PADRE BALDO ALAGNA"CANA UNA FESTA PER SALVARE IL MATRIMONIO"


Lettura Evangelica: (Giovanni 2,1-11) 
Commento alla Liturgia della Parola
 Concentriamo subito oggi la nostra attenzione sulla lettura evangelica che ci presenta l’episodio delle
nozze di Cana. Il motivo per cui tale brano è collocato nella Messa di questa domenica – è indicato nella frase conclusiva: Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua glo­ria e i suoi discepoli credettero in lui. A Cana si ebbe una nuova epifania di Gesù: egli si manifestò, come si era manifestato all’inizio ai magi e a Giovanni Battista nel Battesimo nel Giordano. Si « manifestò », non sem­plicemente: « si fece vedere »; molti infatti videro Gesù in quei trent’anni dalla visita dei magi fino al Battesimo nel Giordano, ma non a tutti egli si manifestò, cioè non a tutti rese manifesto chi egli era in realtà, al di sotto delle apparenze che si potevano vedere. Anche questa volta, a Cana di Galilea, il frutto della sua manifestazione è la fede; Gesù… manifestò la sua gloria e i suoi disce­poli credettero in lui.

Le nozze di Cana : ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea, un villaggio poco distante da Nazareth; si trattava di amici intimi o parenti della famiglia di Gesù perché allo sposalizio era presente anche Maria e non pare che vi fosse in veste di semplice invitata, ma piut­tosto come una di quelle persone amiche di casa che, in occasioni del genere, si chiamano per dare una mano affinché tutto riesca bene e dal nostro vangelo di oggi ha fatto proprio un buon servizio al banchetto anche se si potrebbe dire che ha spinto alla consumazione di vino! Gesù, in quel tempo, cioè poco dopo il suo Battesimo nel Giordano, si trovava in quei dintorni e aveva appena cominciato a predicare e a far discepoli. Gli sposi invitarono anche lui con i suoi pochi discepoli: Fu invitato alle nozze anche Gesù: è la scarna notizia del Vangelo che dovremo approfondire oggi. Sappiamo cosa successe nel corso del banchetto che, secondo il costume del tempo, durava per otto giorni. Dopo qualche giorno, venne a mancare il vino; la sere­nità e la gioia di quegli sposi e della loro famiglia corre­va un grosso pericolo; quello che doveva rimanere per essi il ricordo più bello della loro vita, forse l’unica vera festa nel corso di una intera esistenza di stenti e di fatica, stava per trasformarsi in un’occasione di umiliazione. Un po’ di vino era forse la cosa migliore che avevano da offrire agli invitati; se veniva meno, non restava che doverli licenziare, senza poter dare loro nulla. Maria, che era tra coloro che aiutavano la famiglia degli sposi, si accorse di questo e disse a Gesù in tono accorato…

Non hanno piu’ vino. Gesù fece un po’ di resistenza, ma poi compì il miracolo: dall’acqua seppe trarre nuovo vi­no per continuare la festa. La presenza di Gesù salvò la gioia degli sposi e permise di continuare la festa. L’insegnamento che a me pare di cogliere da questo delicato episodio evangelico può essere formulato, in po­che parole, così: avviene per ogni matrimonio tra un uo­mo e una donna quello che avvenne alle nozze di Cana; esso comincia nell’entusiasmo e nella gioia; il vino è sim­bolo, appunto, di questa gioia e dell’amore reciproco che ne è la causa. Ma questo amore e questa gioia come il vino di Cana, col passare dei giorni o degli anni, si consuma e vien meno; ogni sentimento umano, pro­prio perché umano, e recessivo, tende a bruciarsi e ad esaurirsi; l’abitudine è « quel mostro che riduce in pol­vere tutti i nostri sentimenti » (Shakespeare); allora cala sulla famiglia come una nube di tristezza e di noia; a quegli invitati alle proprie nozze che sono i figli non si ha più nulla da offrire se non la propria stanchezza, la propria freddezza reciproca e spesso la propria amara delusione. Otri piene di acqua. Il fuoco al quale erano venuti per scaldarsi si va spegnendo e tutti cercano altri fuochi fuori dall’unione sposnale per scaldarsi il cuore con un po’ di affetto, che é un vero di surrogato d’amore che allarga il vuoto e la noia.

C’è rimedio a questa tristissima prospettiva? Sì, quel­lo stesso rimedio che ci fu a Cana di Galilea: invitare Gesù alle proprie nozze! Se egli sarà di casa, a lui si po­trà ricorrere quando comincia a venir meno l’entusiasmo, l’attrattiva fisica, la novità, insomma l’amore con cui si era partiti da fidanzati, perché dall’acqua della routine, egli sappia far nascere, a poco a poco, un nuovo vino mi­gliore del primo, cioè un nuovo tipo di amore coniugale meno effervescente di quello giovanile, ma più profondo, più duraturo, fatto di comprensione, di conoscenza reci­proca, di solidarietà, fatto anche di tanta capacità di per­donarsi. Un amore coniugale, insomma, che, rimanendo tale, sappia anche diventare amore evangelico o del pros­simo; da eros sappia diventare agape. Il primo l’eros è l’amore fatto di ricerca, di possesso e di godimento dell’amato che può sentirsi o diventare come oggetto; esso è incapace di portarsi su altro che su og­getti e persone belle, al punto da ridursi spesso più ad amo­re del bello e del godimento che ad amore della persona. L’altra – l’agape  – è carità cristiana, amore completo e incondizionato, fatta di donazione di sé, di accet­tazione dell’altro, che sa gioire dell’altro senza volerlo possedere per sé, cioè strumentalizzarlo e renderlo schia­vo. Questa carità, quando è sana e genuina, non esclude tra i coniugi l’eros, cioè l’attrattiva e il desiderio recipro­co, ma lo è ancora a qualcosa di più grande e di più stabile che è l’Amore stesso del Padre, portato a noi da Gesù Cristo: un amore gratuito, perdonante, che sa resi­stere anche alla perdita della bellezza e della giovinezza, proprio perché non è stimolato dalla bellezza del partner, ma dal fatto che partecipa di quello stesso amore del Padre.

Perché invitare Gesù al proprio matrimonio ? Significa, anzitutto, riconoscere fin da fidanzati che il matrimonio non è una faccenda privata tra un uomo e una donna, in cui la reli­gione o il prete devono entrare solo per spruzzarci intorno dell’acqua santa, o per dargli un po’ di lustro esteriore con organo, fiori e tappeti, ma che è una vocazione, una chia­mata a realizzare in un certo modo la propria vita e il proprio destino; vocazione che viene da Dio e che da lui perciò deve trarre la norma e la forza. Ci sono diversità di carismi e di ministeri, ci ha ri­cordato san Paolo nella seconda lettura di oggi: c’è il ministero dello Spirito al quale siamo chiamati noi sacer­doti, e per il quale abbiamo abbracciato gioiosamente il celibato, e c’è il ministero o servizio della vita, al quale sono chiamati gli sposi cristiani. Ma uno solo è lo Spirito, uno solo il Signore, uno solo Dio che opera tutto in tutti. Per questo, il Matrimonio è un sacramento, come lo è l’Ordine che consacra i sacerdoti, e da ministero della carne esso può diventare, come il celibato, ministero dello Spirito. Per mezzo di esso gli sposi possono rendere presente Cristo tra loro e agli occhi dei figli, attraverso il segno della loro mutua carità, come, in modo diverso, il sacerdote lo rende presente nel segno del pane e del vino sull’altare.

Il Matrimonio è anche un carisma ! Altre volte la parola di Dio ci ha ricordato che bisogna vivere il proprio matrimonio escatologica­mente, cioè con lo sguardo proteso verso il futuro; oggi, la stessa liturgia ci dice che bisogna viverlo anche carismaticamen­te. Vivere carismaticamente il proprio matrimonio signifi­ca viverlo come «il proprio carisma » (idion charisma, lo chiama Paolo in 1 Cor. 7, 7), come « una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune » (II let­tura). Non dunque un semplice « stato civile », ma un carisma, cioè un dono e una chiamata. Paolo dice che il carisma del matrimonio prende senso a partire dal miste­ro che unisce in una alleanza eterna Cristo e la sua Chie­sa (cf. Ef. 5, 25.32): Voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei.. Questo mistero è grande, lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! In duplice senso, il matrimonio è un dono: in senso passivo, come dono ricevuto da Dio mediante lo Spirito; in senso attivo, come donazione di sé (« ha dato se stesso per lei »). Questo a tutti i livelli, compreso quello più in­timo: la donazione di sé all’altro deve, via via, trionfare sulla ricerca dell’altro per sé; smettere di domandarsi: c’è qualcosa che potrei avere da mio marito, o da mia moglie, e non ho? E domandarsi invece: c’è qualcosa che potrei fare per lui, o per lei, e non faccio? Vivere carismaticamente il matrimonio, significa di conseguenza, viverlo nella gioia, perché    lo ha detto Gesù   c’è più gioia nel dare (e nel darsi!) che nel rice­vere (Atti, 20, 35). Gesù ha detto anche di prendere il suo giogo sopra di noi perché esso è dolce e leggero (cf. Mt. 11, 29ss.): questa è una parola che va spiegata bene ai coniugi cristiani perché è per loro. Coniugi (da con-iungo) significa due persone poste sotto lo stesso giogo; se que­sto giogo è quello della carne, del piacere, dell’interesse o del mondo, esso è pesantissimo e pressoché insopportabile dopo tre o quattro anni che vi si è sotto, o anche meno; se invece è il giogo di Cristo, della sua parola e del suo amore, allora diventa non solo leggero, ma addirittura dolce.

Lo Spirito Santo è al cuore del Matrimonio ! É il grande rinnovatore dei matrimoni, la luce degli sposi cristiani. Proprio perché egli è l’Amore, il Dono di Dio per eccellenza, sa insegnare ad amare e a donarsi. Conosco alcuni matrimoni rinnovati nello Spirito che so­no qualcosa di veramente stupendo: gente che si esamina insieme davanti al Signore su tutti gli aspetti della propria vita, nessuno escluso; coniugi che si amano in modo nuo­vo, che si edificano a vicenda, che qualche sera, ritrovando­si soli dopo una giornata di lavoro, trovano naturale met­tersi a pregare insieme e restarvi fino a tarda notte. Uscen­do, una sera, dalla visita a una di queste coppie, non fi­nivo più di fare i complimenti a Gesù e ringraziarlo.

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