don Marco Pedron"Dall'amato all'amore"

Dall'amato all'amore
don Marco Pedron
II Domenica di Pasqua (Anno C) 
Gv nei capitoli 18-19 racconta la crocifissione e la morte di Gesù. Nel capitolo 20 invece ci presenta tre scene con cui cerca di dire qualcosa che non si può dire. Infatti, cerca di spiegare cosa vuol dire "vedere" il Signore, il Risorto, nella vita di tutti i giorni. E' la domanda che tutti noi ci facciamo: "Ma Dio, dove, come, quando si vede? Come si può incontrarlo?".
Alcuni pensano che incontrarlo sia vederlo fisicamente: "Se lo vedessi... Se avessi una visione... Se mi facesse un miracolo, allora sì che crederei". Ma Dio non si può incontrare così, fisicamente. Fisicamente Dio si è incarnato, manifestato in Gesù: Gesù è morto duemila anni fa e la cosa finisce qui. Ma allora come, dove, quando, io posso fare esperienza, incontrare il Signore della vita?
Gv in queste tre scene non descrive tanto dei fatti storici ma dei movimenti dell'anima. Definisce le condizioni, i criteri, con cui puoi incontrarlo. Cioè: "Se lo vuoi incontrare queste sono le regole".
Nella prima scena c'è la Maddalena (20,1-2.11-18).
Prima regola: dall'amato all'amore (da fuori a dentro).
Dio lo si può conoscere solo nell'amore. Non dobbiamo aver paura di amare! Come può accedere a Dio chi non sa amare? Come può conoscere colui che è Amore (1 Gv) se non sa amare?
Gesù per la Maddalena era tutto: lei era totalmente "fuori", oggi diremo schizofrenica, pazza, "matta da legare" (Lc 8,2: Gesù l'aveva guarita da sette demoni) e lei era guarita solo grazie a lui.
E' chiaro che Gesù era il suo "amore": lei era morta, era pazza, era indemoniata, e Lui l'aveva guarita. E' ovvio che ti attacchi a chi ti ha dato la vita; è ovvio che non puoi non amare chi ti ha ridato dignità; è ovvio che non puoi non essere per sempre grato a chi ti ha salvato e guarito. Lo siamo per i genitori che ci hanno dato la vita fisica, lo siamo altrettanto per chi ci da la vita del cuore.
Lei ha amato questo Gesù, lo ha toccato, lo ha abbracciato. Certamente fra lei e Gesù c'è stato un rapporto particolare, speciale, d'amore vero e puro. Poi glielo hanno portato via: così va al sepolcro e se non può stare con il corpo vivo del "suo amore", ci starà con il corpo morto. Ma là neppure quello trova!
Lei sente Gesù come "suo" (20,12: "Hanno portato via il mio Signore"): quando ami senti l'altro come tuo, che ti appartiene e che tu gli appartieni. Senti che non puoi vivere senza di lui; senti che la vita non ha senso senza di lui, senza quel rapporto, senza l'amore.
La Maddalena ama visceralmente Gesù: è "suo" (sappiamo che storicamente gli apostoli furono gelosi di questa preferenza di Gesù - non a caso è la prima testimone della resurrezione! - e cercarono di isolare la Maddalena dal gruppo degli apostoli). E' normale: quando ami senti l'altro tuo.
Il grande passaggio della Maddalena sarà passare dall'amore perché "sei mio", all'amore "sei della Vita"; dall'amore "ce l'ho vicino" (l'amore fisico, esterno, di presenza di vita) all'amore "ce l'ho nel cuore" (l'amore interno, dell'anima). E se fuori i nostri amori ci possono essere sottratti, dal nostro cuore nulla ci può essere rubato. Dentro di noi non perdiamo mai chi amiamo e nulla ci può essere veramente sottratto, mai.
E' il grande passaggio dall'amore di attaccamento all'amore di libertà. Gesù le dirà: "Non mi trattenere" (20,17): "Lasciami andare, non sono tuo, sono mio e della Vita. Non ti attaccare". Amiamo le persone ma non attacchiamoci a loro perché non sono nostre; godiamo di loro e viviamo dell'amore ma non facciamo del nostro legame un idolo e un possesso.
Quando la Maddalena, dopo la conversione interiore, torna dai discepoli, dice: "Ho visto il Signore" (20,18) e non dice più "il mio Signore" (20,12). Lei continuerà ad amarlo dentro di sé ma non è più suo: lo ha lasciato andare.
E' il grande passaggio: se muore l'amato non muore l'amore.
Non si può "vedere" il Risorto se non con gli occhi di quest'amore.
L'amore umano, di primo livello, dice: "Tu sei mio. Tu mi appartieni". Alcuni arrivano addirittura a dire: "Guai se te ne vai. Te la faccio pagare se mi tradisci; ti uccido se mi lasci". L'amore di attaccamento dice: "Non posso vivere senza di te; senza di te non sono nessuno; non ce la faccio se tu non ci sei: sento un grande vuoto dentro di me se te ne vai".
Un bambino non può vivere senza sua madre: si attacca a lei. E' necessario che questo avvenga. E' questione di sopravvivenza. E' il primo amore che impariamo: "Senza di te (madre) non vivo". Allora lo schema che impariamo è: amore=attaccarsi, amore=non senza di te.
Il bambino deve imparare che l'amore non è la mamma ma che è dentro di sé. Altrimenti non si staccherà mai da lei (mamma=amore) e quindi non potrà mai amare (il sentimento d'amore nasce dentro di lui). Deve imparare che la sorgente d'amore è in sé e non è sua madre.
E la mamma deve imparare che quel figlio è frutto del suo amore e non è il suo amore. E' una conseguenza della sua capacità d'amare, che rimane, che c'è ancora, che può amare altre cose e persone e non che quel figlio è il suo amore. Perché altrimenti non lo lascerà mai e se il figlio se ne andrà si sentirà defraudata e vuota, con un buco dentro.
Qualcuno dice: "Guarda come l'ama. Non riesce a stare senza di lui". Ma non è vero amore, è sanguisuga, è attaccamento, è parassita, è: "Siccome non ce la faccio da solo, mi appoggio a te perché senza cado" (poi lo si chiama amore).
L'amore di primo livello, chiede, pretende, vuole: "Ma tu mi devi amare... ma se mi ami allora devi far questo... ma tu non stai mai con me... ma non pensi a me...". E' il bambino che chiede, che deve chiedere l'amore della madre perché altrimenti morirebbe. Se non c'è lei, lui è spacciato.
L'amore di secondo livello, invece, non chiede, si propone e offre: "Mi piacerebbe passare una sera con te, ti va? Io, nel mio amore, ti posso dare questo: ti va? Vorrei condividere con te il mio cuore: ti va di fare altrettanto? L'amore spirituale, di secondo livello dice: "Ti amo ma posso vivere anche senza di te".
L'amore spirituale ha imparato che l'amore non è l'altro, un'altra persona, ma il sentimento che c'è in noi stando con l'altro. L'amare spirituale ha imparato che l'amore è dentro di sé: "Se tu ci sei sarò molto, ma molto felice e il mio amore scorrerà verso di te e il tuo verso di me. Ma se non ci sei continuerò ad essere felice lo stesso". L'amore spirituale è in grado di amare anche se l'altro non c'è perché lo porta dentro di sé, perché "lo vede", "lo sente vivo" nel proprio cuore.
Guardo a tutte le persone che amo e dico loro: "Sono felice che tu ci sia. Ma tu non sei mio: non posso possederti, non posso avere pretese su di te. Tu sei l'amato non il mio amore". E poi ascolto la vibrazione di queste parole dentro di me.
L'amore umano, materiale, possiede "Dio": cerca di afferrarlo, di catturarlo, di comprenderlo con la testa. L'amore materiale (di primo livello) vuole idee chiare, precise, prove dell'esistenza, si attacca ai miracoli, vuole conferme, si attacca ai riti e alle regole perché crede che queste siano Lui; vuole toccare, capire, averlo in testa, essere certo. Ma qui Dio non si può "vedere".
L'amore spirituale (di secondo livello) sa che Dio non si può comprendere (in latino cum-prendere vuol dire abbracciare, far mio), si può solo sentire, vivere, condividere, celebrare, festeggiare, gustare, riconoscere.
Come la Maddalena mi metto sulla strada di purificare il mio amore: solo nella libertà esiste l'amore. Come la Maddalena compio il passaggio dall'amato all'amore.
Nella seconda scena ci sono Pietro e Giovanni (20,3-10).
Seconda regola: fa' che il tuo cuore sia vivo.
Quando arriva la Maddalena e dice: "Hanno portato via il Signore dal sepolcro" (20,2), Pietro e Giovanni corrono a vedere. E' normale, vien da dire: c'è una cosa inaspettata e si va a vedere. Ma Gv non vuole descrive la corsetta dei due apostoli. Vuole dire qualcos'altro di molto più profondo.
Pietro è la testa, l'intelligenza, la razionalità, la concretezza, la praticità delle azioni e dei pensieri. Intanto ci arriva per secondo e quando arriva al sepolcro lui entra e vede "le bende per terra e il sudario" (20,7) ma non ci capisce nulla. Mentre di Giovanni si dirà infatti, che "vide e credette" (20,8); di Pietro si dirà semplicemente che "vide" (20,7) ma non che credette.
Giovanni invece, che non viene mai chiamato così nel vangelo, ma sempre "il discepolo che Gesù amava" (in questo senso, sfuma la figura storica di Giovanni per diventare una figura ideale, un archetipo, un modello), giunge per primo: vede e crede (20,8). Non è un caso, visto che il discepolo Giovanni rappresenta il cuore, l'amore, il sentire, la sensibilità, colui che è vicino al cuore, al petto di Gesù e della vita (13,23-24). E' chi è in grado di percepire con "l'interno".
Cosa vuol dire l'evangelista (è una teologia molto coraggiosa!)? Che se il tuo cuore non è vivo, non è in grado di percepire, di sentire, di vibrare, non puoi "vedere" Dio.
Pietro è Giovanni prima della conversione; Giovanni è Pietro dopo la conversione. Non a caso Giovanni è "femminile" in questo vangelo. Il grande passaggio è aprire il proprio cuore e tornare a sentire la vita. Il vangelo non ha molti dubbi: se vuoi "vedere il Signore" il tuo cuore dev'essere vivo.
C'è anche un profondo motivo psicologico. Noi nasciamo maschi e nei primi anni di vita ci identifichiamo con nostra madre, che è una donna, una femmina. Apprendiamo da lei tutto ciò che è femminile (la donna è più a contatto con le emozioni e l'interno), ma poi ad un certo punto ci accorgiamo che noi siamo maschi e non femmine. Allora dobbiamo rifiutare, tagliare con lei (e quindi con il femminile di cui lei è portatrice), per identificarci con nostro padre e con il maschile di cui lui è portatore. E' necessario fare questo, perché noi siamo dei maschi e dobbiamo, identificandoci con un maschio, diventarlo.
Ma facendo questo noi "eliminiamo, tagliamo" con tutto ciò che è femminile: per questo il mondo dei sentimenti, delle emozioni, della tenerezza, delle coccole, del corpo, della misericordia (in greco e in ebraico misericordia=avere viscere di donna!), dell'amore, della sensibilità, ci diventa un po' oscuro, lontano e non familiare.
Per questo nel corso della vita dobbiamo ricontattare questi sentimenti "molli, teneri, vulnerabili". Per questo nella nostra vita dobbiamo compiere la conversione da Pietro a Giovanni, dobbiamo ritrovare e reintegrare il femminile e la sensibilità per non diventare degli orsi o delle pietre, per non cadere in balia della razionalità, dei pensieri e della logica.
Se la donna deve compiere solo un distacco (dalla propria madre) per diventare autonoma, l'uomo ne deve compiere due (dalla madre e dal padre): forse anche (o proprio) per questo l'uomo è emotivamente più fragile e spesso impaurito da ciò che ha dentro e dal mondo dello spirito.
Passare da Pietro a Giovanni è il grande passaggio della vita: è ritornare al cuore, ritornare a sentire. Tracce di questo cambiamento lo troviamo quando Pietro è costretto a piangere, a ricontattare il proprio cuore e la propria sensibilità (Lc 22,62: quando il gallo cantò "Pietro pianse amaramente").
Un ragazzo ha speso tutto il suo primo stipendio per fare una settimana di vacanza all'estero con la sua fidanzata. Ha senso tutto questo? La testa dice: "No!". Il cuore dice: "Certo, eccome!".
A volte succede che finché predico alcune persone in chiesa piangono. Ma si può piangere per delle parole che uno dice? La testa dice: "No. Sono solo parole" oppure: "Ma ti commuovi per "ste robe"?". Il cuore dice: "Certo. Sono la mia vita".
Nei vangeli è il cuore, è il sentire viscerale che cambia la direzione e la vita delle persone (splanchnon=viscere: è la compassione). Così il padre quando vede il figlio minore lascia andare tutta la rabbia o il rancore per ciò che gli aveva fatto "ha compassione" e gli corre attorno (Lc 15,20); così il buon samaritano non tira dritto come gli altri due (non a caso entrambi religiosi!) quando vede l'uomo malmenato sulla strada, anche se può essere pericoloso fermarsi (Lc 10,33); così Gesù quando sente il dolore della vedova di Nain di fronte alla morte del suo unico figlio, "ha compassione", si ferma e le ridà il figlio morto (Lc 7,13).
Ma non senti? Ma non vedi? Ma come fai? Ma non provi nulla? Se hai un cuore vivo non puoi non sentire.
Cuore vivo è emozionarsi, piangere, ridere, commuoversi, sorridere, stupirsi, meravigliarsi, "toccare il cielo con un dito", ringraziare, sentire l'amore degli altri che ci entra dentro, amare, appassionarsi, essere furenti con l'ingiustizia, provare rabbia, sentire la compassione e provare la tenerezza, aver pietà, consolare, far silenzio, accarezzare e abbracciare, gioire di fronte al sole o la luna o a un campo in fiore; emozionarsi di fronte alla propria donna o di fronte al proprio figlio; sentirsi al centro dell'universo o parte di questo tutto di cui siamo immersi; cuore è chiedere scusa, perdonare e accettare il perdono, accettare di aver sbagliato e sentire il dolore dell'altro; cuore è cantare e cuore è mistero e anima.
Cuore morto è: giudicare. Giudichi perché non sai comprendere e metterti nei panni degli altri. Pensare. Pensi sempre perché hai paura della vita, quella vera, quella che scorre, quella che fa fremere. Non gioire mai, lamentarsi sempre. Il tuo cuore è morto e poiché non sa più né vivere né emozionarsi, ovviamente non puoi che essere così. Scaricare sempre sugli altri il male del mondo. Pensi che gli altri debbano cambiare, invece non è il mondo che deve cambiare, è il tuo cuore di pietra che non può essere raggiunto da niente e da nessuno. Regole chiare e indiscutibili. Ti attacchi all'esterno (regole) perché il tuo interno non è sviluppato. Rancore e rigidità. Ti tieni dentro la rabbia, l'odio, il veleno e non perdoni. Così diventi freddo, di ghiaccio, insensibile, in una parola sei morto. Shakespeare diceva: "Il dolore sussurra al cuore e gli dice di spezzarsi".
La terza scena di Gv 20 è il vangelo di oggi (20,19-29).
Terza regola: la vita scorre solo nel perdono.
Gv descrive una situazione difficile. I discepoli dopo ciò che è successo si sono rinchiusi per la paura (20,19). Dicono: ciò che è successo forse succederà anche a noi. E' chiaro che sono pieni di tristezza per la scomparsa ma anche di rabbia per ciò che è accaduto: hanno ucciso il loro maestro, il loro idolo e l'hanno ucciso ingiustamente, in maniera pretestuosa e falsa. E, infatti, quando Gesù appare deve dire: "Pace a voi" (20,19.26) perché il mare del loro cuore era nella tempesta della rabbia e dell'odio.
Allora Gesù deve dire: "Perdonate, lasciate andare (rimettere, afiemi, in greco è lasciar andare, lasciar la presa"). Gv riporta probabilmente una formula sacramentale, già costituita quando lui scrive il vangelo. Ma il senso di Gesù è molto semplice: "Perdona, lascia andare".
Perdonare vuol dire: esprimo tutti i sentimenti che ho dentro, li libero (odio, rabbia, dolore, vergogna, ecc.), e li esprimo con tutta l'intensità che ho dentro. Non trattengo niente dentro e accetto la realtà che è, com'è.
Tua madre preferiva tuo fratello e tu odi questo fratello. Vuoi vivere così tutta la vita? Perdona!
Tuo padre ti ha abbandonato e tu avevi tre anni. Vuoi accusarlo per tutta la vita? A che ti serve? A che ti serve vivere nel risentimento e nel rancore? Perdonalo! Ognuno fa quello che può.
Ti sei sposato con chi non avresti voluto? Vuoi torturarti per sempre perché non dovevi farlo? Perdonati!
Ti dici sempre: "Non dovevo farlo!". Ormai è fatto, basta, perdonati.
La Vita ti ha tolto chi amavi e tu hai smesso di vivere per ciò che è successo. Vuoi vivere sempre così?
Il tuo capo ti fa mobbing e ti usa: perdona, lascia andare, non si può lottare contro i muri o l'impossibile. Accetta la realtà, cambia lavoro e continua per la tua strada.
Il tuo collega di lavoro ti ha sottratto dei soldi: perdona! Fai giustizia (perdonare non è lasciar perdere, ma lasciar andare!) ma poi lascia andare. Se non perdoni rimani ancorato tutti i giorni a quella ferita e tutti i giorni ti risenti tradito.
Non perdonare è trattenere: allora la vita non scorre più. Avete presente una diga: trattiene l'acqua. Così se noi tratteniamo le emozioni, la rabbia e l'odio, la vitalità non può più scorrere dentro di noi. Diventiamo aridi, secchi e avvelenati. E' per questo che molta gente è infuriata, arrabbiata, nervosa: perché non perdona, trattiene tutto.
Gesù diceva agli apostoli: "Se entrate in una città e non vi accolgono, vi rifiutano, vi giudicano, non fatene una questione personale. Scuotete la polvere dei vostri sandali e andatevene tranquillamente" (Lc 10,11). Cosa vuol dire? Vuol dire: "Perdona!". Non farne una questione personale: ti hanno rifiutato, ti hanno detto di no, esprimi il tuo dolore, la tua rabbia ma lascia quel dolore lì, non portartelo dietro. Lascia andare.
La quarta regola: l'amore nasce dalla vulnerabilità, dall'incontro con le nostre ferite.
La prima volta che Gesù appare non c'è Tommaso (20,24). Tommaso, in greco Didimo=gemello: c'è una parte di noi che crede come gli apostoli e una parte di noi che non crede, Tommaso; in ciascuno di noi ci sono le due persone. Tommaso non crede e per credere dovrà toccare le ferite (20,27): mani e costato.
Cosa vuol dire Gv? Che per incontrarlo bisogna incontrare le nostre ferite.
Cosa fa la gente? Ha paura: cerca di non sentirla. Ha dei bisogni: cerca di non ascoltarli. Ha subito un trauma: meglio lasciarlo lì. C'è qualcosa da affrontare: meglio non farlo perché poi succedono dei "casini".
Ma Gv dice: "Bisogna toccare le ferite, bisogna mettere il dito sulla piaga, perché finché una ferita è viva sanguina, ci fa urlare e ci impedisce di vivere e di amare".
Le ferite ci fanno vulnerabili (vulnus, infatti vuol dire ferita). Nessuno di noi vuole scoprirsi, nessuno di noi accetta di essere stato e di essere ferito, finché non scopriamo un amore più grande.
C'è un uomo la cui moglie e i figli se ne sono andati di casa. E' disperato. Quando lui pensa a sé dice: "Per me ormai la vita è finita", ma ha solo cinquant'anni. Venire a fare la comunione è la forza che lo spinge ad andare avanti, a non uccidersi.
C'è una donna il cui padre sta morendo. E' una grande ferita, è un dolore forte. Fa male? Eccome! Eppure entrare nelle nostre ferite ci guarisce, ci fa più vulnerabili e più nel cuore della vita.
Io vengo in chiesa con il mio cuore ferito: chi di noi non ha ferite nell'amore? Chi di noi non ha ferito? Io vengo in chiesa con le mie mani ferite: le mie mani sono state legate e paralizzate; le mie mani hanno colpito, umiliato e ferito.
Allora io vengo qui e vado a prendere Gesù (la comunione) perché venga nella mia mano e la guarisca. E poi lo mangio perché vada fino al mio cuore e lo guarisca e lo risani. Per tante persone la comunione è proprio questo incontro che dà la forza di guardare a ciò che fa male, a ciò che non va, a ciò che non ci piace, che metteremo in un angolo, che non vorremmo vedere.
L'eucarestia, come per Tommaso, ti dice: "Dai un nome a ciò che ti fa male; mettici mano; tira fuori; tocca, esprimi e incontra il tuo dolore; prenditi cura della tua sofferenza; apriti in ciò che ti fa male". L'eucarestia mi dà la forza per toccare le mie ferite, per metterci mano, per guardarle. In questo senso l'eucarestia è terapeutica, risanatrice, curativa, lenitiva, trasformativa.
Gv vuol dire che l'eucarestia dev'essere così: un incontro che ci salva e che ci guarisce. Ci sono tante allusioni all'eucarestia.
Il giorno "il primo dopo il sabato" (20,19), la domenica, è il giorno del Signore, dell'eucarestia.
"Pace a voi" (20,19.26), è il saluto di Gesù e il saluto delle prime comunità cristiane che si ritrovavano.
Il toccare (20,27) è il segno del toccare/ricevere il corpo di Cristo di ogni domenica.
"Mio Signore e mio Dio" (20,28) è ciò che deve succedere in ogni eucarestia: un'esperienza, un incontro vivo.
Tommaso non rappresenta colui che dubita ma colui che deve far esperienza per poter credere. Ma vale per tutti noi: non si può credere in qualcosa che non si è conosciuto, sentito, visto, toccato, percepito. "Beati quelli che pur non avendo visto crederanno" (20,29): esperienza, dalla morte di Gesù, non sarà più vederlo fisicamente ma vederlo e sentirlo interiormente (eucarestia, ad esempio, ma non solo). L'eucarestia, dice Gv, dev'essere così: in ogni messa noi dobbiamo far esperienza del Risorto, toccarlo, sentirlo, in modo da poter dire anche noi: "Mio Signore e mio Dio".
Allora attenzione: non confondere il fine con i mezzi.
I mezzi, il canto, le letture, la celebrazione, le parole, il rito, la liturgia, mi serve per arrivare ad incontrarlo (fine). Ma se la messa non è un'esperienza, se non esco dalla messa con la sensazione chiara, netta, definita, di averlo sentito vivo in me e in quella comunità, bisogna porsi delle domande. Perché l'eucarestia è rendere vivo un Vivo non un morto. L'eucarestia non è un ricordo ma l'esperienza del Risorto oggi. L'eucarestia è un'esperienza sanante, guaritrice, un incontro con Colui che è la Vita e che mi fa vivere. E se un incontro c'è, si vede, si sente, ti cambia. Altrimenti non c'è incontro, ovvio.
Bisogna aver il coraggio di farsi anche le domande dure per non raccontarsela: le nostre eucarestie sono esperienze di vita, del Signore Risorto? Chi esce, ne esce trasformato? Parlano al cuore, lo fanno vivere, vibrare?
E quando io vado all'eucarestia cosa cerco? Un'esperienza, la Vita o un anestetico, un calmante? Posso dire dopo un'eucarestia: "Sì, io l'ho visto, l'ho taccato, l'ho incontrato e Lui ha parlato al mio cuore?".
Il vangelo chiude con una frase meravigliosa: tutto questo è scritto perché crediate che Gesù è il Cristo cioè che abbiate la vita (20,30-31). Tutto ciò che avviene in chiesa, durante un'eucarestia, accresce la mia vita? Mi fa vivere di più? Lui è la Vita, incontrarlo è vivere di più.
Pensiero della Settimana
Un giorno una penna fu comprata da un uomo. Quando veniva usata dall'uomo per scrivere si sentiva così bene: era proprio quello che voleva e che desiderava, scrivere (per forza, era una penna!). La penna adorava quell'uomo: ogni volta che lui scriveva con la sua penna, lei si sentiva così bene e così felice. Poi un giorno l'uomo morì. E la penna si disperò: "E adesso? E' finita la mia vita! Come farò senza di lui?". Il figlio dell'uomo trovò la penna, se la prese e iniziò a sua volta a scrivere. E di nuovo la penna si sentì viva e di nuovo si attaccò al nuovo uomo. Quando morì anche il figlio, di nuovo, cadde nella disperazione perché pensava che la sua vita non avrebbe più avuto senso senza l'uomo che la faceva scrivere.
Ma... un giorno fece una scoperta incredibile: poteva scrivere anche senza gli uomini! Non erano gli uomini che la rendevano penna. Era lei che era una penna. E ancor oggi, passando di mano in mano (e a volte facendolo da sola) quella penna continua a scrivere.
Passano le mani ma lei continua scrivere... ed è così felice.

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