S.E. mons. Benigno Papa,COMMENTO QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA
Commento al lezionario festivo a cura di S.E. mons. Benigno Papa QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA
VICARIATO DI ROMA Ufficio Liturgico
Gs 5,9.10-12; 2Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32
6 Marzo 2016
1. I temi che danno unità alla quarta domenica di Quaresima sono la rivelazione di Dio come Padre
misericordioso e la gioia traboccante che Egli manifesta nell’accogliere nella sua casa il figlio peccatore. La conoscenza dell’identità di Dio, dell’immagine che si ha di Lui è fondamentale per capire i comportamenti etici e religiosi degli uomini. L’Amore misericordioso di Dio che Luca racconta con una meravigliosa parabola nel Vangelo, il genio teologico di Paolo lo esprime facendo ricorso alla categoria teologica della riconciliazione (seconda lettura). Dio, il cui Amore ci possiede, «ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ci ha affidato il ministero della riconciliazione» (2Cor 5,14.18). All’Amore misericordioso di Dio va attribuito l’ingresso degli Israeliti nella Terra Promessa dopo l’esperienza del deserto (prima lettura, salmo responsoriale 136,21-22).
La rivelazione della misericordia di Dio è seguita da una duplice esplosione di gioia che sgorga dal cuore del Padre: la prima al ritorno del figlio minore che lo aveva abbandonato: «Mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è ritornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,24); la seconda rivolta al figlio maggiore che si rifiutava di riconoscere come suo fratello il figlio più piccolo che aveva abbandonato il Padre: «Bisognava far festa e rallegrarsi perché questo tuo fratello era morto ed è ritornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,32). Questa partecipazione gioiosa al banchetto offerto dal Padre di cui parla il Vangelo trova un’eco nell’antifona di ingresso che invita i membri dell’assemblea a rallegrarsi e saziarsi «dell’abbondanza delle consolazioni» che la misericordia del Padre ci offre nel banchetto eucaristico. Beneficiari tutti della misericordia di Dio, siamo sollecitati dal salmo responsoriale a ringraziarlo per essere stati da lui liberati dal peccato e accolti nella sua amicizia. L’antifona alla comunione ci propone di fare nostro il consiglio che il Padre della parabola dava al figlio maggiore: accettare come proprio fratello nella fede ogni peccatore che Dio misericordioso accoglie nella casa comune.
2. I quattro versetti della prima lettura ci parlano degli inizi della vita di Israele nella Terra promessa. L’ingresso in essa è segno della fedeltà di Dio alle sue promesse. Della terra gli Israeliti non sono proprietari perché essa è un dono che l’Amore misericordioso di Dio ha loro concesso (Salmo 136,21-22). Il comando dato da Jahvè a Giosuè di circoncidere gli Israeliti indica che essi sono ormai liberi «dall’infamia dell’Egitto» cioè dall’idolatria. La circoncisione è un chiaro segno di appartenenza alla stirpe di Abramo, al popolo della Alleanza. È un segno soprattutto della propria appartenenza a Jahvè e perciò prerequisito indispensabile per celebrare la Pasqua. La prima celebrazione della Pasqua nelle steppe di Gerico evoca quella celebrata dai Israele prima di uscire dall’Egitto. Questo legame è un’indicazione preziosa della continuità storico - salvifica del popolo di Israele, anche se quelli che sono usciti dall’Egitto sono in gran parte morti nel deserto e quelli entrati nella Terra Promessa in gran parte non erano in Egitto. Il giorno successivo alla celebrazione della Pasqua cessò la manna. È la fine di un periodo, quello della vita nel deserto, ed è l’inizio di un nuovo periodo, la vita sedentaria in Canaan. Il passaggio dalla vita di nomadi a quella di agricoltori comporterà cambiamenti culturali notevoli che avranno conseguenze nella fede del popolo. Esso dovrà abituarsi a interpretare la vita quotidiana priva di manifestazioni religiose straordinarie alla luce della fede in Dio, Signore della storia e del creato.
3. In cinque versetti di particolare densità teologica l’apostolo Paolo è impegnato a mettere in luce la fecondità dell’Amore di Cristo per l’umanità dal punto di vista antropologico, teologico, cristologico ed ecclesiologico. Anzitutto dal punto di vista antropologico: coloro che con la fede ed il battesimo hanno accolto Cristo, come Signore e Messia, sono diventati “creature nuove”. Con il Mistero pasquale di Cristo, la salvezza è già presente nel mondo (2Cor 6,2), i cristiani sono gli uomini nuovi. Si tratta di una realtà ancora nascosta con Cristo in Dio (Col 2,3), ma già presente come lievito buono che fermenta la massa dell’umanità. La tensione che Paolo vive con la comunità di Corinto lo induce a interpretare la salvezza cristiana in termini di riconciliazione. Questo nuovo termine del lessico cristiano è molto importante perché mette in primo piano il cambiamento delle relazioni interpersonali tra gli uomini e Dio, le relazioni di ostilità dovute al peccato e le relazioni di amicizia dovute alla partecipazione dei battezzati alla vita stessa di Dio. L’apostolo afferma che la riconciliazione oggettiva dell’umanità con Dio è un suo dono perché Egli «Ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione» (2Cor 5,18). È un’affermazione questa che in maniera sintetica esprime la dimensione teologica, cristologica ed ecclesiologica della riconciliazione. Nei versetti 5,18-19 per ben due volte Paolo dice che all’origine di tutto il disegno della salvezza sta il Padre in dialogo di Amore con il Figlio Gesù Cristo. Questo pensiero è da lui più volte espresso nelle sue lettere (Rm 5,10) ed è comune del resto a tutti gli autori del Nuovo Testamento. «Per mezzo di Cristo Dio riconcilia a sé tutte le cose, sia quelle che sono nei cieli, sia quelle che sono sulla terra» (Col 1,20). «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16), dove in quel verbo “dare” c’è un riferimento non soltanto all’evento dell’Incarnazione ma anche a quello della Croce. In merito alla dimensione cristologia della riconciliazione Paolo aveva già affermato prima che Cristo «è morto per tutti e quindi tutti sono morti» (2Cor 5,14), nel senso che grazie alla sua morte, a tutti è data la possibilità di non vivere più per se stessi ma per «Colui che è morto e risuscitato per noi» (2Cor 5,15). Ma se questa affermazione aveva messo in luce la portata salvifica della sua morte, l’apostolo, alla fine del brano ci tiene ad indicare quanto sia essenzialmente costato a Gesù l’essere il Mediatore della nostra riconciliazione con Dio: «Dio lo (Cristo) trattò da peccato in nostro favore perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2Cor 5,21). È un’espressione che va compresa nel modo seguente: come noi diventiamo giusti in quanto riceviamo in noi stessi gli effetti della giustizia di Dio che ci rende simili a sé senza identificarci con Lui, allo stesso modo Dio accolla su Cristo tutte le conseguenze e gli effetti del peccato (paura, dolore, morte, disprezzo e odio degli uomini) senza per altro diventare peccatore. Perché la riconciliazione oggettiva realizzata da Dio per mezzo di Gesù Cristo diventi esperienza vissuta di riconciliazione da parte di tutti gli uomini, Dio ha affidato alla Chiesa il servizio della riconciliazione e le parole della riconciliazione. Riconciliatore è Dio, è Gesù Cristo, la Chiesa ha la missione di invitare l’umanità, a nome e con l’autorità di Cristo, a «lasciarsi riconciliare con Dio».
4. Il brano evangelico rivela il volto paterno di Dio. In risposta agli scribi e ai farisei che lo accusavano di accogliere i peccatori e di mangiare con loro, Gesù racconta una parabola, la più bella e commovente delle sue parabole, con la quale rivela la vera paternità di Dio, giustifica il suo operato, che è perfettamente conforme all’agire di Dio, e dona a noi cristiani, chiamati a essere misericordiosi come misericordioso è il padre nostro (Lc 6,36), un sicuro modello a cui fare riferimento.
Va notato anzitutto che il Padre della parabola (cioè Dio) non si oppone alle richieste di libertà, di autodeterminazione, di avere “tutto il patrimonio” che gli spettava, avanzate del figlio minore, che forse si sentiva frustrato nella casa paterna e desiderava fare una nuova esperienza di vita. Nessuno più di Dio rispetta la libertà dell’uomo. Egli, che ci ha dato la vita e la libertà, desidera che noi la esercitiamo con responsabilità.
Nell’esperienza del massimo degrado sociale in cui era giunto, andato via dalla casa del Padre (nel paese dove aveva scelto di vivere la sua vita era considerata meno degna di un maiale), egli rientra in sé e decide di ritornare. La riflessione che egli fa non consente a noi di parlare di conversione: non manifesta alcun dolore nei confronti del Padre che ha abbandonato e non riconosce di aver fatto un gesto oggettivamente cattivo nell’abbandonare la sua casa. La sua decisione di tornare è motivata dalla certezza di trovare in essa qualcosa da mangiare. La frase: «Ho peccato contro il cielo e contro la terra» è una trovata strategica per catture la benevolenza del Padre, dal quale si attende di essere assunto non come figlio ma come bracciante.
I versetti 15,20b-22 sono quelli che maggiormente rivelano la tenerezza paterna di Dio che, proprio perché di Dio, non può essere misurata dai nostri criteri di giustizia. «Quando ancora era lontano, il Padre lo vide»: benché il figlio fosse andato via da casa, il Padre continua ad amarlo anche nella sua vita di dissolutezza, e lo attende con pazienza. E quando lo vide ha un amore “viscerale” che lo induce a corrergli incontro, non per rimproverarlo o per sottoporlo a un processo perché rendesse conto della modalità con cui aveva sperperato il patrimonio, ma per abbracciarlo e baciarlo. Nessuna parola il Padre rivolge al figlio ma compie nei suoi confronti una serie di azioni rivelatrici del suo Amore paterno. E non basta, interrompe il figlio che aveva iniziato a recitare la formula che aveva imparato e rivolto ai servi dice: «Presto! Portate qui il vestito più bello… mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso e ammazzatelo». Il Padre ha fretta di accogliere il figlio tornato a casa, non come un bracciante ma nella sua dignità di figlio (con l’anello al dito e la veste più bella) e di uomo libero (con i calzari ai piedi) e di esprimere la grande gioia interiore con un banchetto comunitario che fosse esplosione di festa: «Perché questo mio figlio che era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
Il figlio maggiore, al ritorno dal lavoro, informato su quanto accaduto “si indignò” e non voleva entrare a fare festa con gli altri. Il Padre allora prende l’iniziativa e “uscì a pregarlo”. Noi non sappiamo che cosa Egli gli dice. Ma mentre aveva interrotto la frase del figlio minore, lascia che il maggiore dia libero sfogo della sua ira con un linguaggio duro dal quale risulta che egli si considera vittima di un’ingiustizia (Lc 15,29b-30). La risposta del Padre è affettuosa ma anche attenta a rispondere all’accusa fatta e a indicare in maniera positiva ciò che egli chiede a lui: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo». Il Padre lo chiama “Figlio”, parola questa che in linguaggio diretto è riservata soltanto a lui, al figlio maggiore; «Tutto ciò che è mio è tuo»: egli non può lamentarsi di essere trattato ingiustamente e invita il figlio maggiore a non guardare con disprezzo il figlio minore («questo tuo figlio!»), a ad accoglierlo come fratello; «Bisognava far festa e rallegrarsi perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Con queste parole finali della parabola il Padre vuol dire a quelli che sono stati fedeli a Dio è riservata una gioia più grande, non la gioia di ricevere (come pensava il figlio maggiore) ma la gioia di dare, perché essa apre il nostro cuore all’amore misericordioso di Dio: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35).
Luca intenzionalmente non racconta come ha reagito il figlio maggiore alla parola del Padre, perché la parabola è stata scritta anche per noi che con il dono dello Spirito di Gesù ricevuto al battesimo possiamo essere misericordiosi come è misericordioso il Padre nostro che è nei cieli.
VICARIATO DI ROMA Ufficio Liturgico
Gs 5,9.10-12; 2Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32
6 Marzo 2016
1. I temi che danno unità alla quarta domenica di Quaresima sono la rivelazione di Dio come Padre
misericordioso e la gioia traboccante che Egli manifesta nell’accogliere nella sua casa il figlio peccatore. La conoscenza dell’identità di Dio, dell’immagine che si ha di Lui è fondamentale per capire i comportamenti etici e religiosi degli uomini. L’Amore misericordioso di Dio che Luca racconta con una meravigliosa parabola nel Vangelo, il genio teologico di Paolo lo esprime facendo ricorso alla categoria teologica della riconciliazione (seconda lettura). Dio, il cui Amore ci possiede, «ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ci ha affidato il ministero della riconciliazione» (2Cor 5,14.18). All’Amore misericordioso di Dio va attribuito l’ingresso degli Israeliti nella Terra Promessa dopo l’esperienza del deserto (prima lettura, salmo responsoriale 136,21-22).
La rivelazione della misericordia di Dio è seguita da una duplice esplosione di gioia che sgorga dal cuore del Padre: la prima al ritorno del figlio minore che lo aveva abbandonato: «Mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è ritornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,24); la seconda rivolta al figlio maggiore che si rifiutava di riconoscere come suo fratello il figlio più piccolo che aveva abbandonato il Padre: «Bisognava far festa e rallegrarsi perché questo tuo fratello era morto ed è ritornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,32). Questa partecipazione gioiosa al banchetto offerto dal Padre di cui parla il Vangelo trova un’eco nell’antifona di ingresso che invita i membri dell’assemblea a rallegrarsi e saziarsi «dell’abbondanza delle consolazioni» che la misericordia del Padre ci offre nel banchetto eucaristico. Beneficiari tutti della misericordia di Dio, siamo sollecitati dal salmo responsoriale a ringraziarlo per essere stati da lui liberati dal peccato e accolti nella sua amicizia. L’antifona alla comunione ci propone di fare nostro il consiglio che il Padre della parabola dava al figlio maggiore: accettare come proprio fratello nella fede ogni peccatore che Dio misericordioso accoglie nella casa comune.
2. I quattro versetti della prima lettura ci parlano degli inizi della vita di Israele nella Terra promessa. L’ingresso in essa è segno della fedeltà di Dio alle sue promesse. Della terra gli Israeliti non sono proprietari perché essa è un dono che l’Amore misericordioso di Dio ha loro concesso (Salmo 136,21-22). Il comando dato da Jahvè a Giosuè di circoncidere gli Israeliti indica che essi sono ormai liberi «dall’infamia dell’Egitto» cioè dall’idolatria. La circoncisione è un chiaro segno di appartenenza alla stirpe di Abramo, al popolo della Alleanza. È un segno soprattutto della propria appartenenza a Jahvè e perciò prerequisito indispensabile per celebrare la Pasqua. La prima celebrazione della Pasqua nelle steppe di Gerico evoca quella celebrata dai Israele prima di uscire dall’Egitto. Questo legame è un’indicazione preziosa della continuità storico - salvifica del popolo di Israele, anche se quelli che sono usciti dall’Egitto sono in gran parte morti nel deserto e quelli entrati nella Terra Promessa in gran parte non erano in Egitto. Il giorno successivo alla celebrazione della Pasqua cessò la manna. È la fine di un periodo, quello della vita nel deserto, ed è l’inizio di un nuovo periodo, la vita sedentaria in Canaan. Il passaggio dalla vita di nomadi a quella di agricoltori comporterà cambiamenti culturali notevoli che avranno conseguenze nella fede del popolo. Esso dovrà abituarsi a interpretare la vita quotidiana priva di manifestazioni religiose straordinarie alla luce della fede in Dio, Signore della storia e del creato.
3. In cinque versetti di particolare densità teologica l’apostolo Paolo è impegnato a mettere in luce la fecondità dell’Amore di Cristo per l’umanità dal punto di vista antropologico, teologico, cristologico ed ecclesiologico. Anzitutto dal punto di vista antropologico: coloro che con la fede ed il battesimo hanno accolto Cristo, come Signore e Messia, sono diventati “creature nuove”. Con il Mistero pasquale di Cristo, la salvezza è già presente nel mondo (2Cor 6,2), i cristiani sono gli uomini nuovi. Si tratta di una realtà ancora nascosta con Cristo in Dio (Col 2,3), ma già presente come lievito buono che fermenta la massa dell’umanità. La tensione che Paolo vive con la comunità di Corinto lo induce a interpretare la salvezza cristiana in termini di riconciliazione. Questo nuovo termine del lessico cristiano è molto importante perché mette in primo piano il cambiamento delle relazioni interpersonali tra gli uomini e Dio, le relazioni di ostilità dovute al peccato e le relazioni di amicizia dovute alla partecipazione dei battezzati alla vita stessa di Dio. L’apostolo afferma che la riconciliazione oggettiva dell’umanità con Dio è un suo dono perché Egli «Ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione» (2Cor 5,18). È un’affermazione questa che in maniera sintetica esprime la dimensione teologica, cristologica ed ecclesiologica della riconciliazione. Nei versetti 5,18-19 per ben due volte Paolo dice che all’origine di tutto il disegno della salvezza sta il Padre in dialogo di Amore con il Figlio Gesù Cristo. Questo pensiero è da lui più volte espresso nelle sue lettere (Rm 5,10) ed è comune del resto a tutti gli autori del Nuovo Testamento. «Per mezzo di Cristo Dio riconcilia a sé tutte le cose, sia quelle che sono nei cieli, sia quelle che sono sulla terra» (Col 1,20). «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16), dove in quel verbo “dare” c’è un riferimento non soltanto all’evento dell’Incarnazione ma anche a quello della Croce. In merito alla dimensione cristologia della riconciliazione Paolo aveva già affermato prima che Cristo «è morto per tutti e quindi tutti sono morti» (2Cor 5,14), nel senso che grazie alla sua morte, a tutti è data la possibilità di non vivere più per se stessi ma per «Colui che è morto e risuscitato per noi» (2Cor 5,15). Ma se questa affermazione aveva messo in luce la portata salvifica della sua morte, l’apostolo, alla fine del brano ci tiene ad indicare quanto sia essenzialmente costato a Gesù l’essere il Mediatore della nostra riconciliazione con Dio: «Dio lo (Cristo) trattò da peccato in nostro favore perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2Cor 5,21). È un’espressione che va compresa nel modo seguente: come noi diventiamo giusti in quanto riceviamo in noi stessi gli effetti della giustizia di Dio che ci rende simili a sé senza identificarci con Lui, allo stesso modo Dio accolla su Cristo tutte le conseguenze e gli effetti del peccato (paura, dolore, morte, disprezzo e odio degli uomini) senza per altro diventare peccatore. Perché la riconciliazione oggettiva realizzata da Dio per mezzo di Gesù Cristo diventi esperienza vissuta di riconciliazione da parte di tutti gli uomini, Dio ha affidato alla Chiesa il servizio della riconciliazione e le parole della riconciliazione. Riconciliatore è Dio, è Gesù Cristo, la Chiesa ha la missione di invitare l’umanità, a nome e con l’autorità di Cristo, a «lasciarsi riconciliare con Dio».
4. Il brano evangelico rivela il volto paterno di Dio. In risposta agli scribi e ai farisei che lo accusavano di accogliere i peccatori e di mangiare con loro, Gesù racconta una parabola, la più bella e commovente delle sue parabole, con la quale rivela la vera paternità di Dio, giustifica il suo operato, che è perfettamente conforme all’agire di Dio, e dona a noi cristiani, chiamati a essere misericordiosi come misericordioso è il padre nostro (Lc 6,36), un sicuro modello a cui fare riferimento.
Va notato anzitutto che il Padre della parabola (cioè Dio) non si oppone alle richieste di libertà, di autodeterminazione, di avere “tutto il patrimonio” che gli spettava, avanzate del figlio minore, che forse si sentiva frustrato nella casa paterna e desiderava fare una nuova esperienza di vita. Nessuno più di Dio rispetta la libertà dell’uomo. Egli, che ci ha dato la vita e la libertà, desidera che noi la esercitiamo con responsabilità.
Nell’esperienza del massimo degrado sociale in cui era giunto, andato via dalla casa del Padre (nel paese dove aveva scelto di vivere la sua vita era considerata meno degna di un maiale), egli rientra in sé e decide di ritornare. La riflessione che egli fa non consente a noi di parlare di conversione: non manifesta alcun dolore nei confronti del Padre che ha abbandonato e non riconosce di aver fatto un gesto oggettivamente cattivo nell’abbandonare la sua casa. La sua decisione di tornare è motivata dalla certezza di trovare in essa qualcosa da mangiare. La frase: «Ho peccato contro il cielo e contro la terra» è una trovata strategica per catture la benevolenza del Padre, dal quale si attende di essere assunto non come figlio ma come bracciante.
I versetti 15,20b-22 sono quelli che maggiormente rivelano la tenerezza paterna di Dio che, proprio perché di Dio, non può essere misurata dai nostri criteri di giustizia. «Quando ancora era lontano, il Padre lo vide»: benché il figlio fosse andato via da casa, il Padre continua ad amarlo anche nella sua vita di dissolutezza, e lo attende con pazienza. E quando lo vide ha un amore “viscerale” che lo induce a corrergli incontro, non per rimproverarlo o per sottoporlo a un processo perché rendesse conto della modalità con cui aveva sperperato il patrimonio, ma per abbracciarlo e baciarlo. Nessuna parola il Padre rivolge al figlio ma compie nei suoi confronti una serie di azioni rivelatrici del suo Amore paterno. E non basta, interrompe il figlio che aveva iniziato a recitare la formula che aveva imparato e rivolto ai servi dice: «Presto! Portate qui il vestito più bello… mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso e ammazzatelo». Il Padre ha fretta di accogliere il figlio tornato a casa, non come un bracciante ma nella sua dignità di figlio (con l’anello al dito e la veste più bella) e di uomo libero (con i calzari ai piedi) e di esprimere la grande gioia interiore con un banchetto comunitario che fosse esplosione di festa: «Perché questo mio figlio che era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
Il figlio maggiore, al ritorno dal lavoro, informato su quanto accaduto “si indignò” e non voleva entrare a fare festa con gli altri. Il Padre allora prende l’iniziativa e “uscì a pregarlo”. Noi non sappiamo che cosa Egli gli dice. Ma mentre aveva interrotto la frase del figlio minore, lascia che il maggiore dia libero sfogo della sua ira con un linguaggio duro dal quale risulta che egli si considera vittima di un’ingiustizia (Lc 15,29b-30). La risposta del Padre è affettuosa ma anche attenta a rispondere all’accusa fatta e a indicare in maniera positiva ciò che egli chiede a lui: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo». Il Padre lo chiama “Figlio”, parola questa che in linguaggio diretto è riservata soltanto a lui, al figlio maggiore; «Tutto ciò che è mio è tuo»: egli non può lamentarsi di essere trattato ingiustamente e invita il figlio maggiore a non guardare con disprezzo il figlio minore («questo tuo figlio!»), a ad accoglierlo come fratello; «Bisognava far festa e rallegrarsi perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Con queste parole finali della parabola il Padre vuol dire a quelli che sono stati fedeli a Dio è riservata una gioia più grande, non la gioia di ricevere (come pensava il figlio maggiore) ma la gioia di dare, perché essa apre il nostro cuore all’amore misericordioso di Dio: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35).
Luca intenzionalmente non racconta come ha reagito il figlio maggiore alla parola del Padre, perché la parabola è stata scritta anche per noi che con il dono dello Spirito di Gesù ricevuto al battesimo possiamo essere misericordiosi come è misericordioso il Padre nostro che è nei cieli.
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