applicazione dei comandamenti; non presentò solo il suo battesimo, ma indirizzò verso un incontro che dava significato alla sua missione; indirizzò la gente verso Cristo.
La gente, alla ricerca di un capo, forte, audace, pensò che il Messia fosse lui; ma egli parlò di uno superiore a lui, più forte di lui, che avrebbe battezzato in Spirito Santo e fuoco. Di uno che aveva il potere di trasformare, con la forza dello Spirito Santo, i cuori di coloro che con fede sarebbero andati a lui, e che aveva il potere di ripulire la sua aia da ciò che la ingombrava.
“Ti rinnoverà con il suo amore”, aveva annunciato il profeta Sofonia, in coro con gli altri profeti. Ed ecco che Giovanni, Andrea, Pietro, gli apostoli tutti, i discepoli, che avevano ricevuto il battesimo di Giovanni divennero nuovi nell’incontro con il Cristo. Gesù a Nicodemo dirà: “Se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio”. E’ il Battesimo; il nostro. Però i discepoli l’acqua la ricevettero da Giovanni, lo Spirito dall’incontro con il Cristo. L’incontro con Cristo li liberò dalla colpa originale e diede loro lo Spirito. Nel cenacolo gli apostoli riceveranno ancora lo Spirito per la remissione dei peccati, e poi lo riceveranno a Pentecoste come forza e luce di annuncio.
Il discorso di Giovanni ci conduce al nostro camminino di iniziazione cristiana: al Battesimo, all’Eucaristia, alla Cresima. Questo cammino, che nasce dall’incontro con Cristo, ci ha lanciati verso un incontro sempre più profondo con lui, tanto che è totalmente assurdo lo spegnersi di questo lancio proprio all’indomani della Cresima. Assurdo, perché l’incontro con Cristo è gioia, pace, vita.
E’ gioia e Paolo ce lo rammenta; “siate lieti” ci dice per due volte; e “sempre”, cioè in ogni circostanza. Ed è utilissimo che Paolo ce lo rammenti, perché Satana fa di tutto per seminare la tristezza. Quella tristezza che è perdita di fiducia in Dio e apertura al turbamento interiore, all’insoddisfazione. La tristezza è il segnale di una crisi di fede in atto. Non dico la tristezza per la perdita di un nostro caro, questa tristezza è giusta; non dico la tristezza luminosa del vedere Dio offeso e gli uomini nel peccato. Queste tristezze hanno come origine un santo dolore; esse perciò non tolgono la gioia interiore che Cristo ha posto nel centro più centro del nostro cuore.
La tristezza secondo il mondo (Cf. 2Cor 7,10), ripeto, è una crisi di fede; è un “lasciarsi cadere le braccia”, come abbiamo ascoltato nella prima lettura; è un appannarsi della confidenza in Dio; appannarsi che ha come antidoto il ricordo costante che Dio “è il mio canto”, il nostro canto. La tristezza di chi brama e non ottiene e inveisce, deve avere questo antidoto: il nostro sorriso di cristiani; un sorriso non artefatto, ma che sgorga da un cuore unito a Cristo. Ha come antidoto la nostra “amabilità”. “La vostra amabilità sia nota a tutti ”. Un uomo è affabile quando è lieto, anche durante pratiche austere, altrimenti è aspro, acido, arrogante, impaziente. Dio “è il mio canto”, e quindi la mia letizia, poiché in lui non c’è tristezza.
Dio è la nostra pace.
“Cosa dobbiamo fare?": amare. Don Abbondio disse al Card. Federigo. “Ma cosa dovevo fare?”. Gli venne risposto: “Amare, amare, figliolo!”. Amen. Ave Maria. Vieni, Signore Gesù.

Commenti

Post più popolari