don Marco Pedron" Prima regola: aprirsi"
Prima regola: aprirsi
don Marco Pedron
IV Domenica di Quaresima - Laetare (Anno C)
Vangelo: Lc 15,1-3.11-32
Il vangelo di questa domenica ci presenta un "classico" di quaresima: la parabola del figliol prodigo.
La parabola è una fotografia meravigliosa su chi è Dio: Dio è come quel Padre.
Quando noi andremo di là e si aprirà il grande libro della nostra vita e avremo consapevolezza di tutto, ma tutto di tutto, avremo tanta paura perché vedremo i nostri limiti, i nostri errori, i nostri sbagli, le nostre relazioni di possesso, di attaccamento, di paura... e di fronte alla Verità non ci sarà mica tanto da ridere!!!
Ma quando arriveremo davanti a Lui non ci dirà: "Guarda qua... e adesso?", ma ci correrà incontro, ci abbraccerà e ci dirà semplicemente: "Benarrivato! Come ti aspettavo! Quanto ti aspettavo!". E ci sarà una gran festa tutta per me, perché anch'io ci sono... e tutti ci sono! E piangeremo insieme: Lui per la felicità di vederci e noi per la felicità di essere accolti senza merito, senza condizioni e solo per amore.
Ma questo succede ogni giorno, ogni volta che io sbaglio. Quanti giorni mi butterei via e mi vergogno di me: "Ma che schifo che faccio! Ma guarda che in basso sono caduto! Ho fallito! Ho paura di scegliere e di decidere. Per paura non volo e mi adeguo. Non ho realizzato niente. Ho vissuto su di un'illusione. Ho ferito i miei figli...". Noi ci guardiamo allo specchio e ci sputeremo in faccia. Ma Lui no! Lui ci corre incontro e ci abbraccia e abbracciandoci ci fa sentire tutto il nostro valore: "Io ti amo; quello che è stato adesso non è più importante; vieni qui fra le mie braccia: riparti".
La domanda che ci facciamo è: "Ma per chi l'ha detta Gesù questa parabola?". All'inizio del capitolo (15,1) si dice che: "Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo". Immaginatevi i peccatori, gli ultimi, gli esclusi, le donne, i "peggio dei peggio", che dicevano: "Non è possibile!? Ma vuoi che Dio sia così? Ma con quello che abbiamo fatto, nonostante questa nostra vita?". "Sì, Lui è così!". Dovevano essere sconvolti, fuori di sé dalla gioia.
E quando Gesù parlava diceva la stessa cosa: "Il regno è per tutti", non solo per gli osservanti, per i bravi, per i religiosi, per i buoni. E quando Gesù mangiava faceva la stessa cosa: Lui stava a pranzo, senza vergogna, con tutti. La cosa più importante non è più quanto tu sei bravo ma se ti lasci amare da Lui.
Ma poi si dice (15,2): "I farisei e gli scribi mormoravano: "Costui riceve i peccatori e mangia con loro". Il centro storico allora di questa parabola (cioè il motivo per cui Gesù l'ha detta) non è il padre misericordioso che ci ama infinitamente (il che rimane vero); non è il figliol prodigo, l'adolescente che deve rompere con le figure genitoriali per capire chi è lui. Il centro storico è il fratello maggiore: tu giudichi e se giudichi non conosci Dio (il Padre).
Gesù diceva: "Voi farisei e voi scribi ce l'avete con me perché io amo chi voi non amate, perché io credo che ci sia la vita in chi voi ritenete già morti, perché io trovo il valore in chi voi considerati peccatori, perché abbraccio gli impuri e i contaminati. Voi mi giudicate e mi disprezzate. Bene, siete proprio voi quel fratello maggiore".
Quando allora ascoltavano questa parabola, Gesù li feriva, Gesù provocava loro un dolore atroce perché sostanzialmente diceva: "Voi siete quel figlio maggiore; siete freddi, distaccati e senza cuore; siete senza misericordia e insensibili e per questo siete lontani da Dio, proprio voi che vi credete religiosi; non avete a cuore la vita e le persone, ma solo la giustizia (falsa) e la formalità esterna".
Il criterio di Dio non è più: "Quanto preghi; quanto sei religioso; quanto sei bravo; quanti errori non hai fatto; quanto composto sei; quanto sei in regola con le regole". Il criterio di Gesù (e di Dio) è semplicemente: "Quanto ami?". E per amore vuol dire: "Credo in te, nel tuo valore al di là di ciò che sei oggi, al di là di ciò che hai fatto, al di là di ciò che si vede. E siccome ti amo, lavorerò perché emerga la luce che non si vede e la bellezza e la ricchezza nascosta".
Per gli psichiatri quello è schizofrenico; quell'altro ha un disturbo ossessivo-compulsivo; quello è un borderline; quell'altro ha una depressione bipolare. E' importante definire, ma attenzione a non etichettare. Gesù diceva: "Io vedo che tu soffri; ti amo e io, se lo vorrai, ti aiuterò a guarire".
L'amore non vede la malattia, vede una persona che soffre, che urla, che ha bisogno di accoglienza, d'amore, di tenerezza, di comprensione, di misericordia. E' l'amore che salva, il giudizio non può che condannare. L'amore salva e recupera ciò che è perso (con amore non si intende certo il sentimento romantico!).
Per alcuni preti quello è un peccatore incallito, quella è una donnaccia che tutti conosco; quella coppia è "in peccato"; quello non può accedere ai sacramenti. E mi chiedo: dov'è l'amore? Perché quando io stabilisco chi è dentro e chi è fuori, chi è in grazia e chi no, chi può fare la comunione e chi no, sapete chi sono? Il fratello maggiore, che faceva proprio così! Sono io fuori, non gli altri!
Per la gente quello è un "poco di buono", quello è una "testa calda", quell'altro è uno "che beve", quella lì è "sempre stata così", quell'altra "non ce la farà mai", ecc. Dov'è l'amore qui? Come ci si può redimere se tutti mi vedono e mi trattano così?
Per la scuola quella famiglia è "problematica" e quel ragazzo è un "teppista", uno "scansafatiche", uno "svogliato". Chi sa guardare oltre? Chi sa guardare dietro? Chi sa amare? Per Gesù nessuno mai era perso. Lui non metteva etichette. Diceva due cose:
1. Tu sei così perché stai soffrendo dentro. E io vorrei toglierti la tua sofferenza e farti vedere che davvero tu puoi vivere diversamente e gustare la vita.
2. Io non sono qui per giudicare nessuno: io sono qui per amare.
La parabola è però anche una stupenda fotografia sulle relazioni familiari. C'è un padre con due figli.
I due figli sono diversi e hanno comportamenti apparentemente opposti. In realtà hanno lo stesso problema: hanno lo stesso padre e non si sentono riconosciuti da lui. Nati dallo stesso padre sono all'opposto proprio perché hanno lo stesso problema. Il padre non è riuscito a trasmettergli l'amore perché entrambi lo sentono come un nemico. Entrambi sono schiavi, entrambi sono dipendenti, entrambi si comportano da mercenari.
Sentite cosa dice il primo: "Dammi la parte del patrimonio che mi spetta" (15,12). Ma non gli spettava niente!
Il minore cerca di arraffare più che può: è chiaro, non conosce l'amore del padre. Gli lotta contro. L'eredità si otteneva solo dopo la morte del padre. Dicendogli così gli dice: "Tu sei morto per me. Io non ho più nulla a che vedere con te. Tu per me non esisti più!".
Il maggiore invece dice al padre: "Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando" (15,29). Si percepisce come un servo, uno schiavo: non fa altro che ubbidire, ma dentro cova rabbia. Il maggiore lo teme, teme di perdere il suo privilegio (lui è il primo) e si assoggetta.
La diversità è solo sulla scelta, sulla strategia che utilizzano per avere un rapporto con il padre.
Il maggiore si sottomette: il dovere. Rinuncia alla sua vita per "amore" del padre: "Tu mi rifiuti (cioè non mi ami per quello che sono), ma io ti dimostrerò che ti sbagli". E fa il bravo, il bravissimo figlio.
Una persona che "fa tutto quello che si deve", brava, che non si ribella e non trasgredisce mai, è molto amata da chi sta sopra (genitori, autorità), ma non conosce l'amore. Perché? Perché tenta di avere con l'ubbidienza ciò che non si può avere (l'amore è gratuito). La strategia è: "Rinuncio alla mia vita e faccio quello che vuoi tu, così mi amerai".
"Ti amo se vai bene a scuola": e il bambino si sottomette così da avere l'approvazione del genitore. "Ti amo se non disturbi": e il bambino si sottomette e diventa un adulto per avere l'approvazione. "Ti amo se fai così": e il bambino si sottomette per avere l'amore del genitore. Ma uno che rinuncia alla propria vita, per ricevere amore, come potrà sentirsi dentro? Come il maggiore: pieno di rabbia, ovvio. Dice: "Guarda cosa mi chiedi (la vita) per essere amato".
Il minore, invece, non è accettato dal padre, si ribella e se ne va: "Mi rifiuti? Anch'io!". D'altronde cosa poteva fare il secondo, il minore? Suo fratello più grande aveva trovato il modo per accaparrarsi un po' di stima del padre: fare il figlio bravo e ubbidiente.
Se in casa c'è già chi fa il bravo (via già percorsa da uno), all'altro rimane che fare il non bravo. Se in casa c'è chi rimane, all'altro non aspetta che andarsene. Se uno fa una cosa, l'altro per differenziarsi dovrà per forza farne un'altra! D'altronde si sa: biologicamente il primogenito è il responsabile, il custode della tradizione e della famiglia, il serio, l'osservante. Il secondo invece è il comunicativo, l'uomo delle relazioni, abile nel sociale, fuori casa (il primo è l'abile in casa): e infatti il minore se ne va in giro per il mondo.
A volte i genitori dicono: li abbiamo educati nella stessa maniera... e sono diversissimi.
1. Biologicamente ogni figlio è equipaggiato per funzioni diverse (il 1° il responsabile della casa; il 2° il comunicativo, il fuori casa; il 3° il creativo o il ribelle; poi il quarto è come il primo, ecc).
2. Il posto determina situazioni diverse: se sei 1°, non hai nessuno davanti. Se sei 2° hai sempre qualcuno davanti.
3. Il 1° figlio ha un investimento diverso da parte dei genitori, perché è il primo (l'aspettato o "la sorpresa") o perché le condizioni di vita sono diverse.
4. Guai se i figli fossero uguali! Con un figlio avremo una relazione unica, diversa: non si ama allo stesso modo i figli perché hanno esigenze diverse. Ciò che conta è amarli, non fare le stesse cose.
Osservate: i due fratelli non si incontreranno mai!
Il maggiore non lo chiamerà mai "fratello" ma si rivolgerà al padre dicendogli: "Questo tuo figlio che ha divorato gli averi con le prostitute" (15,30). Sentite la rabbia? "Tuo figlio": sentite quanto lo odia. Si sente defraudato: "Io ho fatto sempre il bravo, io mi sono sempre comportato bene e tu sei con mio fratello alla stessa maniera di come sei con me?".
"Con le prostitute": non era mai uscita questa cosa prima? Che sia vero o no, non è piuttosto un tentativo di screditarlo, di metterlo in cattiva luce, di denigrarlo? Non sappiamo se suo fratello sia andato con le prostitute. Forse il minore non ci ha mai pensato... ma il maggiore sì. Il cervello non conosce che noi e quindi quando parliamo degli altri parliamo sempre di noi!
Cos'è in gioco? In superficie i soldi, ma in profondità l'amore del padre. A quel tempo era così: il primogenito era il preferito, il prescelto: gli andavano i i 2/3 dell'eredità e riceveva tutti gli incarichi paterni. Il maggiore vinceva, il minore perdeva. Era così.
Il maggiore si attacca ai beni: "Sono il preferito del padre, e ce l'ho tutto per me". E quando il fratello se n'è andato, non gli sarà sembrato vero. Anche l'ultimo rivale se n'è andato: tutto mio, adesso! Ma l'attaccamento ai soldi è l'attaccamento al padre: per questo non è mai cresciuto come persona, per questo non ha mai fatto nulla. E' ancora attaccato, dipendete dal padre e dal suo riconoscimento.
Il minore si vendica sperperando tutto. Perde tutto perché dentro di sé sente di aver perso l'amore del padre: suo padre ha scelto l'altro. E quando tornerà, tornerà solo per interesse: solo per fame!, solo per non morire di fame.
Le guerre per l'eredità o le lotte al lavoro sono conflitti d'amore (nascosti) per essere i primi amati. Il sogno di ogni figlio è di essere unico, di avere tutto l'amore del padre e della madre. Ma è pericoloso: perché da grande penserà che tutto il mondo, che gli altri, girino solo attorno a lui e in funzione sua.
E' importante, invece, avere fratelli, anche se è inevitabile (da piccoli) un po' di gelosia, di rabbia e di odio: perché dobbiamo imparare a spartire la torta dell'amore. Non ci siamo solo noi a questo mondo.
E il padre? Dov'era? Come non ha fatto a vedere tutto ciò che accadeva in casa? Non si era mai accorto che il minore era insoddisfatto? E quando il minore gli dice: "Dammi la parte di patrimonio", perché non dice neppure una parola? Perché non gli dice, com'era giusto: "Mi dispiace ma finché sono vivo non avrai il mio patrimonio"?
Non si era mai accorto che il maggiore era un esecutore? Non si era mai accorto che voleva un capretto? E quando il minore se ne va perché non lo interpella (visto che era parte in causa)?
Quanti padri (e madri) sono così! Non si accorgono di niente. Succedono un sacco di cose nella vita dei figli, ma loro non vedono! Poi dicono: "Ma guarda cos'è successo!?". "Per forza... eri cieco!".
Guardate il padre: non dice nulla, neanche una parola. Succede di tutto in casa sua, ma lui zitto.
E' un genitore che non sa rapportarsi con il figlio: non sa parlargli al cuore, non sa ascoltarlo, non sa cosa dirgli, non ha niente da dirgli. Perché se non conosci il tuo cuore, non puoi conoscere il suo.
L'unica cosa che sa fare è dargli le sue cose, così al minore, così al maggiore. Ma quando un genitore dà le proprie cose al figlio vuol dire che non ha altro da dargli, vuol dire che non ha anima, spirito, emozione, vitalità, niente di sé da passargli. E' il fallimento dell'educazione.
Molti genitori riempiono di giocattoli, di vacanze, di cose, di vestiti, di telefonini, di attività (sport, musica, lingue, corsi): bene, ma questo non può sostituire la cosa più importante, l'amore. Un figlio ha bisogno del padre, del suo amore e di un rapporto con lui (parole, momenti, abbracci). Un figlio ha bisogno della madre, del suo amore e di un rapporto con lei (parole, carezze, sentimenti). E l'uno non sostituisce l'altro.
I genitori a volte dicono: "Hai tutto"; sì è vero, tutto di materiale, ma niente di spirituale, niente dell'anima.
E' la parabola del non detto, della non comunicazione, dove all'inizio nessuno parla. Osservate: per metà parabola nessuno dice niente, nessuno parla a qualcun altro (eccetto la frase iniziale del minore).
Assomiglia a tante nostre famiglie: "Tutto bene; nessun problema". E, invece, ci sono un sacco di cose che non vengono dette, che rimangono dentro, che non sono espresse e che poi esplodono. Quando poi esplodono tutti cadono dalle nuvole: "Ma cosa gli è preso? Ma cos'ha?".
Quand'è che la parabola svolta, cambia? Quando i personaggi iniziano a parlarsi.
Il minore parla a sé (15,17-20): "Quanti salariati...". E cosa si dice? Di che cosa parla? Deve parlare del suo errore (rientrò 15,17), del suo sbaglio, di ciò che ha capito, della sua fame d'amore.
Il padre parla quando lo vede e quando si commuove (15,21-24). E di cosa parla? Esprime la sua gioia, il suo pianto, la paura che ha avuto di perderlo, parla ciò che ha imparato e di cosa è davvero importante.
Il maggiore parla della sua rabbia (15,29-30), del suo odio, della sua invidia, del mostro che ha dentro e della bestia che lo assale sapendo del ritorno del fratello.
I personaggi iniziano un viaggio, cambiano, parlandosi, comunicando, aprendosi. Se sto male, come il minore, parlerò del mio male. Non farò finta di niente. Se ho odio e rabbia, come il maggiore, tirerò fuori e parlerò di questo: dietro l'odio c'è una persona tanto ferita. Se ho gioia, emozione, vitalità, come il padre, esprimerò tutto questo. Il minore e il padre tirano fuori ciò che hanno dentro: per questo "guariscono". Il maggiore non ancora, ma ha iniziato... vedremo!
Apriti, comunica, parla di ciò che tu hai dentro; se non ti apri e non comunichi muori dentro. Se non ti apri, nessuno ti può conoscere; se non ti apri, nessuno potrà vedere quanto bello sei!
Pensiero della Settimana
C'era una volta un re che piazzò un masso enorme nel bel mezzo di una strada. Poi si nascose in attesa: voleva vedere se qualcuno l'avrebbe spostato. Alcuni dei mercanti più ricchi passarono di lì e si limitarono ad aggirare l'ostacolo. Passarono anche dei nobili di corte e fecero lo stesso. In molti si lagnarono e accusarono a gran voce il re di non tenere le strade in ordine, ma nessuno si diede da fare per rimuovere il macigno. Giunse, infine, un contadino con un carico di verdura. Quando si trovò di fronte al macigno, posò per terra il suo pesante fardello e cercò di spostare il masso a lato della strada. Dopo molti sforzi e molta fatica, vi riuscì. Raccolto nuovamente il suo carico di verdure, il contadino si accorse che al centro della strada, proprio dove prima si trovava il macigno, giaceva ora una borsa piena di monete d'oro da cui spuntava una nota del re: "Le monete del re, in dono a chi rimuova il macigno dalla strada".
Ogni ostacolo ha la sua preziosità e il suo dono.
Se è nella tua strada è perché tu possa sviluppare qualcosa di te.
don Marco Pedron
IV Domenica di Quaresima - Laetare (Anno C)
Vangelo: Lc 15,1-3.11-32
Il vangelo di questa domenica ci presenta un "classico" di quaresima: la parabola del figliol prodigo.
La parabola è una fotografia meravigliosa su chi è Dio: Dio è come quel Padre.
Quando noi andremo di là e si aprirà il grande libro della nostra vita e avremo consapevolezza di tutto, ma tutto di tutto, avremo tanta paura perché vedremo i nostri limiti, i nostri errori, i nostri sbagli, le nostre relazioni di possesso, di attaccamento, di paura... e di fronte alla Verità non ci sarà mica tanto da ridere!!!
Ma quando arriveremo davanti a Lui non ci dirà: "Guarda qua... e adesso?", ma ci correrà incontro, ci abbraccerà e ci dirà semplicemente: "Benarrivato! Come ti aspettavo! Quanto ti aspettavo!". E ci sarà una gran festa tutta per me, perché anch'io ci sono... e tutti ci sono! E piangeremo insieme: Lui per la felicità di vederci e noi per la felicità di essere accolti senza merito, senza condizioni e solo per amore.
Ma questo succede ogni giorno, ogni volta che io sbaglio. Quanti giorni mi butterei via e mi vergogno di me: "Ma che schifo che faccio! Ma guarda che in basso sono caduto! Ho fallito! Ho paura di scegliere e di decidere. Per paura non volo e mi adeguo. Non ho realizzato niente. Ho vissuto su di un'illusione. Ho ferito i miei figli...". Noi ci guardiamo allo specchio e ci sputeremo in faccia. Ma Lui no! Lui ci corre incontro e ci abbraccia e abbracciandoci ci fa sentire tutto il nostro valore: "Io ti amo; quello che è stato adesso non è più importante; vieni qui fra le mie braccia: riparti".
La domanda che ci facciamo è: "Ma per chi l'ha detta Gesù questa parabola?". All'inizio del capitolo (15,1) si dice che: "Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo". Immaginatevi i peccatori, gli ultimi, gli esclusi, le donne, i "peggio dei peggio", che dicevano: "Non è possibile!? Ma vuoi che Dio sia così? Ma con quello che abbiamo fatto, nonostante questa nostra vita?". "Sì, Lui è così!". Dovevano essere sconvolti, fuori di sé dalla gioia.
E quando Gesù parlava diceva la stessa cosa: "Il regno è per tutti", non solo per gli osservanti, per i bravi, per i religiosi, per i buoni. E quando Gesù mangiava faceva la stessa cosa: Lui stava a pranzo, senza vergogna, con tutti. La cosa più importante non è più quanto tu sei bravo ma se ti lasci amare da Lui.
Ma poi si dice (15,2): "I farisei e gli scribi mormoravano: "Costui riceve i peccatori e mangia con loro". Il centro storico allora di questa parabola (cioè il motivo per cui Gesù l'ha detta) non è il padre misericordioso che ci ama infinitamente (il che rimane vero); non è il figliol prodigo, l'adolescente che deve rompere con le figure genitoriali per capire chi è lui. Il centro storico è il fratello maggiore: tu giudichi e se giudichi non conosci Dio (il Padre).
Gesù diceva: "Voi farisei e voi scribi ce l'avete con me perché io amo chi voi non amate, perché io credo che ci sia la vita in chi voi ritenete già morti, perché io trovo il valore in chi voi considerati peccatori, perché abbraccio gli impuri e i contaminati. Voi mi giudicate e mi disprezzate. Bene, siete proprio voi quel fratello maggiore".
Quando allora ascoltavano questa parabola, Gesù li feriva, Gesù provocava loro un dolore atroce perché sostanzialmente diceva: "Voi siete quel figlio maggiore; siete freddi, distaccati e senza cuore; siete senza misericordia e insensibili e per questo siete lontani da Dio, proprio voi che vi credete religiosi; non avete a cuore la vita e le persone, ma solo la giustizia (falsa) e la formalità esterna".
Il criterio di Dio non è più: "Quanto preghi; quanto sei religioso; quanto sei bravo; quanti errori non hai fatto; quanto composto sei; quanto sei in regola con le regole". Il criterio di Gesù (e di Dio) è semplicemente: "Quanto ami?". E per amore vuol dire: "Credo in te, nel tuo valore al di là di ciò che sei oggi, al di là di ciò che hai fatto, al di là di ciò che si vede. E siccome ti amo, lavorerò perché emerga la luce che non si vede e la bellezza e la ricchezza nascosta".
Per gli psichiatri quello è schizofrenico; quell'altro ha un disturbo ossessivo-compulsivo; quello è un borderline; quell'altro ha una depressione bipolare. E' importante definire, ma attenzione a non etichettare. Gesù diceva: "Io vedo che tu soffri; ti amo e io, se lo vorrai, ti aiuterò a guarire".
L'amore non vede la malattia, vede una persona che soffre, che urla, che ha bisogno di accoglienza, d'amore, di tenerezza, di comprensione, di misericordia. E' l'amore che salva, il giudizio non può che condannare. L'amore salva e recupera ciò che è perso (con amore non si intende certo il sentimento romantico!).
Per alcuni preti quello è un peccatore incallito, quella è una donnaccia che tutti conosco; quella coppia è "in peccato"; quello non può accedere ai sacramenti. E mi chiedo: dov'è l'amore? Perché quando io stabilisco chi è dentro e chi è fuori, chi è in grazia e chi no, chi può fare la comunione e chi no, sapete chi sono? Il fratello maggiore, che faceva proprio così! Sono io fuori, non gli altri!
Per la gente quello è un "poco di buono", quello è una "testa calda", quell'altro è uno "che beve", quella lì è "sempre stata così", quell'altra "non ce la farà mai", ecc. Dov'è l'amore qui? Come ci si può redimere se tutti mi vedono e mi trattano così?
Per la scuola quella famiglia è "problematica" e quel ragazzo è un "teppista", uno "scansafatiche", uno "svogliato". Chi sa guardare oltre? Chi sa guardare dietro? Chi sa amare? Per Gesù nessuno mai era perso. Lui non metteva etichette. Diceva due cose:
1. Tu sei così perché stai soffrendo dentro. E io vorrei toglierti la tua sofferenza e farti vedere che davvero tu puoi vivere diversamente e gustare la vita.
2. Io non sono qui per giudicare nessuno: io sono qui per amare.
La parabola è però anche una stupenda fotografia sulle relazioni familiari. C'è un padre con due figli.
I due figli sono diversi e hanno comportamenti apparentemente opposti. In realtà hanno lo stesso problema: hanno lo stesso padre e non si sentono riconosciuti da lui. Nati dallo stesso padre sono all'opposto proprio perché hanno lo stesso problema. Il padre non è riuscito a trasmettergli l'amore perché entrambi lo sentono come un nemico. Entrambi sono schiavi, entrambi sono dipendenti, entrambi si comportano da mercenari.
Sentite cosa dice il primo: "Dammi la parte del patrimonio che mi spetta" (15,12). Ma non gli spettava niente!
Il minore cerca di arraffare più che può: è chiaro, non conosce l'amore del padre. Gli lotta contro. L'eredità si otteneva solo dopo la morte del padre. Dicendogli così gli dice: "Tu sei morto per me. Io non ho più nulla a che vedere con te. Tu per me non esisti più!".
Il maggiore invece dice al padre: "Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando" (15,29). Si percepisce come un servo, uno schiavo: non fa altro che ubbidire, ma dentro cova rabbia. Il maggiore lo teme, teme di perdere il suo privilegio (lui è il primo) e si assoggetta.
La diversità è solo sulla scelta, sulla strategia che utilizzano per avere un rapporto con il padre.
Il maggiore si sottomette: il dovere. Rinuncia alla sua vita per "amore" del padre: "Tu mi rifiuti (cioè non mi ami per quello che sono), ma io ti dimostrerò che ti sbagli". E fa il bravo, il bravissimo figlio.
Una persona che "fa tutto quello che si deve", brava, che non si ribella e non trasgredisce mai, è molto amata da chi sta sopra (genitori, autorità), ma non conosce l'amore. Perché? Perché tenta di avere con l'ubbidienza ciò che non si può avere (l'amore è gratuito). La strategia è: "Rinuncio alla mia vita e faccio quello che vuoi tu, così mi amerai".
"Ti amo se vai bene a scuola": e il bambino si sottomette così da avere l'approvazione del genitore. "Ti amo se non disturbi": e il bambino si sottomette e diventa un adulto per avere l'approvazione. "Ti amo se fai così": e il bambino si sottomette per avere l'amore del genitore. Ma uno che rinuncia alla propria vita, per ricevere amore, come potrà sentirsi dentro? Come il maggiore: pieno di rabbia, ovvio. Dice: "Guarda cosa mi chiedi (la vita) per essere amato".
Il minore, invece, non è accettato dal padre, si ribella e se ne va: "Mi rifiuti? Anch'io!". D'altronde cosa poteva fare il secondo, il minore? Suo fratello più grande aveva trovato il modo per accaparrarsi un po' di stima del padre: fare il figlio bravo e ubbidiente.
Se in casa c'è già chi fa il bravo (via già percorsa da uno), all'altro rimane che fare il non bravo. Se in casa c'è chi rimane, all'altro non aspetta che andarsene. Se uno fa una cosa, l'altro per differenziarsi dovrà per forza farne un'altra! D'altronde si sa: biologicamente il primogenito è il responsabile, il custode della tradizione e della famiglia, il serio, l'osservante. Il secondo invece è il comunicativo, l'uomo delle relazioni, abile nel sociale, fuori casa (il primo è l'abile in casa): e infatti il minore se ne va in giro per il mondo.
A volte i genitori dicono: li abbiamo educati nella stessa maniera... e sono diversissimi.
1. Biologicamente ogni figlio è equipaggiato per funzioni diverse (il 1° il responsabile della casa; il 2° il comunicativo, il fuori casa; il 3° il creativo o il ribelle; poi il quarto è come il primo, ecc).
2. Il posto determina situazioni diverse: se sei 1°, non hai nessuno davanti. Se sei 2° hai sempre qualcuno davanti.
3. Il 1° figlio ha un investimento diverso da parte dei genitori, perché è il primo (l'aspettato o "la sorpresa") o perché le condizioni di vita sono diverse.
4. Guai se i figli fossero uguali! Con un figlio avremo una relazione unica, diversa: non si ama allo stesso modo i figli perché hanno esigenze diverse. Ciò che conta è amarli, non fare le stesse cose.
Osservate: i due fratelli non si incontreranno mai!
Il maggiore non lo chiamerà mai "fratello" ma si rivolgerà al padre dicendogli: "Questo tuo figlio che ha divorato gli averi con le prostitute" (15,30). Sentite la rabbia? "Tuo figlio": sentite quanto lo odia. Si sente defraudato: "Io ho fatto sempre il bravo, io mi sono sempre comportato bene e tu sei con mio fratello alla stessa maniera di come sei con me?".
"Con le prostitute": non era mai uscita questa cosa prima? Che sia vero o no, non è piuttosto un tentativo di screditarlo, di metterlo in cattiva luce, di denigrarlo? Non sappiamo se suo fratello sia andato con le prostitute. Forse il minore non ci ha mai pensato... ma il maggiore sì. Il cervello non conosce che noi e quindi quando parliamo degli altri parliamo sempre di noi!
Cos'è in gioco? In superficie i soldi, ma in profondità l'amore del padre. A quel tempo era così: il primogenito era il preferito, il prescelto: gli andavano i i 2/3 dell'eredità e riceveva tutti gli incarichi paterni. Il maggiore vinceva, il minore perdeva. Era così.
Il maggiore si attacca ai beni: "Sono il preferito del padre, e ce l'ho tutto per me". E quando il fratello se n'è andato, non gli sarà sembrato vero. Anche l'ultimo rivale se n'è andato: tutto mio, adesso! Ma l'attaccamento ai soldi è l'attaccamento al padre: per questo non è mai cresciuto come persona, per questo non ha mai fatto nulla. E' ancora attaccato, dipendete dal padre e dal suo riconoscimento.
Il minore si vendica sperperando tutto. Perde tutto perché dentro di sé sente di aver perso l'amore del padre: suo padre ha scelto l'altro. E quando tornerà, tornerà solo per interesse: solo per fame!, solo per non morire di fame.
Le guerre per l'eredità o le lotte al lavoro sono conflitti d'amore (nascosti) per essere i primi amati. Il sogno di ogni figlio è di essere unico, di avere tutto l'amore del padre e della madre. Ma è pericoloso: perché da grande penserà che tutto il mondo, che gli altri, girino solo attorno a lui e in funzione sua.
E' importante, invece, avere fratelli, anche se è inevitabile (da piccoli) un po' di gelosia, di rabbia e di odio: perché dobbiamo imparare a spartire la torta dell'amore. Non ci siamo solo noi a questo mondo.
E il padre? Dov'era? Come non ha fatto a vedere tutto ciò che accadeva in casa? Non si era mai accorto che il minore era insoddisfatto? E quando il minore gli dice: "Dammi la parte di patrimonio", perché non dice neppure una parola? Perché non gli dice, com'era giusto: "Mi dispiace ma finché sono vivo non avrai il mio patrimonio"?
Non si era mai accorto che il maggiore era un esecutore? Non si era mai accorto che voleva un capretto? E quando il minore se ne va perché non lo interpella (visto che era parte in causa)?
Quanti padri (e madri) sono così! Non si accorgono di niente. Succedono un sacco di cose nella vita dei figli, ma loro non vedono! Poi dicono: "Ma guarda cos'è successo!?". "Per forza... eri cieco!".
Guardate il padre: non dice nulla, neanche una parola. Succede di tutto in casa sua, ma lui zitto.
E' un genitore che non sa rapportarsi con il figlio: non sa parlargli al cuore, non sa ascoltarlo, non sa cosa dirgli, non ha niente da dirgli. Perché se non conosci il tuo cuore, non puoi conoscere il suo.
L'unica cosa che sa fare è dargli le sue cose, così al minore, così al maggiore. Ma quando un genitore dà le proprie cose al figlio vuol dire che non ha altro da dargli, vuol dire che non ha anima, spirito, emozione, vitalità, niente di sé da passargli. E' il fallimento dell'educazione.
Molti genitori riempiono di giocattoli, di vacanze, di cose, di vestiti, di telefonini, di attività (sport, musica, lingue, corsi): bene, ma questo non può sostituire la cosa più importante, l'amore. Un figlio ha bisogno del padre, del suo amore e di un rapporto con lui (parole, momenti, abbracci). Un figlio ha bisogno della madre, del suo amore e di un rapporto con lei (parole, carezze, sentimenti). E l'uno non sostituisce l'altro.
I genitori a volte dicono: "Hai tutto"; sì è vero, tutto di materiale, ma niente di spirituale, niente dell'anima.
E' la parabola del non detto, della non comunicazione, dove all'inizio nessuno parla. Osservate: per metà parabola nessuno dice niente, nessuno parla a qualcun altro (eccetto la frase iniziale del minore).
Assomiglia a tante nostre famiglie: "Tutto bene; nessun problema". E, invece, ci sono un sacco di cose che non vengono dette, che rimangono dentro, che non sono espresse e che poi esplodono. Quando poi esplodono tutti cadono dalle nuvole: "Ma cosa gli è preso? Ma cos'ha?".
Quand'è che la parabola svolta, cambia? Quando i personaggi iniziano a parlarsi.
Il minore parla a sé (15,17-20): "Quanti salariati...". E cosa si dice? Di che cosa parla? Deve parlare del suo errore (rientrò 15,17), del suo sbaglio, di ciò che ha capito, della sua fame d'amore.
Il padre parla quando lo vede e quando si commuove (15,21-24). E di cosa parla? Esprime la sua gioia, il suo pianto, la paura che ha avuto di perderlo, parla ciò che ha imparato e di cosa è davvero importante.
Il maggiore parla della sua rabbia (15,29-30), del suo odio, della sua invidia, del mostro che ha dentro e della bestia che lo assale sapendo del ritorno del fratello.
I personaggi iniziano un viaggio, cambiano, parlandosi, comunicando, aprendosi. Se sto male, come il minore, parlerò del mio male. Non farò finta di niente. Se ho odio e rabbia, come il maggiore, tirerò fuori e parlerò di questo: dietro l'odio c'è una persona tanto ferita. Se ho gioia, emozione, vitalità, come il padre, esprimerò tutto questo. Il minore e il padre tirano fuori ciò che hanno dentro: per questo "guariscono". Il maggiore non ancora, ma ha iniziato... vedremo!
Apriti, comunica, parla di ciò che tu hai dentro; se non ti apri e non comunichi muori dentro. Se non ti apri, nessuno ti può conoscere; se non ti apri, nessuno potrà vedere quanto bello sei!
Pensiero della Settimana
C'era una volta un re che piazzò un masso enorme nel bel mezzo di una strada. Poi si nascose in attesa: voleva vedere se qualcuno l'avrebbe spostato. Alcuni dei mercanti più ricchi passarono di lì e si limitarono ad aggirare l'ostacolo. Passarono anche dei nobili di corte e fecero lo stesso. In molti si lagnarono e accusarono a gran voce il re di non tenere le strade in ordine, ma nessuno si diede da fare per rimuovere il macigno. Giunse, infine, un contadino con un carico di verdura. Quando si trovò di fronte al macigno, posò per terra il suo pesante fardello e cercò di spostare il masso a lato della strada. Dopo molti sforzi e molta fatica, vi riuscì. Raccolto nuovamente il suo carico di verdure, il contadino si accorse che al centro della strada, proprio dove prima si trovava il macigno, giaceva ora una borsa piena di monete d'oro da cui spuntava una nota del re: "Le monete del re, in dono a chi rimuova il macigno dalla strada".
Ogni ostacolo ha la sua preziosità e il suo dono.
Se è nella tua strada è perché tu possa sviluppare qualcosa di te.
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