S.E. mons. Benigno Papa COMMENTO PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA

PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA
Dt 26,4-10; Rm 10,8-13; Lc 4,1-13
14 febbraio 2016
VICARIATO DI ROMA  Ufficio Liturgico
1. La Quaresima nella nostra tradizione cristiana non ha nulla di arcaico o di terrificante, ma al
contrario evoca una particolare stagione della Chiesa in cui la comunità cristiana e i suoi fedeli si sentono particolarmente impegnati in un rinnovato cammino di fede da vivere in compagnia di Gesù, che con la sua Parola e il suo Spirito ci conducono verso la sua Pasqua perché essa diventi la nostra Pasqua. Consapevoli di essere cristiani molto lontani dall’ideale di santità al quale siamo chiamati per il dono della fede e del battesimo, sappiamo che il cammino di fede è simultaneamente un cammino di conversione che ci sollecita a morire al peccato e ai suoi compromessi e a risorgere alla vita nuova inaugurata dal Risorto che è fatta di “Amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza,  bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22). Si tratta di un’esperienza di grazia, che nell’ascolto della Parola e nella docilità allo Spirito Santo ci permette di riscoprire “il senso cristiano della vita”, la modalità giusta di comprendere la nostra libertà e il saper fare un uso responsabile di essa. Il messaggio biblico della prima domenica di Quaresima, presente in due professioni di fede, una dell’Antico Testamento e una del Nuovo, e nel racconto delle tentazioni di Gesù, ci invita a vivere il cammino di conversione e di fede all’insegna della fedeltà a Dio che, con il dono della fede e del battesimo, ci ha reso partecipi della sua vita e si attende da noi una collaborazione perché il dono a noi fatto riesca fecondo per la nostra vita e per tutta la comunità umana.
2. Il testo della prima lettura, che gli esegeti attribuiscono ai redattori del Deuteronomio (che vuol dire Seconda legge), associa una professione di fede (26,5-9) a un rito di offerta a Dio delle primizie della terra (26,4.10). Come mai una tale associazione? Quale motivazione teologica o pastorale l’ha causata? La lettura della professione di fede rivela che Jahvè è l’unico soggetto attivo di una storia che risale a Giacobbe, l’arameo errante, il padre di dodici figli eponimi delle dodici tribù di Israele. Egli andò forestiero in Aram presso Labano ma finì per andare in un altro Paese forestiero, l’Egitto, con poca gente che divenne però una nazione forte e numerosa. Essa, maltrattata e resa schiava dal faraone, grida al Signore e «Jahvè udì la nostra voce, vide la nostra miseria… e ci fece uscire dall’Egitto… e ci fece venire in questo luogo e condusse in questa terra dove scorre latte e miele». L’azione salvifica di Jahvè che libera il popolo dalla schiavitù culmina nel dono della terra.
Il possesso di questa terra trasforma un popolo di nomadi in un popolo sedentario, un popolo di pastori in un popolo di contadini. Questa trasformazione sociale fu accompagnata da una profonda crisi di fede perché i culti della fertilità presenti nella terra di Canaan affascinavano il popolo di Israele. In effetti le divinità pagane, legate al ciclo delle stagioni e della natura, sembravano più adatte di Jahvè, il Dio nazionale della storia passata, a dare la pioggia che rende fertile la terra. Al contesto di questa crisi, risale la lotta tra Elia e i profeti di Baal e fa anche riferimento all’azione del profeta Osea. Questi accusa Israele di non aver riconosciuto che Jahvè gli ha dato il «grano, il mosto e l’olio» (2,10), rivelando così che è il Signore e non Baal a rendere fertile il suolo (Os 2,7.10.11.14-15). Da qui l’insistenza della catechesi del Deuteronomio a non dimenticare Jahvè per seguire altri dei perché: «Io darò alle vostre terre la pioggia a suo tempo: la pioggia d’autunno e la pioggia di primavera, perché tu possa raccogliere il tuo frumento, il tuo vino e il tuo olio. Darò anche erbe al tuo campo per il tuo bestiame. Tu mangerai e ti sazierai» (Dt 11,14-15). Il motivo, dunque, che ha indotto gli autori ad associare la professione di fede storico-salvifica di Israele al rito delle primizie è quello di far capire che Jahvè, il Dio della storia, è anche il Dio della natura. Colui che ci ha dato la terra è anche colui che ci dà i frutti della terra. Offrendo al Signore le primizie dei frutti della terra il contadino israelita si considera contemporaneo della storia della salvezza passata: «Io dichiaro oggi al Signore tuo Dio che sono entrato nella terra che il Signore ha giurato di dare a noi» perché riconosca che Jahvè dà oggi la fertilità alla terra così come ieri diede a loro la terra stessa. Il procedimento liturgico attualizza nell’oggi le gesta salvifiche del passato perché ogni generazione possa fruire della grazia data da Dio. La prima lettura è testimonianza preziosa di fedeltà a Dio nonostante i cambiamenti socio-culturali e religiosi avvenuti nel passaggio da una società nomadica a una sedentaria.
3. Della fede parla anche Paolo nella seconda lettura la cui prima finalità è quella di indicare che la via per ottenere la salvezza non è quella dell’osservanza delle leggi ma quella della fede in Dio che si è rivelato e si è donato a noi nel Signore Gesù che è morto e risorto per noi. Prendendo poi le mosse da una citazione del Deuteronomio: «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore» (30,14), l’apostolo parla della fede cristiana come di un’esperienza che coinvolge la totalità della vita umana, nella sua dimensione personale, soggettiva, e nella sua dimensione comunitaria e pubblica. Facendo riferimento all’esperienza dei cristiani battezzati, Paolo distingue due momenti del processo di iniziazione cristiana: il momento dell’adesione libera del cuore a Dio («Se crederai con il tuo cuore che Dio l’ha resuscitato dai morti, sarai salvo») e il momento della professione di fede comunitaria e pubblica («Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore»). Si tratta di due momenti distinti ma non separabili della natura delle fede cristiana, la cui genesi è dovuta all’azione libera dell’uomo ma anche al dono dello Spirito, perché «nessuno può dire Gesù è il Signore se non per mezzo dello Spirito» (1Cor 12,3).
La salvezza che Dio ci offre con la fede è una realtà presente e una realtà futura. È un bene presente a partire dal battesimo, mediante il quale “Siamo rivestiti di Cristo” (Gal 3,27), ci viene fatto dono dello Spirito di Cristo (Gal 4,6) che è sorgente di una vita nuova che ci trasforma nella figura di Cristo che è immagine di Dio (2Cor 3,18; 4,4). Ma la salvezza è anche un bene futuro: «Nella speranza siamo stati salvati» (Rm 8,24), da qui la necessità per noi cristiani di vivere una vita «secondo lo Spirito», di mantenere viva una relazione filiale con Dio, di rendere la nostra fede operosa mediante la carità (Gal 5,6), di essere misericordiosi come è misericordioso il Padre nostro (Lc 6,36). Infine non va trascurato il fatto che con due versetti l’apostolo indica che la salvezza cristiana è destinata a tutti, perché Dio è signore di tutti e la fede cristiana è possibile a tutti. Questa dimensione universalistica della salvezza rende la Chiesa una comunità necessariamente missionaria e fa di ogni battezzato, in possesso dello Spirito di Cristo, un discepolo-missionario che vive la gioia del Vangelo e la gioia di condividere con quante più persone possibili la salvezza ricevuta in dono dall’amore di Dio.
4. Dal momento che il racconto delle tentazioni di Gesù viene dopo due confessioni di fede siamo indotti a leggere anche questo come una confessione di Gesù a Dio: una esemplificazione della perfetta fedeltà al disegno salvifico che il Padre ha risposto su di lui nell’evento del battesimo. Nella tradizione sinottica e in modo particolare in Luca è sottolineato questo legame del battesimo con le tentazioni. È Gesù che prende l’iniziativa “pieno di Spirito Santo”: sin dal momento della nascita si lascia guidare dallo Spirito nel deserto per quaranta giorni. Nel deserto Gesù cerca il silenzio della preghiera e il colloquio filiale con il Padre (Lc 5,16), ma sente anche la voce del diavolo che cerca di distoglierlo dal rapporto filiale con il Padre. Il fatto che, tra la scena del battesimo e quella delle tentazioni Luca abbia inserito la genealogia di Gesù, “figlio di Adamo” significa che le tentazioni di Gesù per l’evangelista non hanno soltanto un interesse messianico ma hanno anche un interesse antropologico ed etico.
La prima tentazione riguarda il potere messianico di Gesù e il cibo: «Poiché tu sei il figlio di Dio - dice il diavolo comanda a questa pietra che diventi pane». È una proposta intelligente perché non c’è nulla di più necessario all’uomo del pane ed è anche seducente perché un leader che riesce a sfamare la popolazione è facilmente da tutti accolto, ma non è una proposta accettabile: non perché Gesù non abbia sensibilità verso le necessità economiche primarie del popolo, come appare dal racconto della moltiplicazione dei pani, ma perché la natura della sua messianicità non è di tipo economico (Lc 12,13-ss), perché Egli non può servirsi del suo potere messianico a  proprio vantaggio ma soltanto per metterlo al servizio della missione religiosa affidatagli dal Padre di cui l’uomo ha assoluto bisogno in quanto «non di solo pane vive l’uomo».
Nella seconda tentazione il diavolo si vanta di disporre del potere politico sul mondo e lo offre a Gesù perché sia il Messia atteso dai suoi contemporanei per la liberazione socio-politica del popolo. Ma il potere di satana è minacciato (Lc 10,18), la sua durata è breve (Lc 22,53), la pretesa del diavolo che Gesù si prostri dinanzi al suo volto è volgare e ridicola. La risposta di Gesù di riconoscere l’unica signoria di Dio al quale sottomettersi rivela che Egli intende l’esercizio del suo ministero come un servizio a Dio senza alcuna ambizione di onnipotenza temporale. Dopo Pasqua Gesù riceverà da Dio la potenza su tutti i Regni della Terra.
Basandosi sull’aiuto garantito dal Salmo 91,11-12 il diavolo provoca Gesù a compiere un gesto spettacolare, buttandosi giù dal luogo più alto e quindi più visibile della città di Gerusalemme. È una domanda che anticipa quella che faranno a Gesù di scendere dalla croce per dare un segno certo della sua messianicità. La risposta di Gesù, espressa con le parole: «Non tenterai il Signore tuo Dio» significa che Egli non intende mettere alla prova Dio con la richiesta di favori personali; che l’aiuto che Dio assicura a chi si fida di lui non può indurre il credente a mettere a rischio la vita e obbligare Dio a intervenire; la sua scelta di non salvarsi dalla croce non è motivata da impotenza personale ma da fedeltà al disegno salvifico di Dio (Lc 24,26; At 14,32). Il nuovo Adamo, Cristo, rifiuta le tentazioni dell’avere, del potere e dell’apparire che seducono purtroppo anche la cultura contemporanea. In maniera antitetica Egli, obbedendo a Dio, ha scelto la logica del dare, del servire, e dell’essere, proponendo questa logica a tutti coloro che sono alla ricerca di un’autentica promozione umana secondo il disegno di Dio creatore.



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