Alessandro Cortesi op Commento Domenica di Pasqua – anno C – 2016

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He Qi – Resurrection

At 10,34-43; Col 3,1-4; Gv 20,1-9

Secondo il IV vangelo già la morte di Gesù, il suo essere innalzato sulla croce è luogo in cui si
manifesta la gloria di Dio. Nella croce si scorge già la risurrezione, il dono di salvezza nel soffio di vita che Gesù consegna nel morire. E questa vita continua nell’affidamento di una comunità che nel soffio dello Spirito ha inizio sotto la croce.Il IV vangelo presentando così a risurrezione non dovrebbe far attendere un racconto ulteriore sulla risurrezione. Ma Giovanni riprende un elemento forte della tradizione e riporta un racconto della visita alla tomba al mattino di Pasqua in cui la tomba è trovata vuota. E poi il racconto di un incontro in cui il Risorto si dà a vedere a Maria Maddalena, e due volte ai discepoli, la seconda con Tommaso che desidera vedere. La scoperta del sepolcro vuoto e l’inizio del credere della prima comunità riveste un’importanza particolare nel quarto vangelo: la fede nel Risorto non sorge perché ci sono evidenze oggettive o apparizioni, e neppure perché la tomba è vuota. Ma perché ci si apre ad un vedere nuovo; un vedere che legge le Scritture a partire da un incontro nuovo con Gesù vivente. E’ il medesimo crocifisso ma con una presenza nuova.

Nelle Scritture si parla dell’inviato di Dio che non viene abbandonato da Dio e la sua sofferenza è testimonianza della gloria di Dio. Si delinea una ricerca, una lettura di segni e da questi la scoperta che la gloria di Dio è radicalmente diversa da ciò che chiamiamo gloria in modo umano. La gloria umana proviene dal dominio, dalla sopraffazione, dal dividere le persone. La gloria di Dio sta nel percorso di Gesù che ha fatto sua l’identità del servo, che si è chinato, ha lavato i piedi. Si è identificato con gli ultimi per introdurre in una vita che la morte non può ostacolare.

Maria di Magdala è la prima testimone: il IV vangelo la indica come la prima che “il primo giorno della settimana si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio”

Il suo muoversi inizia quando era ancora buio: è una notazione non solo cronologica, con riferimento al suo partire prima dell’alba, ma il IV vangelo suggerisce di scorgere in questo buio la tenebra che ha attraversato la vicenda di Gesù. Gesù è passato dentro il buio di una vicenda che l’ha visto ingiustamente condannato, messo nelle mani dei violenti, condotto ad una morte infamante. Maria si muove in questo contesto di buio non solo della notte, ma della ingiustizia e della violenza che segnano la vicenda umana e la passione di Gesù. Ma è anche il buio dell’incomprensione, del senso di fallimento e di fine. A questo buio lei, donna tra quelle che avevano seguito Gesù, reagisce con il suo andare.

“e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro”. La pietra scostata è un segno di vita nel luogo della morte. E’ apertura in una realtà chiusa e sigillata. La pietra, il sepolcro e poi i teli, richiamano la narrazione della risurrezione di Lazzaro. Gesù in quell’evento aveva presentato un annuncio sulla vita più forte della morte. Di fronte alla tomba dell’amico Lazzaro Gesù aveva detto la sua fede nel Padre che sempre dà ascolto (Gv 11,42) e invita Marta ad aprirsi ad un affidamento nuovo: “Non ti ho detto che , se crederai, vedrai la gloria di Dio?’ (Gv 11,40).

“Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava…”

Nel correre di Maria che apre una serie di corse e rincorse nel narrare del IV vangelo si può scorgere un altro messaggio. La comunità che inizia la sua vita a partire dall’annuncio della pasqua è comunità che deve porsi in ricerca, che si getta in una corsa che non fa stare fermi, chiusi, immobili.

“e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!»”

La fede che inizia a pasqua è un credere che sorge da un vuoto: Maria si mette a correre e pone una domanda. La fede di pasqua sorge da una domanda di profezia che proviene da parole di donna: la fede sorge da un non sapere.

“Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.”

Quello di Pietro e dell’altro discepolo è un correre per cercare. Nel loro correre si pone il problema di riconoscere segni. Il vuoto da cui sorge la prima comunità non è una assenza e nemmeno la fine di un incontro. E’ piuttosto una chiamata a lasciarsi cambiare. La comunità, identificata nei volti di Maria, di Pietro e del discepolo che Gesù amava, scopre una chiamata a lasciarsi convertire il modo di vedere, ad aprirsi a sguardo nuovo, nel leggere i segni. In qualche modo già si attua la promessa di Gesù: “Chi mi ama sarà amato dal Padre mio, anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14,21).

“Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte”.

Il sepolcro vuoto è punto di arrivo di una corsa che vede due figure a rappresentare due componenti della comunità stessa. Pietro è il responsabile, la guida, che nella passione ha negato di essere con Gesù, uno dei suoi discepoli, che ha vissuto il tradimento di Gesù; il discepolo che Gesù amava è legato a Gesù dall’affetto, dalla sintonia propria di chi ama. E’ il discepolo altro: ci sono possibilità e modi diversi di essere discepoli, di seguire Gesù. C’è un correre che può essere vissuto insieme nell’attendersi reciprocamente. Il discepolo che ama corre più veloce: l’amore precede e giunge prima. Ma si ferma e attende l’arrivo di Pietro. E ci sono segni, i teli posati. Segni non di disordine e di violazione, ma segni di cura di chi se n’è andato lasciando tutto in ordine.

“Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti”. C’è un vedere proprio di chi ama che sa leggere dietro e dentro ai segni.

Il credere – suggerisce il IV evangelista – è questione di un vedere nuovo. E’ vivere nell’assenza in un andare in un uscire in cui ricercare i segni, e saper scorgere nei segni la traccia di una presenza.

La comunità sorge in un movimento di rincorse in cui imparare a riconoscere i segni di Gesù. Il segno della sua vita è stato il segno innalzato, il suo morire sulla croce. Al centro del credere sta il riferimento a Gesù, a come lui ha amato.

Non avevano ancora compreso le Scritture: le Scritture non sono solamente un libro da conoscere. Sono il racconto di un incontro. Dio si rende vicino, nella storia di un popolo, per una liberazione che coinvolge tutti popoli della terra. Le Scritture non sono allora un libro chiuso, ma la vita, libro aperto: la storia, la parola nascosta nel cosmo e nella natura, le situazioni quotidiane, i voli delle persone. Leggere le Scritture è imparare a riconoscere i segni del farsi vicino di Dio nelle persone, negli avvenimenti, nel ritornare a Gesù.

Questo vedere nuovo sarà anche il vedere di Maria che nell’incontro con quello che pensava fosse il giardiniere avverte la domanda : chi cerchi?. E’ condotta a cercare in modo nuovo, non più rivolto al passato con un amore di nostalgia e rimpianti, ma in un orizzonte nuovo in rapporto a qualcuno, un ‘chi’ da scorgere e vedere. E anche lei si apre ad un vedere e dirà ai discepoli: «Ho visto il Signore», il Risorto (Gv 20,18).

Alessandro Cortesi op


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Bruxelles, Place de la Bourse – 22 marzo 2016 – dopo gli attentati

Di fronte alla violenza

Amal è il protagonista di un romanzo di Giuseppe Catozzella (Il grande futuro, Feltrinelli 2016). Un testo letterario che sorge tuttavia dall’ascolto di terre lontane dove matura la piaga del terrorismo, della violenza. Amal nasce su un’isola africana dove c’è la guerra tra esercito regolare e neri.

I neri sono soldati che praticano la lotta armata contro truppe regolari, arruolando adulti impregnati di desiderio religioso e bambini, iniziandoli ad una dedizione ad una causa in cui elemento religioso e desiderio di riscatto si intrecciano. Amal proviene da una famiglia povera. Suo padre è un servo di un ricco padrone, signore del villaggio. Ma Amal è amico di Ahmed figlio del signore. Amal ha sul suo corpo i segni della violenza: da piccolo è saltato su una mina e ha subito un intervento al cuore. Nella loro sincerità di adolescenti Amal e Ahmed vivono un’amicizia intensa fatta di complicità, di scorribande sulla barca a pescare, di avventure.

Ma quando i neri giungono vicini al villaggio la loro amicizia si rompe. Improvvisamente il padre di Amal, il pescatore Hassim, lascia il villaggio, recando con sé un segreto. Ahmed stesso lo abbandona e lascia il villaggio per arruolarsi con i regolari. Amal profondamente legato al mare trova dal mare l’indicazione a partire e recarsi alla grande moschea del deserto per ricevere istruzione religiosa. Lì in lunghi anni di studio, di ascesi e preghiera si trasforma. La sua vita è permeata di preghiera e Islam. Ma in questo ambiente incontra chi lo invita a farsi reclutare tra i neri. Resiste a diverse lusinghe e proposte sinché un incontro enigmatico con una figura che risulta essere il padre improvvisamente uscito dalla sua vita lo spinge ad arruolarsi.

Di qui l’inserimento in un mondo di educazione alla violenza, l’ingresso progressivo nella pratica delle armi e dell’indifferenza rispetto al nemico. Diventa un guerriero temuto. Secondo i dettami del campo gli è concessa una giovane donna da usare come schiava e per procreare guerrieri per il futuro: ma l’incontro con Marya lo apre ad un’esperienza che lo disorienta rispetto alla violenza che assorbe tutta al sua vita. La forza di questo amore lo conduce, in modi drammatici, alla scoperta che vivere per annullare il nemico, per rinunciare alla propria umanità di fronte all’altro non può esaurire la sua vita. Si apre un nuovo cammino di ritorno al suo villaggio, di scoperta della storia di quanto sua madre ha fatto per lui, dell’amore quale esile luce nel buio della sopraffazione e del dominio. Gli si apre un futuro nuovo. Da qui il titolo del romanzo: un grande futuro.

Giuseppe Cattozzella nel suo libro tocca molti aspetti che rinviano alle questioni della violenza, delle ingiustizia che segnano mondi lontani e vicini. La sua ricerca sul campo gliha offerto elementi per comprendere ciò che avviene nel mondo dove popoli interi vivono in condizioni di oppressione e ingiustizia, gli ha fatto maturare uno sguardo disincantato ma profondo. Soprattutto richiama ad un’esigenza per i paesi occidentali di “cominciare a farci carico delle responsabilità storiche che l’Occidente stesso ha maturato in Africa e in Medio Oriente”. Di fronte ai recenti fatti di Bruxelles così ha risposto in una intervista («Fondamentalismi come le cosche va sconfitta la logica dell’alveare» intervista a Giuseppe Catozzella, a cura di Alessandro Zaccuri “Avvenire” 23 marzo 2016)

“… Catozzella ha spostato lo sguardo verso il lato d’ombra del Mediterraneo. «Ma gli alveari – commenta – esistono anche lì».

In che senso?

La logica delle organizzazioni armate criminali è la stessa in tutto il mondo, dal Sudamerica alla Russia. E il terrorismo fondamentalista non fa eccezione. Basta concentrarsi sulla dinamica dei reclutamenti, che fanno sempre leva sul malcontento, sulla frustrazione diffusa negli strati più umili e disagiati della società. La potenza dei terroristi, come quella dei mafiosi, deriva da qui, da questo esercito pressoché illimitato sul quale si esercita un ascendente ammantato da motivazioni di volta in volta ideologiche, religiose o semplicemente di ribellione.

L’omertà è un altro tratto comune?

Certamente, solo che in questo caso specifico il ruolo che altrove è assegnato alla famiglia (nascondere, proteggere, camuffare) viene esteso a quella che possiamo considerare come una versione perversa della umma, ovvero la comunità dei musulmani. Ancora una volta, però, la condivisione della stessa fede è un elemento del tutto superficiale. Ad accomunare davvero sono le frustrazioni, è il sentimento di rivalsa e di vendetta.

Perché insiste così tanto sull’aspetto religioso?

Perché è irrinunciabile, in un frangente tanto delicato, preservare la differenza tra l’islam autentico e le deviazioni fondamentaliste. Prendiamo la questione, molto discussa in questo momento, della “sottomissione”, che per l’islam ha come meta ultima non la sopraffazione dell’altro, ma l’affermazione della pace interiore ed esteriore. Il fondamentalismo, oggi come oggi, è fomentato da qualche migliaio di persone in tutto il mondo, mentre l’umma musulmana comprende un miliardo e 600 milioni di credenti. Le proporzioni sono queste. Quello che dobbiamo impedire è che le migliaia si trasformino in milioni.

Come?

È la domanda più difficile, per la quale non ci sono risposte immediate. Personalmente credo che sia importante non dichiararsi sconfitti sul piano culturale. Anche nelle società più colpite, a partire dal Belgio, esistono esperienze reali di integrazione: scuole, corsi di lingue, percorsi di professionalizzazione. Proclamare la resa significherebbe lasciare campo aperto alla ferocia della banlieue, dove l’integralismo nasce appunto dal rifiuto dell’integrazione, come ho avuto modo di comprendere parlando con diversi ex fondamentalisti. Per loro quella che si sta combattendo è una guerra, e una guerra di liberazione.

Ma questo non comporta una reazione anche sul piano militare?

Siamo un crinale sottilissimo, ma bisogna avere il coraggio di ammettere che l’Occidente non può continuare a perseguire la politica adottata a partire dall’11 settembre 2001. In generale, prima ancora di mettere in sicurezza i nostri Paesi, dovremmo cominciare a farci carico delle responsabilità storiche che l’Occidente stesso ha maturato in Africa e in Medio Oriente.

Quindi dobbiamo esportare democrazia?

No, dobbiamo permettere che la democrazia si sviluppi con regole proprie nei Paesi oggi esposti al fondamentalismo. Un piano Marshall per il mondo arabo, ecco di cosa ci sarebbe bisogno.“

Alessandro Cortesi op



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