Settimio CIPRIANI SDB"Beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore"

20 dicembre 2015 | 4a Domenica di Avvento Anno C | Appunti per la Lectio
* Mic 5,1-4a - Da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele.
* Dal Salmo 79 - Rit.: Fa' splendere il tuo volto e salvaci, Signore.
* Eb 10,5-10 - Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà.
* Canto Vangelo - Alleluia, alleluia. Eccomi, sono la serva del Signore: avvenga di me quello che hai detto. All.
* Lc 1,39-48a - A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?  

Forse l'espressione di meraviglia: "A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?" (Lc 1,43), con cui Elisabetta manifesta il suo stupore nel vedersi fatta oggetto di delicato
interessamento e di premura da parte di Maria che viene a visitarla, può sintetizzare felicemente i sentimenti della Chiesa in questa immediata attesa del Natale.
Più che Maria, però, noi attendiamo il suo Figlio! E questo ci arreca sorpresa, stupefazione, gioia, ma anche confusione: c'è forse qualcuno tra gli uomini, fosse pure Giovanni Battista, degno di ricevere Cristo? Lui per primo dichiarava di non essere "degno neanche di portargli i sandali" (Mt 3,11). Proprio per questo nella preghiera dopo la comunione la Chiesa così ci fa supplicare il Signore: "O Dio... quanto più si avvicina il gran giorno della nostra salvezza, tanto più cresca il nostro fervore per celebrare degnamente il Natale del tuo Figlio".
Certamente anche per questo la Liturgia ci presenta oggi ripetutamente la figura di Maria - nelle orazioni, nei versetti e nelle letture bibliche - quale modello a cui ispirarci in questa intensa vigilia di attesa. "Eccomi, sono la serva del Signore: avvenga di me quello che hai detto" (Lc 1,38), cantiamo nell'acclamazione al Vangelo. Questa disposizione d'animo è fondamentale perché anche in noi avvenga il prodigio della nuova "Incarnazione" di Gesù. Non importa, infatti, che egli sia già nato nel seno e dal seno di Maria, se poi non "rinasce" anche nel nostro cuore!

"A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?"
Significativo, per creare non solo il quadro dell'attesa ma anche per delineare i sentimenti che devono accompagnarla, mi sembra il brano evangelico odierno, in cui Luca ci descrive la scena della visitazione di Maria alla parente Elisabetta.
È l'incontro di due madri, che attendono con ansia ciascuna il proprio figlio, ma con la lucida percezione che tutto è orientato verso il Figlio di Maria: pur essendo venuto dopo, è lui che dà senso alla maternità di Elisabetta, alla visita di Maria, al sobbalzo misterioso di Giovanni nel grembo della madre. Non è ancora nato, ma già la storia cammina verso di lui, si muove attorno a lui!
"In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: "Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo. A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore"" (Lc 1,39-45).
La "città di Giuda", verso la quale si dirige "in fretta" Maria (v. 29), secondo la tradizione più accreditata dovrebbe essere 'Ain-Karim, a 6 km a ovest di Gerusalemme, distante oltre 150 km da Nazaret.
Il lungo "viaggio" sta a dire non solo le difficoltà e il sacrificio che ha dovuto affrontare Maria per compierlo, con i mezzi di quei tempi, ma soprattutto lo spirito di amore e di servizio che l'animava. Essa infatti si mise in cammino "non perché fosse incredula della profezia, o incerta dell'annunzio, o dubitasse della prova, ma perché era lieta della promessa e desiderava compiere devotamente un servizio con lo slancio che le veniva dall'intima gioia. Dove ormai, ricolma di Dio, poteva affrettarsi ad andare se non verso l'alto? La grazia dello Spirito Santo non comporta lentezze".
In un certo senso, direi che il lungo viaggio di Maria, per aiutare la vecchia parente che stava per diventare madre, dava espressione plastica al più faticoso viaggio di abbassamento e di servizio affrontato da Cristo nel mistero dell'Incarnazione: "Pur essendo di natura divina, (Cristo) non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini", ci ricorda Paolo in un testo arditissimo delle sue lettere (Fil 2,6-7). Se Maria salì sulle "montagne" della Giudea, Cristo discese invece nell'abisso, per farsi "servo" di tutti!
È quanto percepisce con estrema lucidità Elisabetta, illuminata dallo Spirito (cf v. 41), quando esprime tutta la sua meraviglia per la impensata visita della parente, che ormai riconosce come "madre del mio Signore" (v. 43).
Ciò che la sconcerta non è tanto il gesto di attenzione premurosa di Maria, quanto il fatto che in quel momento nella sua casa si è come trasferita la "presenza" di Dio: quella "presenza" che gli antichi Ebrei avvertivano nell'arca dell'alleanza, che Davide fece trasferire a Gerusalemme, intimidito lui stesso di tanta vicinanza del Signore. Perciò esclamò in quella occasione: "Come potrà venire a me l'arca del Signore?" (2 Sam 6,9). Non a torto gli studiosi notano delle analogie tra i due fatti: adesso è Maria l'arca che reca la presenza salvifica del Signore in mezzo al suo popolo, e perciò Elisabetta la saluta "a gran voce" - come il popolo allora accolse festosamente l'arca - e la proclama "benedetta fra tutte le donne" (v. 42).

"Benedetto il frutto del tuo grembo!"
Ciò che rende Maria così grande è indubbiamente la sua divina maternità: "Benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?" (vv. 42-43). Rimane però vero che la radice, da cui fiorisce tanto splendore e tanta gloria per Maria, è la sua fede cieca, totale nella "parola" del Signore. Senza quella fede non sarebbe mai diventata la nuova "arca dell'alleanza", anzi, molto di più, "la madre del Signore" di tutti.
Con profonda intuizione psicologica perciò Elisabetta proclama per lei la prima e più solenne "beatitudine" del Vangelo: "Beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore" (v. 45).
Il lungo periodo di "avvento" dell'umanità è stato possibile e si è maturato perché è stato percorso da un anelito di "fede" infrangibile, da quella di Abramo, a quella dei Profeti, a quella più grande ancora di Maria. È per questo che essa ci suggerisce le "disposizioni" d'animo più adatte alla solennità del mistero liturgico che stiamo celebrando, come abbiamo ricordato all'inizio.
Il racconto evangelico si conclude con le prime strofe del Magnificat, che a noi interessa qui per la luce che ci dà per esplorare più a fondo i sentimenti di Maria davanti al prodigio che si è realizzato nella sua vita e, per mezzo di lei, anche nella vita di tutti gli uomini. "Allora Maria disse: "L'anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva"" (vv. 46-47).
Il primo sentimento è un sentimento di gioia e di esultanza per la "salvezza" che Dio ha finalmente operato mandando il suo Figlio, che prodigiosamente ora è diventato anche il "figlio" di Maria.
Accanto a questo, poi, un altro sentimento: quello dell'umiltà, che si riassorbe in quello più fondamentale ancora della fede, come abbiamo appena ricordato: "Ha guardato l'umiltà della sua serva" (v. 48). Davanti a Dio l'unica grandezza è quella della disponibilità e dell'affidamento totale: mettersi nelle sue mani perché egli faccia di noi "secondo la sua parola" (cf Lc 1,38), come è avvenuto per Maria. Finché gli uomini crederanno di essere loro i protagonisti della storia e non si lasceranno invece guidare da Dio, saranno sempre pessimi costruttori di storia: anche di quella della Chiesa!

"Non hai gradito né olocausti né sacrifici"
Più ancora di Maria, Cristo stesso si è totalmente affidato al Padre quando ha accettato di partecipare alla nostra esperienza umana, fino al limite della consumazione ultima: quella della croce.
È quanto ci dice l'Autore della lettera agli Ebrei in una pagina stupenda, in cui dimostra la superiorità della economia del Nuovo Testamento su quella del Vecchio, proprio perché Cristo si è offerto volontariamente al Padre. Il "corpo", che egli ha assunto quando si è fatto uomo, è stato lo strumento o, meglio, il "segno" visibile di questa docilità radicale da lui espressa in ogni momento della sua vita e specialmente nella sua morte di croce.
"Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: "Tu non hai voluto né sacrifici né offerte, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare o Dio la tua volontà"... Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre" (Eb 10,5-7.10).
Il Salmo 40,7-9, qui citato secondo la traduzione greca, già polemizzava contro il culto solamente esteriore, contro i sacrifici non accompagnati da intimi sentimenti di offerta. L'Autore della lettera fa vedere come Cristo abbia realizzato alla perfezione questo ideale del "sacrificio", che consiste nell'offerta costante a Dio della propria "volontà".
E questo Gesù lo ha fatto sempre, sin dal primo momento della Incarnazione: perciò si insiste nel dire che già "entrando nel mondo" (v. 5) Gesù ha fatto proprie le parole del Salmo. Anche se è vero che soprattutto nella morte di croce l'offerta di sé al Padre raggiunge il vertice più alto dell'amore e della donazione: infatti, dove è più grande la sofferenza, è più grande anche l'amore! Per questo si dirà subito dopo che Gesù "con un'unica oblazione ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati" (v. 14).
È interessante questo brano perché ci fa vedere come il mistero dell'Incarnazione, che la imminente festa del Natale ci farà celebrare in esultanza, è orientato essenzialmente a quello pasquale: il "corpo", che Gesù riceve da Maria, è per l'offerta sacrificale del Venerdì Santo e per lo splendore che lo avvolgerà di nuovo nel giorno di Pasqua!

"E tu, Betlemme di Efrata..."
Anche la prima lettura ci rimanda a certi aspetti della venuta terrena di Cristo, però sottolineandone di più la "forza", il potere regale: quel potere che a lui derivava dalla sua lontana ascendenza davidica.
È il noto oracolo di Michea - più o meno contemporaneo di Isaia (VIII sec. a.C.), da cui sembra in qualche maniera dipendere in più di un passo delle sue profezie - che preannuncia la nascita del Messia in Betlemme di Giudea. Ad esso si rifaranno i sacerdoti e gli scribi di Gerusalemme per indicare ai Magi il luogo dove avrebbero potuto trovare "il nato re dei Giudei", che essi andavano cercando dietro l'indicazione della stella (cf Mt 2,6).
"E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere tra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele: le sue origini sono dall'antichità, dai giorni più remoti... Egli starà là e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore suo Dio. Abiterano sicuri perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra e tale sarà la pace" (Mic 5,1.3-4).
La sorpresa del Profeta nasce dal considerare la quasi nessuna importanza della "piccola" borgata di Betlemme, in confronto con le altre città di Giuda, e la "gloria" che le deriverà dal fatto che proprio da lei dovrà "uscire il dominatore di Israele" (v. 1), cioè il Messia. Egli ci viene qui presentato con le immagini tradizionali del "re-pastore", che guida "con forza" il suo popolo e garantisce a tutti "pace" e sicurezza (v. 4). Si noti negli ultimi due versetti anche il respiro universalistico di questo nuovo regno, che deriva la sua origine da "giorni" assai remoti (v. 1), cioè dal tempo della promessa fatta da Natan, al re Davide, di un discendente che avrebbe regnato "per sempre" sul suo trono.
Nel testo c'è anche un velato riferimento alla madre del Messia, là dove si dice: "Perciò Dio li metterà in potere altrui fino a quando colei che deve partorire partorirà" (v. 2). Forse Michea allude al celebre oracolo della 'almah (= la vergine), pronunciato da Isaia (7,14) una trentina d'anni prima.
Non è soltanto Cristo, dunque, che i Profeti hanno annunciato e atteso, ma anche sua Madre. Abbracciando suo Figlio, noi abbracciamo anche lei, come ha fatto Elisabetta. Anzi, proprio da lei vogliamo implorare quei sentimenti di gioia e di attesa commossa, che ella ha nutrito per nove mesi nella sua mente e nel suo cuore.

Settimio CIPRIANI

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