don Maurizio Prandi"Dio punisce?
Dio punisce?
don Maurizio Prandi
III Domenica di Quaresima (Anno C) (28/02/2016)
Vangelo: Lc 13,1-9
Raccolgo le riflessioni sulla Parola di Dio che la chiesa ci consegna, attorno alla domanda che con la
comunità educatori ci siamo posti giovedì sera durante l'incontro di formazione che aveva come titolo: la giustizia di Dio è la sua misericordia. La domanda che ci ha messo in crisi è questa: Dio punisce? In mezzo alle tante risposte che abbiamo provato a dare, consapevoli del fatto che è difficile dare una risposta, se penso alle letture che abbiamo ascoltato, la pulce nell'orecchio rimane.
Se sto all'interpretazione che tanti rabbini hanno dato della prima lettura, quando dicono che il roveto è il popolo d'Israele, un popolo tra le spine, un popolo nell'afflizione, viene da dire che si, Dio punisce. E se leggo quello che scrive Paolo, quando afferma che nel deserto la maggior parte degli israeliti non furono graditi a Dio e proprio per questo furono sterminati... ancora viene da dire che si, Dio punisce. E poi Gesù, che al raccontare due tragici fatti di cronaca dove un alto numero di innocenti ha perso la vita commenta dicendo: se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo, e poi raccontando la parabola di un albero che se segue non dando frutti si può tagliare, ecco che posso interpretare il vangelo come una conferma al fatto che si, Dio punisce! Una delle tante cose, dicevamo, sulle quali è necessario intenderci bene è proprio su cosa voglia dire punire... siamo arrivati ad un punto che sintetizzo così e perdonate la superficialità o la troppa semplicità: se la punizione è qualcosa che dall'alto scende su di te per stroncarti... allora Dio non punisce, perché Dio non si vendica, Dio non è un sadico assetato di vendetta, Dio non dice: paga quel che devi! E' un Dio, quello in cui crediamo, invece, che è capace di sostenere la punizione, farsi carico della punizione, esserci nella punizione, stare con te nella punizione. E' stata evidente, credo, domenica scorsa, per i ragazzi che hanno partecipato all'incontro con il cappellano del carcere di Chiavari, proprio questa differenza: tra la punizione intesa come medicinale e che ha quindi l'obiettivo della conversione, del cambiamento, del poter ricominciare, del potersi dire: nonostante tutto valgo ancora qualcosa, e la punizione intesa invece come: paga quel che devi che intanto io chiudo questa porta e getto via la chiave. Difficile sostenere la punizione diceva qualcuno... ho provato a togliere il motorino a mio figlio per una settimana, ma è stato come punire me stesso, che ero costretto ad accompagnarlo a scuola, all'allenamento, all'incontro in parrocchia... gli ho ridato subito il motorino!
La prima lettura suggerisce proprio questa immagine: ancora una volta un Dio coinvolto, un Dio mescolato. C'è una infedeltà e quindi ci sono spine, afflizioni ma c'è una fiamma che arde ed è Dio. un Dio vicino al suo popolo che soffre, immerso nelle sofferenze, non fuori da te e dal tuo destino ma dentro, e dentro per sempre (Casati). Un Dio che vuole farti rinascere, un Dio che vuole farti venire alla luce, un Dio che vuole farti uscire dal deserto, un Dio che quando svela il suo nome dice: Io sono... io ci sono, ci sono per te e per la tua storia, ci sono per voi come popolo, come comunità, non mi tiro indietro, sono il fuoco nelle vostre spine! Mi piaceva molto anche quello che diceva Roberto Benigni nel suo spettacolo sui Dieci Comandamenti a proposito di questo fuoco che non consuma: che cosa è che arde, che brucia e non si consuma? È L'amore! Certo... tutto sembra anche troppo complicato allora, però Dio è questo Amore capace di farsi carico in un cammino di ricomposizione, di ricerca, di ri-orientamento della vita dei propri figli.
Proponevo, ricorderete certamente, di tenere presente in questa domenica un altro dei cinque sensi: il tatto. Mi piace che Mosè sia stato invitato da Dio a stare a contato con il suolo... con un suolo sacro. Perché sacro? Perché la voce di Dio esce da lì? Certamente no... quel suolo è sacro perché sacro è il dolore, sacre sono le spine, sacre sono le afflizioni, sacre sono le sofferenze, sacro è il grido degli Israeliti che è arrivato fino a Dio. Ricordo che tempo fa scrivevo, a proposito di questo che Mosè riceve l'invito a togliersi i sandali perché l'incontro con il Signore avviene soltanto se ci si spoglia di quelle sicurezze di cui tante volte si è troppo ricchi. L'abbandono fiducioso mi risulta difficile... A quel gesto è legato l'avvicinarsi... possiamo avvicinarci a Dio solo se ci togliamo i sandali, solo se ci spogliamo, solo se desideriamo rimanere di fronte a Lui così come siamo, senza protezioni, senza maschere, senza finzioni. Il suolo toccato dai piedi nudi di Mosè è un suolo sacro... mi venivano in mente cose che ho visto in questi anni: i piedi nudi dei bambini (ma anche degli adulti) di Cuba, i piedi nudi degli albanesi a Valona, Scutari, Lac, quando, giocando a calcio contro di loro, pensavamo di aver già vinto visto che noi avevamo le scarpe fighe e loro soltanto i calli...le abbiamo prese di santa ragione!!! Non ho ancora imparato a farlo, però almeno sono convinto che dovrei togliermi le calzature quando calpesto la terra dei poveri, perché è una terra sacra.
Ma sacra è anche la quotidianità che permette a Mosè di incontrare Dio: sacro è il suo lavoro di pastore, sacro è il gregge, sacra è la fatica di condurlo.
Sacra è la sua curiosità... il card. Martini si soffermò in un commento proprio su questo aspetto dello spirito di Mosè: la sua curiosità. Mosè, continuando ad usare un linguaggio che ci sta diventando sempre più familiare, va oltre il suo mestiere di pastore, si interroga su ciò che vede, si mette in cammino per scoprire ciò che sta avvenendo. Ne parlavamo ieri sera ad un centro di ascolto quando notavamo come il vangelo di Giovanni sia racchiuso in due domande e in due domande sulla ricerca di senso: Che cercate? (ai primi discepoli) Donna, chi cerchi? (a Maria di Magdala). Ecco... Mosè non registra un fatto, ma cerca di interpretarlo... c'è una curiosità, si fa una domanda. Che bello poter vivere questa consuetudine: interrogare Dio, noi stessi, gli altri, la storia... non per sapere, non per avere delle risposte, ma per poterci muovere, per poterci avvicinare e vedere. Torna il mettersi in cammino, l'uscire, il lasciarsi condurre fuori da Dio.
Mi colpisce sempre come l'incontro con Dio nel caso di Mosè nasca da uno sbaglio, da un errore, o almeno così lo interpreto io, che non me ne capisco di greggi e che mai porterei delle pecore a pascolare attraversando un deserto. Mosè è costretto a cercare un pascolo oltre il deserto. Allora è possibile incontrare Dio anche se ci siamo sbagliati, anche se non abbiamo fatto tutte le cose bene. E' senza volerlo che Mosè arriva al monte della rivelazione. Oggi siamo aiutati a comprendere come le fasi della nostra vita, legate alle necessità, conducano verso l'incontro con Dio (d. Giuseppe Dossetti). Poi (e qui il riferimento importante alla conversione, che in un tempo come la Quaresima è sempre importante ricordare...) il desiderio di Mosè di avvicinarsi: Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo. Bello che nel testo in aramaico ci sia scritto voglio scostarmi, voglio allontanarmi, voglio spostarmi... cosa vuol fare Mosè? Avvicinarsi o allontanarsi? semplicemente vuole cambiare strada, vuole allontanarsi dal sentiero che sta percorrendo per vedere bene che succede. Che bello... Mosè inizia ad abbandonare la sua via per avvicinarsi al Signore anche se ancora non lo conosce...
La seconda lettura è tratta da un brano della lettera ai Corinti nel quale Paolo vuole mettere in guardia dal credere di essere i migliori, quelli che hanno i doni più importanti, quelli che si sentono i più meritevoli e benedetti da Dio... Paolo parla di un popolo certamente benedetto dalla presenza di Dio nella nube, nell'attraversamento del Mar Rosso, benedetto da un cibo che non veniva a mancare e da un'acqua che sgorgava dalla roccia... (bello perché anche qui, in questo cammino di libertà così faticoso, così... provato, Dio sostiene, accompagna... ed è una prova vissuta insieme, in maniera comunitaria); ad un certo punto è venuto a mancare qualcosa. E' venuto a mancare il riferimento a Dio, è venuta meno la fiducia in chi li aveva fatti entrare in quel cammino così difficile e responsabilizzante che si chiama libertà, è nato il sentimento di seguire una propria strada e non quella tracciata da Dio. il brano in questione omette i versetti dove vengono elencati, oltre alla mormorazione, altri tre peccati: idolatria, infedeltà coniugale, il tentare Dio... Paolo ci dice che tutto quello che interpretiamo come prova o come punizione è in realtà non soltanto un esempio, ma un "tipo"... cioè qualcosa che si ripete nel tempo, qualcosa di cui possiamo diventare protagonisti in negativo anche noi ogni qualvolta pretendiamo di vivere da soli, di cavarcela da soli, di farcela da soli... credo di stare in piedi da solo, ma in realtà, non posso far altro che cadere se penso la mia vita come isolata e non appoggiata a Dio.
Cosa vuol dire che le parole di Paolo sono un tipo... vuol dire che più che giudicare o valutare, sono chiamato a specchiarmi in una situazione: il povero, ma anche colui che nella sua incapacità a governarsi cerca di sbarcare il lunario e prova a raggirarti, colui che nulla può per la situazione in cui si trova ma anche colui che non vuole impegnarsi per uscirne, non sono situazioni da valutare, ma specchi in cui riconoscermi, per poter capire quanto ancora devo lasciar lavorare dentro di me Dio, la sua Parola, la sua misericordia.
Bello che Paolo una volta di più ci chieda di fare riferimento alla Scrittura, alla parola di Dio scritta per noi, parola che possiamo comprendere perché riceve piena luce dalla persona e dall'insegnamento di Gesù. Ad esempio: tornando alla prima lettura e rimanendo nel deserto della prova, che cosa è la Pasqua di Gesù se non contemplare in modo nuovo quel roveto che arde, contemplare fino a che punto è arrivato l'esserci di Dio: Io ci sono... io ci sarò... ci sarò fino al punto di soffrire e di morire come tanti di voi soffrono e muoiono...
In sottofondo c'è sempre la domanda iniziale: Dio punisce? Il vangelo ci dice che Dio si fa carico... d'altronde lo ripetiamo tutte le domeniche ecco l'agnello di Dio che porta su di sé (è la traduzione letterale che abbiamo leggermente cambiato...) il peccato del mondo... porta... non: toglie! L'invito che Gesù ci fa è a coinvolgerci nelle vicende delle persone, a partecipare senza giudicare frettolosamente. Ripeto idee già a suo tempo espresse e condivise con altri: giudicare come peccatori e meritevoli di morte diciotto persone decedute nel crollo di una torre è certamente quanto di più stupido e superficiale si possa fare ed è un errore che ciclicamente ripetiamo: l'eco della predicazione di un sacerdote che a suo tempo ha dichiarato che il terremoto di Haiti ha come causa prima il peccato degli abitanti dell'isola, oppure, ricorderete certamente che un cardinale dichiarò che l'Aids è la risposta di Dio al progredire dell'uomo nei sette peccati capitali... C'è una insensibilità agli eventi, un'indifferenza, una superficialità, un non lasciarsi toccare che è già un morire. Se non vi convertirete cioè se non vi lascerete toccare, perirete allo stesso modo cioè morirete schiacciati, soffocati dalla vostra indifferenza. Segno di misericordia è anche l'invito a faticare intorno a chi non porta frutto. Certo che la strada più breve di fronte ad un fico che non porta frutti è quella di tagliarlo e di non pensarci più (penso a quante amicizie troncate, a quante fughe da situazioni ormai compromesse, a quanti perdoni mancati) ma il vangelo ci dice che l'infecondità dell'albero diviene per il vignaiolo l'invito a lavorare ancora e ancora di più affinché tutto sia fatto per mettere la pianta in condizioni di portare frutto. Alla tentazione della durezza e dell'esclusione, la parabola oppone la fatica raddoppiata dell'amore. Quanto è importante rispettare ed aspettare i tempi degli altri. Mi riconosco impaziente ed incapace di questo quando mi risento un po' se dopo una serie di incontri in una comunità siamo sempre punto e capo, all'inizio. Che bello invece quando ci si scopre pazienti e capaci di riconoscere (facendo la fatica di specchiarci una volta di più), nella incompletezza e inadeguatezza degli altri la nostra inadeguatezza.
don Maurizio Prandi
III Domenica di Quaresima (Anno C) (28/02/2016)
Vangelo: Lc 13,1-9
Raccolgo le riflessioni sulla Parola di Dio che la chiesa ci consegna, attorno alla domanda che con la
comunità educatori ci siamo posti giovedì sera durante l'incontro di formazione che aveva come titolo: la giustizia di Dio è la sua misericordia. La domanda che ci ha messo in crisi è questa: Dio punisce? In mezzo alle tante risposte che abbiamo provato a dare, consapevoli del fatto che è difficile dare una risposta, se penso alle letture che abbiamo ascoltato, la pulce nell'orecchio rimane.
Se sto all'interpretazione che tanti rabbini hanno dato della prima lettura, quando dicono che il roveto è il popolo d'Israele, un popolo tra le spine, un popolo nell'afflizione, viene da dire che si, Dio punisce. E se leggo quello che scrive Paolo, quando afferma che nel deserto la maggior parte degli israeliti non furono graditi a Dio e proprio per questo furono sterminati... ancora viene da dire che si, Dio punisce. E poi Gesù, che al raccontare due tragici fatti di cronaca dove un alto numero di innocenti ha perso la vita commenta dicendo: se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo, e poi raccontando la parabola di un albero che se segue non dando frutti si può tagliare, ecco che posso interpretare il vangelo come una conferma al fatto che si, Dio punisce! Una delle tante cose, dicevamo, sulle quali è necessario intenderci bene è proprio su cosa voglia dire punire... siamo arrivati ad un punto che sintetizzo così e perdonate la superficialità o la troppa semplicità: se la punizione è qualcosa che dall'alto scende su di te per stroncarti... allora Dio non punisce, perché Dio non si vendica, Dio non è un sadico assetato di vendetta, Dio non dice: paga quel che devi! E' un Dio, quello in cui crediamo, invece, che è capace di sostenere la punizione, farsi carico della punizione, esserci nella punizione, stare con te nella punizione. E' stata evidente, credo, domenica scorsa, per i ragazzi che hanno partecipato all'incontro con il cappellano del carcere di Chiavari, proprio questa differenza: tra la punizione intesa come medicinale e che ha quindi l'obiettivo della conversione, del cambiamento, del poter ricominciare, del potersi dire: nonostante tutto valgo ancora qualcosa, e la punizione intesa invece come: paga quel che devi che intanto io chiudo questa porta e getto via la chiave. Difficile sostenere la punizione diceva qualcuno... ho provato a togliere il motorino a mio figlio per una settimana, ma è stato come punire me stesso, che ero costretto ad accompagnarlo a scuola, all'allenamento, all'incontro in parrocchia... gli ho ridato subito il motorino!
La prima lettura suggerisce proprio questa immagine: ancora una volta un Dio coinvolto, un Dio mescolato. C'è una infedeltà e quindi ci sono spine, afflizioni ma c'è una fiamma che arde ed è Dio. un Dio vicino al suo popolo che soffre, immerso nelle sofferenze, non fuori da te e dal tuo destino ma dentro, e dentro per sempre (Casati). Un Dio che vuole farti rinascere, un Dio che vuole farti venire alla luce, un Dio che vuole farti uscire dal deserto, un Dio che quando svela il suo nome dice: Io sono... io ci sono, ci sono per te e per la tua storia, ci sono per voi come popolo, come comunità, non mi tiro indietro, sono il fuoco nelle vostre spine! Mi piaceva molto anche quello che diceva Roberto Benigni nel suo spettacolo sui Dieci Comandamenti a proposito di questo fuoco che non consuma: che cosa è che arde, che brucia e non si consuma? È L'amore! Certo... tutto sembra anche troppo complicato allora, però Dio è questo Amore capace di farsi carico in un cammino di ricomposizione, di ricerca, di ri-orientamento della vita dei propri figli.
Proponevo, ricorderete certamente, di tenere presente in questa domenica un altro dei cinque sensi: il tatto. Mi piace che Mosè sia stato invitato da Dio a stare a contato con il suolo... con un suolo sacro. Perché sacro? Perché la voce di Dio esce da lì? Certamente no... quel suolo è sacro perché sacro è il dolore, sacre sono le spine, sacre sono le afflizioni, sacre sono le sofferenze, sacro è il grido degli Israeliti che è arrivato fino a Dio. Ricordo che tempo fa scrivevo, a proposito di questo che Mosè riceve l'invito a togliersi i sandali perché l'incontro con il Signore avviene soltanto se ci si spoglia di quelle sicurezze di cui tante volte si è troppo ricchi. L'abbandono fiducioso mi risulta difficile... A quel gesto è legato l'avvicinarsi... possiamo avvicinarci a Dio solo se ci togliamo i sandali, solo se ci spogliamo, solo se desideriamo rimanere di fronte a Lui così come siamo, senza protezioni, senza maschere, senza finzioni. Il suolo toccato dai piedi nudi di Mosè è un suolo sacro... mi venivano in mente cose che ho visto in questi anni: i piedi nudi dei bambini (ma anche degli adulti) di Cuba, i piedi nudi degli albanesi a Valona, Scutari, Lac, quando, giocando a calcio contro di loro, pensavamo di aver già vinto visto che noi avevamo le scarpe fighe e loro soltanto i calli...le abbiamo prese di santa ragione!!! Non ho ancora imparato a farlo, però almeno sono convinto che dovrei togliermi le calzature quando calpesto la terra dei poveri, perché è una terra sacra.
Ma sacra è anche la quotidianità che permette a Mosè di incontrare Dio: sacro è il suo lavoro di pastore, sacro è il gregge, sacra è la fatica di condurlo.
Sacra è la sua curiosità... il card. Martini si soffermò in un commento proprio su questo aspetto dello spirito di Mosè: la sua curiosità. Mosè, continuando ad usare un linguaggio che ci sta diventando sempre più familiare, va oltre il suo mestiere di pastore, si interroga su ciò che vede, si mette in cammino per scoprire ciò che sta avvenendo. Ne parlavamo ieri sera ad un centro di ascolto quando notavamo come il vangelo di Giovanni sia racchiuso in due domande e in due domande sulla ricerca di senso: Che cercate? (ai primi discepoli) Donna, chi cerchi? (a Maria di Magdala). Ecco... Mosè non registra un fatto, ma cerca di interpretarlo... c'è una curiosità, si fa una domanda. Che bello poter vivere questa consuetudine: interrogare Dio, noi stessi, gli altri, la storia... non per sapere, non per avere delle risposte, ma per poterci muovere, per poterci avvicinare e vedere. Torna il mettersi in cammino, l'uscire, il lasciarsi condurre fuori da Dio.
Mi colpisce sempre come l'incontro con Dio nel caso di Mosè nasca da uno sbaglio, da un errore, o almeno così lo interpreto io, che non me ne capisco di greggi e che mai porterei delle pecore a pascolare attraversando un deserto. Mosè è costretto a cercare un pascolo oltre il deserto. Allora è possibile incontrare Dio anche se ci siamo sbagliati, anche se non abbiamo fatto tutte le cose bene. E' senza volerlo che Mosè arriva al monte della rivelazione. Oggi siamo aiutati a comprendere come le fasi della nostra vita, legate alle necessità, conducano verso l'incontro con Dio (d. Giuseppe Dossetti). Poi (e qui il riferimento importante alla conversione, che in un tempo come la Quaresima è sempre importante ricordare...) il desiderio di Mosè di avvicinarsi: Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo. Bello che nel testo in aramaico ci sia scritto voglio scostarmi, voglio allontanarmi, voglio spostarmi... cosa vuol fare Mosè? Avvicinarsi o allontanarsi? semplicemente vuole cambiare strada, vuole allontanarsi dal sentiero che sta percorrendo per vedere bene che succede. Che bello... Mosè inizia ad abbandonare la sua via per avvicinarsi al Signore anche se ancora non lo conosce...
La seconda lettura è tratta da un brano della lettera ai Corinti nel quale Paolo vuole mettere in guardia dal credere di essere i migliori, quelli che hanno i doni più importanti, quelli che si sentono i più meritevoli e benedetti da Dio... Paolo parla di un popolo certamente benedetto dalla presenza di Dio nella nube, nell'attraversamento del Mar Rosso, benedetto da un cibo che non veniva a mancare e da un'acqua che sgorgava dalla roccia... (bello perché anche qui, in questo cammino di libertà così faticoso, così... provato, Dio sostiene, accompagna... ed è una prova vissuta insieme, in maniera comunitaria); ad un certo punto è venuto a mancare qualcosa. E' venuto a mancare il riferimento a Dio, è venuta meno la fiducia in chi li aveva fatti entrare in quel cammino così difficile e responsabilizzante che si chiama libertà, è nato il sentimento di seguire una propria strada e non quella tracciata da Dio. il brano in questione omette i versetti dove vengono elencati, oltre alla mormorazione, altri tre peccati: idolatria, infedeltà coniugale, il tentare Dio... Paolo ci dice che tutto quello che interpretiamo come prova o come punizione è in realtà non soltanto un esempio, ma un "tipo"... cioè qualcosa che si ripete nel tempo, qualcosa di cui possiamo diventare protagonisti in negativo anche noi ogni qualvolta pretendiamo di vivere da soli, di cavarcela da soli, di farcela da soli... credo di stare in piedi da solo, ma in realtà, non posso far altro che cadere se penso la mia vita come isolata e non appoggiata a Dio.
Cosa vuol dire che le parole di Paolo sono un tipo... vuol dire che più che giudicare o valutare, sono chiamato a specchiarmi in una situazione: il povero, ma anche colui che nella sua incapacità a governarsi cerca di sbarcare il lunario e prova a raggirarti, colui che nulla può per la situazione in cui si trova ma anche colui che non vuole impegnarsi per uscirne, non sono situazioni da valutare, ma specchi in cui riconoscermi, per poter capire quanto ancora devo lasciar lavorare dentro di me Dio, la sua Parola, la sua misericordia.
Bello che Paolo una volta di più ci chieda di fare riferimento alla Scrittura, alla parola di Dio scritta per noi, parola che possiamo comprendere perché riceve piena luce dalla persona e dall'insegnamento di Gesù. Ad esempio: tornando alla prima lettura e rimanendo nel deserto della prova, che cosa è la Pasqua di Gesù se non contemplare in modo nuovo quel roveto che arde, contemplare fino a che punto è arrivato l'esserci di Dio: Io ci sono... io ci sarò... ci sarò fino al punto di soffrire e di morire come tanti di voi soffrono e muoiono...
In sottofondo c'è sempre la domanda iniziale: Dio punisce? Il vangelo ci dice che Dio si fa carico... d'altronde lo ripetiamo tutte le domeniche ecco l'agnello di Dio che porta su di sé (è la traduzione letterale che abbiamo leggermente cambiato...) il peccato del mondo... porta... non: toglie! L'invito che Gesù ci fa è a coinvolgerci nelle vicende delle persone, a partecipare senza giudicare frettolosamente. Ripeto idee già a suo tempo espresse e condivise con altri: giudicare come peccatori e meritevoli di morte diciotto persone decedute nel crollo di una torre è certamente quanto di più stupido e superficiale si possa fare ed è un errore che ciclicamente ripetiamo: l'eco della predicazione di un sacerdote che a suo tempo ha dichiarato che il terremoto di Haiti ha come causa prima il peccato degli abitanti dell'isola, oppure, ricorderete certamente che un cardinale dichiarò che l'Aids è la risposta di Dio al progredire dell'uomo nei sette peccati capitali... C'è una insensibilità agli eventi, un'indifferenza, una superficialità, un non lasciarsi toccare che è già un morire. Se non vi convertirete cioè se non vi lascerete toccare, perirete allo stesso modo cioè morirete schiacciati, soffocati dalla vostra indifferenza. Segno di misericordia è anche l'invito a faticare intorno a chi non porta frutto. Certo che la strada più breve di fronte ad un fico che non porta frutti è quella di tagliarlo e di non pensarci più (penso a quante amicizie troncate, a quante fughe da situazioni ormai compromesse, a quanti perdoni mancati) ma il vangelo ci dice che l'infecondità dell'albero diviene per il vignaiolo l'invito a lavorare ancora e ancora di più affinché tutto sia fatto per mettere la pianta in condizioni di portare frutto. Alla tentazione della durezza e dell'esclusione, la parabola oppone la fatica raddoppiata dell'amore. Quanto è importante rispettare ed aspettare i tempi degli altri. Mi riconosco impaziente ed incapace di questo quando mi risento un po' se dopo una serie di incontri in una comunità siamo sempre punto e capo, all'inizio. Che bello invece quando ci si scopre pazienti e capaci di riconoscere (facendo la fatica di specchiarci una volta di più), nella incompletezza e inadeguatezza degli altri la nostra inadeguatezza.
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