MONASTERO MARANGO, "Oltre il deserto, il dono di una nuova fecondità."

3° Domenica di Quaresima (anno C)
Letture: Es 3,1-8a.13-15; 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9
3 QUARESIMA  C MONASTERO MARANGO
Oltre il deserto, il dono di una nuova fecondità.
Mosè era un assassino: aveva ucciso un egiziano e lo aveva sepolto sotto la sabbia. Il faraone, venuto

a conoscenza del fatto, lo aveva cercato per metterlo a morte. Così quest’uomo, cresciuto negli agi della corte, dovette fuggire lontano, nei territori di Madian. Visse come straniero in terra straniera. Le storie più affascinanti iniziano spesso con l’esperienza amara di una sconfitta, di un esilio da noi stessi e dal mondo.

«Condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb».
L’orizzonte si apre improvvisamente. C’è vita oltre i deserti dell’anima; c’è un approdo di inaspettata novità alla nostra tragica rassegnazione. Dio , spesso, ci attende là dove sembra che tutto sia finito. E’ un nuovo inizio, come una nuova creazione.
«L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto».
La visione contiene una inaudita rivelazione: Dio è immaginato nella figura del fuoco che arde e non si consuma; il popolo, umiliato dalla dura schiavitù, viene rappresentato da un cespuglio di rovi spinosi. Dio e popolo sono inseparabili: ardono insieme in una medesima sofferenza e in un unico amore che non viene mai meno.
«Voglio avvicinarmi ad osservare questo grande spettacolo».
E’ la tentazione di tutti: stare a guardare, immergersi in una contemplazione che non impegna il cuore e l’intera esistenza; avvicinarsi al mistero di Dio, ma non troppo per non restarne coinvolti. «Dio è un fuoco divorante», dice la Scrittura.
«Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!».
«Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo».
La vera nascita alla vita inizia quando ci sentiamo personalmente interpellati. Occorre dire: «Eccomi! Ci sono, mi metto a disposizione». Dapprima non per fare qualcosa, ma per tessere una relazione. Togliendosi i sandali della paura, dell’orgoglio, della presunzione, o anche della memoria ferita che uccide la speranza.
«Io sono il Dio di tuo padre».
Il “caso serio” della nostra società adulta e secolarizzata è la perdita del senso di Dio. Può capitare anche alla Chiesa, se è troppo centrata su di sé e preoccupata della sua immagine. Quando va bene, Dio rimane solo un nome, svuotato di ogni significato reale, di ogni possibile provocazione all’amore. Dio è lì, come un abito logoro dimenticato nell’armadio di casa.
Il Signore Dio che si rivela a Mosè come fuoco ardente non è solo un nome, non dice soltanto di essere «colui che esiste», ma soprattutto afferma che egli è «colui che agisce nella storia».
«Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi aguzzini: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo».
Dio conosce la sofferenza, ma non la accetta come offerta: vuole eliminarla.
Ascolta il grido, che raggiunge il cuore di Dio più che tristi preghiere imparate a memoria.
Scende nei sotterranei della storia, dove l’uomo viene offeso e umiliato, ingaggiando una lotta senza quartiere contro tutte le potenze del male e della morte.
Conosciamo davvero il Dio della Bibbia, il Dio di Gesù Cristo, quando prendiamo parte alla sua battaglia in favore dell’uomo ferito e abbruttito dall’iniquità di sistemi di potere. Un Dio imparato solo sui libri è un idolo muto. Possiamo anche noi avanzare molti dubbi e molte resistenze; possiamo affermare anche noi che la nostra parola è impacciata e che il cuore è colpito a morte dalla memoria dei nostri peccati e dalla violenza che abbiamo buttato addosso ai nostri fratelli. Ma Dio ci conduce «oltre il deserto». Ci mostra ciò che gli sta veramente a cuore e che rivela il suo volto di Padre: che l’uomo viva nella gioia della libertà dei figli di Dio e della dignità ritrovata. Dio è fuoco che brucia tutte le nostre ingiustizie.

Il Vangelo ci esorta ancora una volta alla conversione.
Alcuni giudei, che erano in pellegrinaggio a Gerusalemme per la Pasqua, erano stati coinvolti in una sommossa scoppiata contro i romani invasori. Pilato domò questa rivolta nel sangue, facendo uccidere numerose persone. Molti pensavano allora che la malattia e la morte violenta fossero la punizione di Dio per i peccati commessi, che soltanto lui conosceva.
C’era un altro fatto di cronaca che aveva suscitato scalpore. Una torre, che faceva parte della cinta muraria di Gerusalemme, crollando, aveva causato la morte di diciotto persone. Anche questa volta si riteneva che quelle persone fossero rimaste vittime del crollo perché erano «più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme».
Gesù si rifiuta di collegare i fatti a un castigo di Dio. Il suo tempo non è il tempo del giudizio e del castigo, ma della misericordia e del perdono. Questo conduce alla necessaria conversione. Tutto quello che sta accadendo intorno a noi – pensiamo  alle guerre, alla mancanza di lavoro , al dramma infinito dei profughi, agli anziani abbandonati, alla fragilità di molte famiglie, alla debolezza della proposta educativa – ci chiede l’assunzione di nuove responsabilità. Anche il radicale rinnovamento della Chiesa, invocato con forza da papa Francesco, non può lasciare le cose come stanno. Non voler cambiare atteggiamento, metodi e obiettivi,  è imboccare vie che conducono alla morte.
«Un tale aveva piantato un albero di fichi».
La parabola va interpretata alla luce dei pressanti inviti alla conversione, ricordati nel testo evangelico. Viene sottolineato però il fatto che Dio accorda a tutti un periodo di tempo in cui ciascuno può produrre questi frutti di conversione. Il fico sterile, immagine di tanta parte della nostra esistenza, non viene maledetto, ma è lui stesso che mette alla prova fino all’estremo la pazienza del “vignaiolo”. Zappare la terra intorno, mettere nuovo concime, è una grazia che l’albero non ha meritato. E’ misericordia senza limiti.
Il frutto atteso e tanto a lungo sperato è solo dono della pazienza di Dio.

         Giorgio Scatto

Commenti

Post più popolari