S.E. mons. Benigno Papa, COMMENTO"La Trasfigurazione "SECONDA DOMENICA DI QUARESIMA

SECONDA DOMENICA DI QUARESIMA
Gen 15,5-12.17-18; Fil 3,17-4,1; Lc 9,28-36
21 Febbraio 2016
VICARIATO DI ROMA Ufficio Liturgico
1. Nella seconda domenica di Quaresima la santa madre Chiesa ci invita a portare la nostra riflessione
sulla figura di Abramo, padre della fede e cristiano ante litteram, di Paolo che ha fatto del mistero pasquale di Cristo non soltanto un oggetto di annuncio missionario ma anche un dato di esperienza vissuta scelta come programma di vita (Fil 3,10) e soprattutto di Cristo contemplato nel suo mistero della Trasfigurazione che anticipa quello della sua morte e glorificazione.
Si tratta di un evento luminoso della vita di Gesù del quale sono stati resi partecipi Pietro, Giovanni e Giacomo. Essi hanno visto “la sua gloria” e hanno udito la voce di Dio che li ha illuminati sulla identità di Gesù e ha comandato loro di ascoltarlo. Questa esperienza di Dio che alcuni apostoli hanno avuto nel loro cammino di fede con Gesù ci interpella. Essa ci induce a chiederci se, nel nostro cammino di fede, abbiamo fatto e aiutato a fare una vera e autentica esperienza di Dio. Sappiamo che, finché siamo in questo mondo la nostra conoscenza di Dio non è diretta ma mediata, «noi lo vediamo come in uno specchio, in una maniera confusa» dice Paolo (1Cor 13,12). Ma Dio è presente e lo si può incontrare nell’Eucarestia, nella sua Parola, nella comunità cristiana riunita nel nome del Signore, nei poveri, in ogni persona umana creata a sua immagine e somiglianza e in ogni realtà creata nella quale è misteriosamente presente la sua impronta. Perché ciò avvenga è necessario però un atteggiamento contemplativo che illuminato dalla luce dello Spirito consenta di accostarci a tutte le mediazioni della presenza di Dio sulla terra con una grande fede. Sarà Dio stesso, con il suo amore, a farci sentire la sua presenza e ascoltare la sua voce. Il risultato sorprendente sarà quello indicato da Paolo: «Contemplando e riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3,18).
Se è vero quello che dice Paolo nella seconda lettura che alla parusia, il Signore Gesù Cristo trasfigurerà il nostro misero corpo, per conformarlo al suo corpo glorioso è però interessante quello che scrive nel testo citato prima, secondo il quale la trasfigurazione del nostro corpo per l’azione dello Spirito del Risorto incomincia già nel corso del nostro pellegrinaggio storico. Nella misura in cui contemplo Dio nel volto dell’altro rifletto nel mio volto la presenza di Dio e progressivamente avviene il processo di assimilazione della nostra vita a quella di Cristo che è l’immagine visibile e perfetta di Dio. Per seguire Gesù nel cammino verso la croce è importante aver fatto l’esperienza della bellezza dell’incontro con Dio. Quella progettata da Gesù per Pietro, Giovanni e Giacomo è stata un’esperienza strategica per la sequela verso Gerusalemme.
2. La comunità cristiana, nel suo itinerario di fede, non cesserà mai di guardare ad Abramo, la cui vita è tutta posta sotto la Parola di Dio e si può sempre guardare a lui come modello dei credenti. Egli accetta l’irruzione di Dio nella sua vita e crede nella sua Parola anche quando essa urta contro ogni evidenza. Abramo si fida di Dio. Il brano della prima lettura, redatto da un autore vissuto dopo l’esilio babilonese, come risulta con evidenza dal versetto 7, è articolato in un dittico. I versetti 15,1-6 contengono una promessa, e i versetti 15,7-18 contengono un giuramento.
Dio promette ad Abramo una discendenza numerosa come le stelle del cielo, come aveva prima detto «Farò di te una grande nazione» (Gen 12,4). La fiducia di Abramo nella Parola di Dio è considerata dal Signore un atteggiamento giusto, corretto, pienamente conforme alla natura del rapporto che ci deve essere nel dialogo tra uomo e Dio. Dio fa poi una seconda promessa avvalorata da un giuramento messo in atto con la pratica di un rituale arcaico caratteristico della cultura dei nomadi (Gen 15,9-11): chi presta giuramento passa in mezzo alle parti divise di un animale e pronuncia una formula del genere: «Dio mi faccia questo e aggiunga anche questo se non osservo quanto prometto». Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi. Il fuoco è il simbolo della presenza di Dio che passando in mezzo agli animali divisi si impegna a realizzare quanto promette. Il carattere numinoso dell’evento è dato dal sonno e dal terrore in cui cadde Abramo che evocano il sonno e la paura degli apostoli nell’evento della Trasfigurazione.
Si noti che a passare in mezzo agli animali divisi è soltanto il fuoco, simbolo della divinità, e non anche Abramo. Quindi quella che l’autore biblico chiama “Alleanza” non va confusa con il trattato bilaterale del Sinai tra Dio e il popolo, tra Dio che propone di osservare la Legge e offrire la sua benedizione a chi la osserva e il popolo che si impegna a farlo. Quella conclusa tra Dio e Abramo non è un’alleanza bilaterale, legata alla osservanza della legge, ma una promessa fatta da Dio e sanzionata da un giuramento che Abramo accoglie con la fede che ha caratterizzato tutta la sua vita. Ho definito Abramo un cristiano ante litteram perché è noto a tutti che Paolo ha fondato proprio sulla sua fede manifestata prima della circoncisione la convinzione personale e la dottrina teologica secondo cui a rendere giusti gli uomini dinanzi a Dio non sono le opere degli uomini ma la loro fede in Dio.
3. Il tema evangelico della sequela di Cristo e del caricarsi della croce di Cristo «ogni giorno» (Lc 9,23) trova una corrispondenza nel contenuto della seconda lettura nella quale Paolo invita i cristiani della comunità di Filippi a compiere una chiara scelta di campo: guardarsi dai nemici della croce di Cristo e comportarsi invece da cittadini «degni del Vangelo» (Fil 1,27) che, per il dono del battesimo sono diventati “concittadini” dei Santi (Ef 2,19), risorti con Cristo a vita nuova e fatti «sedere con Lui nei cieli» (Ef 2,6).
Per raggiungere questo obiettivo non ha paura di dire ai cristiani di Filippi di farsi suoi imitatori nella modalità con la quale egli vive di Cristo e lotta per Lui. Dicendo loro che «Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me è quello che dovete fare» (Fil 4,9), Paolo non cede alla vanità dell’autoreferenzialità dal momento che aveva già chiarito, scrivendo ai cristiani di Corinto, che la sua esortazione a farsi suoi imitatori è motivata dal fatto che egli stesso è imitatore di Cristo: «Fatevi miei imitatori come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1). I cristiani di Tessalonica, dichiarati da Paolo modello dei cristiani di tutta la Macedonia e della Acaia, sono diventati tali perché imitatori di Paolo e di Cristo nella sofferenza per il Vangelo. L’insistenza di Paolo a una vita cristiana esemplare è motivata anche dalla convinzione che l’annuncio del Vangelo non viene fatto soltanto con servizio della Parola, ma anche e soprattutto con la testimonianza della vita.
Al pari di Abramo i cristiani non dovranno mai dimenticarsi di essere i figli della promessa perché «salvati nella speranza» (Rm 8,24) e perciò pellegrini in attesa che quel processo di trasfigurazione della nostra persona, iniziato con una vita vissuta nella fedeltà e disponibilità al dono dello Spirito ricevuto al battesimo, trovi compimento quando l’appartenenza alla nostra patria non sarà più germinale ma definitiva. Allora il signore nostro Gesù Cristo trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso. Allora «ci incontreremo faccia a faccia con l’infinita bellezza di Dio» (1Cor 13,12) e potremo leggere con gioiosa ammirazione il mistero dell’universo che partecipa insieme a noi della «pienezza senza fine» (Laudato sii, 249).
4. Collocato subito dopo la profezia sulla sua morte e risurrezione (Lc 9,22) e dopo la catechesi rivolta a tutti sulla necessità di portare “ogni giorno” la croce, il racconto della trasfigurazione di Gesù ha un chiaro interesse cristologico ed ecclesiologico: intende confermare quanto detto prima da Gesù agli apostoli sulla natura della sua messianicità e offrire un motivo di consolazione a tutti i cristiani dicendo loro che l’esperienza della croce è via obbligata per entrare nel regno di Dio (At 14,22).
La duplice menzione della preghiera che precede l’evento della trasfigurazione («Gesù salì sul monte a pregare e mentre pregava…») inducono a ritenere che secondo Luca tale evento debba essere collegato con la vita interiore di Gesù, debba essere compreso come espressione della sua esperienza di preghiera che scandisce tutta la sua vita dal battesimo alla morte. Per indicare ciò che accadde a Gesù nella sua relazione orante con il Padre, Luca evita il verbo metamorphfeo utilizzato da Marco perché i suoi lettori pagano-cristiani non confondessero la trasfigurazione di Gesù con le metamorfosi della mitologia greca. L’evangelista ci tiene a far capire che non si tratta di un cambiamento di identità di Gesù. Solo l’aspetto del suo volto (la persona) è diverso e la sua veste è diventata candida e sfolgorate. Ma si tratta di un  segno chiaro dell’appartenenza di Gesù alla sfera divina.
Luca non solo associa a Gesù Mosè ed Elia, come fa Marco, ma aggiunge che essi «apparvero nella loro gloria» e che «parlavano del suo esodo che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme». Queste parole sono pronunciate da due figure rappresentative dell’Antico Testamento: Mosè che rappresenta la legge ed Elia rappresentante dei profeti. Entrambi sono passati attraverso l’esperienza della sofferenza (At 7,17-44; 1Re 19,3 ss.) e indicano che Gesù a Gerusalemme, centro della storia della salvezza, deve realizzare il nuovo esodo con la sua morte, risurrezione e ascensione (Lc 24,4; At 1,10).
I tre apostoli che Gesù aveva preso con sé sono resi partecipi della gloria di Dio. Essi, che avevano assistito alla risurrezione della figlia di Giairo da parte di Gesù, «vedono la sua gloria». Si è trattato di un’esperienza ineffabile e per noi indescrivibile. Anche se non hanno mai riferito ad alcuno ciò che hanno visto (Lc 9,36), questa esperienza li ha accompagnati per tutta la vita e si è trattato certamente di un’esperienza soggettiva così gratificante che Pietro esprime a Gesù il suo desiderio di prolungarla quando si accorge che con la separazione di Mosè ed Elia da Gesù tale esperienza stava per cessare. Finita l’esperienza della visione della gloria di Gesù, gli apostoli restano coinvolti dall’azione di Dio che, con il simbolo della nube, li avvolge e rivela loro il significato della visione goduta con le seguenti parole: «Questi è il figlio mio, l’eletto, ascoltatelo». Tali parole manifestano in maniera oggettiva agli apostoli quanto la voce del Padre aveva comunicato solo a Gesù nell’evento del suo battesimo con due sole varianti: il titolo di eletto attribuito a Gesù che Luca riprenderà nella scena della crocifissione (Lc 23,35) e che proviene probabilmente da Isaia 49,7 e l’imperativo ascoltatelo che comanda agli apostoli di prendere sul serio quello che Gesù aveva detto loro sulla sua morte e risurrezione (9,22) e quello che dovrà ancora dire nel corso della sua vita. Ma dopo aver visto la gloria di Gesù e aver udito la voce di Dio sulla sua identità gli apostoli comprendono almeno al momento che ascoltare Gesù è sinonimo di obbedire a Gesù.

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