FIGLIE DELLA CHIESA, LECTIO DIVINA "La passione del Signore"
Domenica delle Palme e della Passione del Signore
Commemorazione dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme
La passione del Signore (Lc 22,14-23,56)
Introduzione
Questa Domenica di grande solennità, si pone al confine sia del tempo di Quaresima,
essendone il termine, sia della Settimana Santa, poiché la inaugura. Volendo distinguere, potremmo dire che la Commemorazione dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, che apre la liturgia odierna per mezzo della benedizione e della processione con i rami d’ulivo e le palme, segna la fine della Quaresima, mentre la liturgia della Parola soprattutto con la lettura della Passione di Gesù Cristo, quest’anno secondo il vangelo di Luca, apre il tempo della preparazione immediata alla Pasqua di morte e risurrezione del Signore.
Il brano evangelico di Lc 19,28-40 che ascoltiamo nella liturgia e che precede la processione delle palme, ci presenta Gesù mentre entra a Gerusalemme attorniato da una folla festosa di discepoli e di pellegrini, uomini e donne giunti a Gerusalemme per la Pasqua.
L’ovazione che accompagna Gesù in questo solenne ingresso nella città santa, alimentata sia dalle crescenti aspettative che il popolo d’Israele aveva nei confronti del Messia, secondo le parole dei profeti, sia dalle parole e dai prodigiosi segni compiuti da Gesù lungo il suo cammino, aveva accresciuto lo sdegno del sinedrio, già da tempo in ricerca spasmodica di un capo di accusa per mettere a morte Gesù.
Come sempre, nelle cose di Dio, se abbiamo potuto distinguere i due momenti della vita di Gesù in gloria e in passione, possiamo senz’altro vedere l’unità misteriosamente presente in questa solenne celebrazione. Lo facciamo sia attraverso le parole della folla che ha seguito Gesù festante verso la città santa, acclamandolo: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!», e sia, qualche giorno più tardi, attraverso l’urlo ostile e deciso della stessa folla che lo rifiuterà: “Crocifiggilo! Crocifiggilo!” (Lc 23,21). La benedizione come Re e l’accusa come reo si fondono formando un unico evento, del quale Gesù è pienamente consapevole, perché egli pesa veramente le parole… perché conosce il cuore dell’uomo e la sua volubilità, dunque non si gloria della popolarità che riscontra, ma vive questa esperienza di “successo pubblico” come il compimento delle parole della Scrittura… come possibilità di glorificare Dio attraverso la sua adesione alla volontà del Padre. Questo è per noi l’insegnamento da seguire: le due dimensioni della gloria e della passione, anche se apparentemente opposte, rivelano la verità piena: la gloria di Dio si manifesta nella passione di Gesù Crocifisso. L’immagine del corpo del Risorto nel quale splendono le ferite che hanno segnato la carne di Gesù, sono un’eloquente “parola” su questo argomento, che possiamo comprendere attraverso la nostra esperienza, in cui il mistero di gioia-dolore è una realtà vitale spesso inscindibile, dove la gioia è sempre mista al dolore, il dolore è sempre intriso di gioia.
Prepariamoci dunque, a vivere con Gesù questa verità unitaria che è profondamente nostra, per imparare a sperimentare la profondità degli eventi nei quali siamo immersi quotidianamente, fatti di lice e tenebre, di bene e di male.
Andiamo a Gerusalemme con Gesù acclamandolo Re, tra la folla festante, ma accettiamo anche di essere tra quelli che urlano un giudizio iniquo e menzognero, sempre pronti a puntare il dito, a volgere le parole e le spalle per nascondere la verità a se stessi e agli altri. Andiamo a Gerusalemme sapendo che il Re sederà su un trono alto, e, innalzato da terra, attirerà gli sguardi di tutti verso l’amore di Dio che si fa dolore per noi.
Lectio
[28] In quel tempo Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme.
Gesù prosegue il suo cammino davanti a tutti, deciso, lasciando trasparire ancora quella risolutezza con la quale ha iniziato il suo viaggio verso Gerusalemme in Lc 9,51: “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme”, indurendo il volto, come dice Is 50,7: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso”. È lui che ci precede sulla via della croce.
Poiché Gesù sale a Gerusalemme, come faceva dall’infanzia con la sua famiglia, in occasione della festa di Pasqua, facciamo un piccolo viaggio nelle feste ebraiche, per notare quanto l’aspetto del pellegrinaggio sia connaturale al popolo d’Israele.
Excursus: le feste ebraiche
Le principali feste d’Israele erano legate ai momenti forti del calendario agricolo-pastorale: si offrivano a Dio i primi frutti della terra e delle greggi, con la Pasqua; la mietitura con la Pentecoste o la festa delle Settimane; la vendemmia e gli ultimi frutti, con la festa delle Capanne. In origine si celebravano in diversi santuari, poi divennero “le feste del pellegrinaggio” perché si celebravano solo in Gerusalemme.
L’obbligo di salire a Gerusalemme per queste tre Feste riguardava solo gli uomini adulti, in grado di camminare, residenti entro un giorno di cammino da Gerusalemme; per gli ebrei residenti più lontano era sufficiente un pellegrinaggio all’anno, mentre per chi risiedeva fuori della Palestina era prescritto un pellegrinaggio in vita. Poiché Nazareth distava da Gerusalemme una settimana di cammino, la famiglia di Gesù saliva a Gerusalemme per la Pasqua (Lc 2,41-46).
Per comprendere l’enorme affluenza di pellegrini a Gerusalemme in occasione della Pasqua, basta pensare che la Città santa raggiungeva i 150.000 abitanti, contro i 40.000 residenti. Per evitare sommosse o disordini, il procuratore romano si trasferiva a Gerusalemme, concentrando un alto numero di soldati romani. Di norma i pellegrini si riunivano in gruppi numerosi, sostenendo il cammino con il canto dei salmi.
Diamo uno sguardo alle singole feste.
– LA PASQUA E I GIORNI DEGLI AZZIMI (dall’ebraico pesach) era la festa di primavera che si celebrava dopo il plenilunio del primo mese, quello di Nisan, in cui Israele uscì dall’Egitto, come memoria della liberazione dalla schiavitù che Dio operò per mezzo di Mosè. Pasqua significava sia il “passaggio di Dio” che aveva liberato Israele, sia il “passaggio di Israele” dalla schiavitù alla libertà attraverso il mare, che travolse l’esercito del faraone.
Ogni famiglia sacrificava un agnello per ricordare la notte dell’esodo, quando Dio “passò oltre” le case degli israeliti, segnate col sangue dell’agnello, e l'”angelo della morte” risparmiò la vita dei primogeniti ebrei, facendo morire i primogeniti egiziani. Durante la cena pasquale e per tutta la settimana seguente si mangiava pane azzimo, cioè non lievitato, impastato in fretta come durante la fuga dall’Egitto. L’ultimo giorno degli azzimi si offrivano al Signore le prime spighe di orzo della nuova mietitura. Azzimi e primizie evidenziano l’origine agricola della Pasqua ebraica, mentre il sacrificio dell’agnello pasquale ne richiama l’origine pastorale, come offerta dei nuovi parti del gregge e auspicio alla partenza verso i nuovi pascoli. Con ogni probabilità le due feste, quella della Pasqua e quella degli azzimi, in origine erano distinte; poi si unirono assumendo il carattere di memoriale della liberazione d’Israele.
Gesù celebrò ripetutamente la Pasqua: la prima volta purificò il tempio dai mercanti presentando se stesso come vero tempio (Gv 2,13-22); nella seconda moltiplicò i pani in Galilea, presentando se stesso come vero cibo (Gv 6,1-71); nella terza salendo a Gerusalemme, fu condannato a morire sulla croce, presentando se stesso come vero agnello pasquale (Gv 19,31).
– LA PENTECOSTE o LA FESTA DELLE SETTIMANE. Sette settimane dopo la Pasqua si celebrava la festa del ringraziamento, detta Pentecoste (50° giorno), a conclusione della mietitura del grano: il sacerdote offriva due pani di farina nuova, insieme a sacrifici di animali.
Era anche la festa dell’alleanza perché ricordava il dono della legge di Dio sul Sinai. A Gerusalemme probabilmente per la Pentecoste, Gesù guarì il paralitico alla piscina (Gv 5,1-46).
– LA FESTA DELLE CAPANNE o delle Tende, o dei Tabernacoli, era la festa più popolare e allegra, celebrata in autunno al termine dei raccolti e della vendemmia. Per una settimana si viveva all’aperto, nei giardini o sui terrazzi, in improvvisate capanne di frasche, per ricordare il tempo in cui Israele aveva pellegrinato sotto le tende, nel deserto. Ogni mattina i sacerdoti attingevano acqua alla piscina di Sìloe e la versavano sull’altare degli olocausti per invocare il dono delle piogge. La sera si accendevano quattro grandi candelabri, visibili da tutta Gerusalemme, in ricordo della “colonna di fuoco” con cui Dio illuminava il cammino del popolo nel deserto, e come espressione di attesa vigilante del Messia che doveva venire.
Gesù salì a Gerusalemme per la festa delle Capanne, ponendo se stesso al centro della festa: “Chi ha sete venga a me e beva” (Gv 7,37-38), e donò la luce al cieco nato (Gv 9,1-41).
C’erano anche delle feste religiose senza obbligo di pellegrinaggio.
– LA FESTA DELLA DEDICAZIONE o delle Luci, commemorava la purificazione e la dedicazione del secondo tempio fatta da Giuda Maccabéo nel 164 a C., dopo la profanazione del re Antìoco IV Epìfane, che vi aveva eretto una statua a Giove. Si celebrava d’inverno. Si accendeva un gran fuoco e si illuminavano con lampade case e sinagòghe.
Gesù salì a Gerusalemme per la Dedicazione (Gv 10,22) e si presentò come Messia buon pastore donando la vita a Lazzaro morto (Gv 11,1-44).
– IL GIORNO DELL’ESPIAZIONE (Yom Kippùr). Il decimo giorno del settimo mese la comunità d’Israele confessava i propri peccati e chiedeva a Dio il perdono e la purificazione.
Il sommo sacerdote offriva prima un sacrificio per i propri peccati e per quelli dei sacerdoti, poi un secondo sacrificio per i peccati del popolo. Solo in quel giorno il sommo sacerdote entrava nel Santo dei Santi (Lc 1,8-9), cioè nella cella più sacra del tempio, per aspergervi parte del sangue offerto in sacrificio: quindi stendeva le mani sul “capro espiatorio”, e lo cacciava a perdersi nel deserto, come segno che i peccati erano stati cancellati.
– LA FESTA DI PURIM o delle sorti, era una celebrazione quasi carnevalesca, che ricordava come la regina Ester e suo cugino Mardochéo salvarono il popolo ebraico dal massacro al tempo del re persiano Serse (Assuéro).
– LA FESTA DELLE TROMBE o Capodanno. L’inizio di ogni mese e di ogni festa veniva segnalato dal suono delle trombe. Però l’inizio del settimo mese (Tisri) con le trombe si annunciava una speciale festa “d’acclamazione”, che dopo l’esilio era considerata festa di Capodanno (Rosh Hashanah), anche se i mesi si contavano partendo da Nisan.
La processione delle Palme a Gerusalemme, come avveniva nel primo cristianesimo, è descritta nel Diario di Viaggio di una pellegrina di nome Egeria, risalente agli anni 381-84. Egeria ci riporta la tradizione della festa dell’ingresso di Gesù nella città santa così come veniva celebrata nella chiesa di Gerusalemme, dove i fedeli si radunavano nella cosiddetta chiesa dell’Eleona, sul monte degli Ulivi, dove si trovava la grotta in cui insegnava il Signore, e proseguiva sino al Calvario, guidato dal vescovo in groppa a un’asinella.
[29]Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi…
Geograficamente siamo ad est di Gerusalemme, dove si trova il monte Uliveto, alto più o meno 800 mt. Per raggiungere Gerusalemme da Bètfage e Bètania, ultimi villaggi nella zona del monte, è necessario prima scendere e poi salire. Questo movimento compiuto da Gesù per entrare a Gerusalemme è la sintesi della sua esistenza di Figlio di Dio, disceso nella carne, per essere innalzato sulla croce, carne trafitta, per poi risalire alla destra del Padre, carne gloriosa.
Come la strada per Gerusalemme, così anche la nostra strada alla sequela di Gesù è una scuola di vita, bisogna scendere prima di salire: discendere, per accogliere la nostra e l’altrui debolezza, per poi affrontare la risalita, sapendo che la fatica che ciò comporta, non possiamo sopportarla da soli. L’immagine della cordata rende l’idea. Una processione di uomini e donne che uniti gli uni gli altri affrontano il cammino sapendo che in testa c’è un uomo deciso e sicuro, colui che conduce alla mèta, alla città eterna. È il cammino della Chiesa.
… inviò due discepoli dicendo: [30]«Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è mai salito; scioglietelo e portatelo qui. [31]E se qualcuno vi chiederà: Perché lo sciogliete?, direte così: Il Signore ne ha bisogno». [32]Gli inviati andarono e trovarono tutto come aveva detto. [33]Mentre scioglievano il puledro, i proprietari dissero loro: «Perché sciogliete il puledro?». [34]Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno».
Così come abbiamo ritrovato l’atteggiamento deciso di Gesù nell’affrontare la parte finale del suo viaggio verso Gerusalemme in Lc 9,51, così troviamo un altro elemento comune con il nostro brano, nel versetto 52: Gesù “mandò avanti dei messaggeri. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per fare i preparativi per lui”. I due discepoli erano Giacomo e Giovanni. Ancora, per i preparativi della Pasqua leggiamo in Lc 22,8-12, Gesù “mandò Pietro e Giovanni dicendo: “Andate a preparare per noi la Pasqua, perché possiamo mangiare”. Gli chiesero: “Dove vuoi che la prepariamo?”. Ed egli rispose: “Appena entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua. Seguitelo nella casa dove entrerà e direte al padrone di casa: Il Maestro ti dice: Dov’è la stanza in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà una sala al piano superiore, grande e addobbata; là preparate“. Le assonanze sono molto evidenti e ci dicono uno stile di invio del Signore, che manda i suoi discepoli “avanti” per preparare e per collaborare alla sua missione, senza mandarli allo sbaraglio; infatti li informa di ciò che avverrà con autorità e rendendoli sicuri di non essere abbandonati dal Maestro.
Circa il puledro da slegare, di sottofondo, senza menzione esplicita, come invece accade nella versione matteana, risuonano alle nostre orecchie le parole del profeta Zaccaria (Zc 9,9-10): “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina. Farà sparire il carro da guerra da Èfraim e il cavallo da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle nazioni, il suo dominio sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra”. Il riferimento alle parole del profeta, indica la corrispondenza tra il Messia atteso dal popolo e la persona di Gesù: il re che Israele stava aspettando era un re giusto e vittorioso, ma soprattutto umile e portatore di pace.
La scelta del puledro come cavalcatura per l’ingresso a Gerusalemme, dunque non è un dettaglio, ma esprime ciò che Gesù è ed è stato fino a quel momento: mite e umile di cuore, lento all’ira e ricco di misericordia. Infatti mentre i guerrieri montavano i cavalli per giungere alla vittoria, le persone povere e pacifiche cavalcavano gli asini. La storiografia ci insegna che la cavalcatura tipica del re era il cavallo, anzi proprio dal numero dei cavalli che un re possedeva si misurava la sua ricchezza e la sua potenza, poiché era l’animale usato per fare la guerra, mentre l’asino era usato in tempo di pace. Questo è già di per sé molto significativo riguardo alle intenzioni di Gesù: egli non giunge a Gerusalemme come capo militare, circondato da un esercito a cavallo, ma seduto sopra un asino e circondato da una folla festante a piedi. Non si tratta di una parata militare, ma di una processione rituale. Tra l’altro Dio aveva espressamente proibito la moltiplicazione dei cavalli nel paese d’Israele (Dt 17,16).
Anche la scelta del puledro sul quale non è mai salito nessuno, non è casuale, ma ha dei riferimenti nell’AT: come gli animali che venivano usati per il sacrificio non potevano essere usati per lavori comuni, perché erano già destinati a Dio, così anche la cavalcatura di Gesù, re e Messia, doveva essere un puledro sul quale nessuno era mai salito.
Il Signore ha bisogno di un puledro, di un asino, per il suo ingresso a Gerusalemme come Messia. Ancora una volta, il Signore ha bisogno di ciò che conta meno. Possiamo dire che in quel puledro e in ciò che esso rappresenta c’è spazio per tutti: per chi si sente incapace e inadeguato a portare il Signore agli altri, e per chi viene giudicato inadatto a portare Gesù, a causa della vita passata o del proprio carattere.
Il Signore ha bisogno di noi, così come siamo, lenti e cocciuti, ma disposti a portarlo, perché Lui cavalca assecondando il nostro ritmo. Anche oggi Gesù sceglie non cavalli forti e vigorosi, ma asini miti e silenziosi per arrivare al cuore degli uomini. Così verrà a noi, non nel clamore, non nel vento gagliardo, non nel suono di tromba, non su un cocchio dorato: verrà nella brezza lieve, nel silenzioso profumo dell’aria di primavera, nel lento e ritmato incedere, nel suono delle foglie mosse dal vento. Così verrà e così noi dovremmo portarlo.
Per approfondire la figura dell’asino nella cultura biblica, facciamo insieme un piccolo excursus.
Excursus: l’asino nella Bibbia
Nell’AT l’asino è la cavalcatura dei profeti e dello stesso Messia. Nel libro del Giudici è presentato come cavalcatura dei potenti: infatti in Gdc 5,9-10 la profetessa Deborah, canta «Benedite il Signore! Voi che montate asine bianche e splendenti».
Nel libro dei Numeri, ai capitoli 22-24, si racconta la storia dell’asino o asina di Balaam, mago madianita che si recava per conto del re di Moab contro l’esercito degli Ebrei per maledirlo. L’asino che cavalcava, percepita la presenza dell’angelo armato di spada che il Signore aveva inviato per fermarlo, deviò per i campi, nonostante le bastonature di Balaam per riportarlo sulla via, e gli parlò, dicendogli che aveva le sue buone ragioni per non obbedirlo come sempre. Proprio in quel momento anche il suo padrone vide l’angelo e rese grazie, benedicendo. Qui l’asino assume una figura sapienziale, perché riconosce la volontà di Dio prima dell’uomo, ruolo sottolineato dal dono temporaneo della parola fattogli dal Signore.
In 1Samuele 9-10 Saul, alla ricerca delle asine smarrite di suo padre Kis, si rivolge a Samuele perché come veggente gli indichi dove fossero e il profeta, rassicurandolo che le asine erano state trovate, lo unge re d’Israele; in Giobbe, 39, 5-6 è esaltato lo spirito di libertà dell’ònagro, l’asino selvatico, che alla greppia con ricca pastura preferisce le terre salmastre e inospitali.
In Zaccaria, 9,9 l’asino è legato alla profezia della venuta del Messia: «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio di asina». La figura dell’asino si ricollega da un lato alla cavalcatura dei re e degli immortali, propria delle culture dell’estremo Oriente, mentre d’altro lato è presentato come cavalcatura modesta, il cui impiego da parte del Messia è segno d’umiltà.
Nel NT la figura dell’asino è largamente presente sia nei libri canonici che negli apocrifi: è presente nell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme la Domenica delle Palme. Nell’opera Opuscules et sermons di Riccardo da San Vittore, commentando questo episodio secondo il Vangelo di Matteo che vede condurre a Gesù sia un’asina che il suo puledro, l’asina rappresenta l’umiltà e l’asinello l’umiliazione, e per questo sarebbero stati scelti da Gesù. Secondo l’apocrifo Atti di Tommaso, l’asino che portò Gesù, sarebbe stato un discendente dell’asino di Balaam. Esiste una pia tradizione di origine medievale, che attribuisce il segno cruciforme che segna la schiena dell’asino come premio ricevuto per avere portato in groppa il Signore. Rispetto allo stesso episodio, i Padri della Chiesa forniscono anche un’interpretazione negativa della figura dell’asino come simbolo delle forze del male, sostenendo che è stato dominato dal Cristo, quando è stato cavalcato.
Anche se non esplicitamente menzionato nei Vangeli, l’asino, come mezzo di trasporto usuale, è da ritenersi presente negli episodi evangelici della visita di Maria a Elisabetta, nel viaggio a Betlemme di Giuseppe e Maria (esplicito nell’apocrifo Protovangelo di Giacomo), nella fuga in Egitto (esplicito nell’apocrifo Pseudo Matteo). A corroborare questa presenza, ci pensano le molte raffigurazioni pittoriche di questi episodi evangelici.
Nell’episodio della Natività, la presenza dell’asino insieme al bue accanto alla mangiatoia, è presente soltanto nello Pseudo Matteo, considerandoli parte integrante del quadro di umiltà nel quale ha voluto nascere il Salvatore.
La prospettiva offertaci dai Padri della Chiesa, invece è più ampia: essi infatti vedono in questi animali il simbolo della presenza di tutti i popoli davanti al Re, dove il bue rappresenta il Popolo Eletto in quanto animale “puro” che ha l’unghia bifida e rumina, mentre l’asino rappresenta i pagani in quanto animale impuro, che ha l’unghia compatta e non rumina.
Nella Bibbia troviamo un episodio simile a quello dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme. È quello che si riferisce alla tormentata intronizzazione di Salomone quale successore di Davide sul trono di Israele. Leggiamo nel libro dei Re: “Il re Davide fece chiamare il sacerdote Zadòk, il profeta Natan e Benaià figlio di Ioiadà. Costoro si presentarono al re, che disse loro: “Prendete con voi la guardia del vostro signore: fate montare Salomone sulla mia mula e fatelo scendere a Ghicon. Ivi il sacerdote Zadòk e il profeta Natan lo ungano re d’Israele (1Re 1,32-34). Gesù, quale discendente di Davide, viene introdotto su un puledro figlio d’asina, ad occupare il posto di Re che gli era stato preparato. Gesù in groppa al puledro guarda Gerusalemme: Giovanni Crisostomo dice che “qui il puledro raffigura la Chiesa e il popolo nuovo che fin a quel momento era impuro e che diviene puro, quando Gesù si siede su di esso”. E continua osservando: “Notate qui come si mantiene il rapporto tra l’immagine e la realtà. Gli apostoli che sciolgono gli animali: sono infatti gli apostoli che hanno chiamato sia gli ebrei sia noi alla fede; e per mezzo loro siamo stati condotti a Cristo”
[35]Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. [36]Via via che egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada.
I discepoli, trovato il puledro, lo slegano e lo portano a Gesù, davanti al quale lo “sellano” dei loro mantelli, mentre altri li stendono lungo la strada a mò di tappezzeria. fuori dal paese. Sono gesti di accoglienza che dimostrano rispetto, gesti che si fanno quando arriva un re.
Possiamo leggere cosa accadde dopo l’unzione di Ieu come re d’Israele in 2 Re 9,13. Infatti quando c’era l’intronizzazione regale, il popolo, in segno di sottomissione, metteva il proprio mantello, immagine della propria vita, lungo il percorso del nuovo re.
In questo modo possiamo capire che con questo gesto, i discepoli accolgono, accettano quest’immagine di Messia non violento, di Messia portatore di pace, colui che avrebbe realizzato la profezia di Zaccaria, e in segno di adesione, mettono il proprio mantello, cioè la propria esistenza, nelle mani di Gesù, disposti a seguire un Messia di pace.
[37]Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, esultando, cominciò a lodare Dio a gran voce, per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo:
[38]«Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!».
Siamo vicini alla vista splendida di Gerusalemme dalla discesa del monte Uliveto. Da qui tutti iniziano ad acclamare, e ai gesti di sottomissione seguono le parole osannanti che annunciano l’avvento della pace: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!».
Queste parole ci ricordano le parole degli angeli alla nascita di Gesù, così come viene narrata da Luca al capitolo 2, dove la venuta di Gesù è portatrice di una pace che conquisterà a prezzo del suo sangue: Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti (Eb 2, 9).
Noi siamo chiamati ad essere questo segno nel mondo, ad essere persone rappacificate anche se soffrono o hanno sofferto, anche se devono lottare o subire l’ingiustizia.
[39]Alcuni farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli». [40]Ma egli rispose: «Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre».
Ai farisei che gli chiedevano di far tacere la folla, Gesù rispose: “Se questi taceranno, grideranno le pietre” (Lc 19,40). Egli si riferiva, in particolare, alle mura del tempio di Gerusalemme, costruito in vista della venuta del Messia e ricostruito con grande cura dopo essere stato distrutto al momento della deportazione babilonese. La memoria della distruzione e della ricostruzione del tempio era rimasta viva nella coscienza d’Israele e Gesù faceva riferimento a tale consapevolezza, affermando: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2,19). Come l’antico tempio di Gerusalemme fu distrutto e ricostruito, così il nuovo e perfetto tempio del corpo di Gesù doveva morire sulla Croce e risorgere il terzo giorno.
Questa pericope è riportata solo da Luca ed è una espressione proverbiale usata dai Greci e dai Romani, e anche dagli Ebrei. La troviamo già in uso ai tempi del profeta Abacuc 2:11. La testimonianza resa in quel giorno era stata predetta dai profeti, perché era necessario che l’attenzione di tutti quelli che si trovavano allora in Gerusalemme fosse attirata su di lui.
Gesù che fin dall’inizio del suo ministero aveva cercato l’anonimato e la solitudine nel deserto e sui monti per evitare la notorietà, non si tira indietro nell’ora del clamore, considerandola come una parte necessaria al disegno di Dio, perché il Messia saliva per l’ultima volta in Gerusalemme… ne sarebbe sceso presto, salendo, tra urla dissacranti, sul legno della Croce, il pinnacolo più alto dal quale ogni uomo vedrà la sua salvezza.
Appendice
Cari fratelli, il tempo liturgico che stiamo vivendo chiede un impegno maggiore da noi: ci vuole più ferventi, più disponibili, più solleciti nel recarci all’incontro con il re venuto dal cielo. Questo stesso gioioso messaggio annunziava san paolo quando diceva: Il Signore è vicino, non angustiatevi per nulla.
Accogliamo il nostro Dio con acclamazioni degne di lui. Gridiamo con la folla: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele! Colui che viene: l’espressione è giusta, perché il Signore non smette di venire, pur senza mai essere assente. Il Signore è vicino a quanti lo invocano. Perciò, benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!
Tutto quello che accade in questo giorno ha valore di simbolo. Tutte queste manifestazioni indicano in figura che avanza un re. Gli abitanti delle città di questo mondo, quando aspettano l’arrivo del loro governatore, spianano la strada, sospendono corone ai portici; l’aspetto della città cambia, il palazzo reale è ripulito da cima a fondo. In vari punti si organizzano cori che cantino le lodi del re. Da questi segni si riconosce che in un dato paese si avvicina un grande della terra. Applichiamoci anche noi a un lavoro analogo, anzi a un’impresa ben più gloriosa: le celebrazioni della nostra città spirituale devono essere all’altezza della trascendenza del suo re celeste.
Il re umile e mansueto è alle porte. Nei cieli egli cavalca sui cherubini, quaggiù è seduto su un puledro di asina. Prepariamo la dimora della nostra anima. Togliamo le ragnatele, cioè ogni rancore contro i fratelli. Non si trovi in noi la polvere delle critiche, ma laviamo abbondantemente tutto con l’acqua dell’amore. Livelliamo le gobbe dell’inimicizia, inghirlandiamo i portici delle nostre labbra con i fiori della bontà. Uniamoci alle acclamazioni della folla: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele! Chi vorrebbe tacere? Chi non ammirerà questa folla, avversa ai Giudei e amica dei discepoli di Cristo? Acclamano il Signore come re, lui che non porta nessuna visibile insegna di una dignità regale: non cocchio laminato d’oro, non bianchi cavalli bardati; nessuna traccia della pompa che i re di questo mondo sogliono sfoggiare nei loro cortei. Qui non ci sono né armi né scudi né alabarde; neppure mantelli di porpora né prestigiosi scudieri dalle chiome fluenti; tanto meno sfilano dignitari o parate di elefanti.
La folla non contempla nulla di ciò, anzi vede proprio il contrario: un volgare, meschino puledro, senza sella, preso a prestito per l’occasione. Tutto il corteo si riduce agli undici apostoli, perché Giuda già ordisce il tradimento. Le folle vedono questa grande povertà di Gesù, eppure sono come rapite in cielo e con gli occhi dello spirito contemplano le realtà dell’alto. Si uniscono ai cori angelici e si valgono delle voci dei serafini per acclamare come loro: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re di Israele!
È aspro e pungente per i sacerdoti e i farisei udire le folle che acclamano un re di Israele. Eppure, volenti o no, sono costretti a udirlo. Avevano tacciato Gesù di possedere un demonio, ed ecco la folla proclamarlo re. Chi le ha suggerito quel titolo? Chi le ha messo in mente tale lode? Chi ha posto rami di palma nelle loro mani? Chi improvvisamente ha radunato tutta questa gente, guidandola come sotto un unico capo? Chi ha insegnato questo canto unanime?
È una grazia discesa dall’alto, una rivelazione dello Spirito Santo. ecco perché gridano con libera franchezza: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re di Israele. La folla forma il corteo terreno del Signore, gli angeli quello celeste. I mortali sono simili agli immortali, i pellegrini della terra già partecipano ai cori celesti. Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re di Israele. Essi rifuggono i farisei, hanno in orrore i sommi sacerdoti. Cantando una melodia degna dell’Altissimo, rallegrano la creazione, santificano l’aria. I morti trasaliscono, il cielo si apre, rifiorisce il paradiso, gli altri mortali sono stimolati a emulare un simile fervore.
Prendiamo anche noi rami di palma e usciamo incontro al Signore. Diciamo ai prìncipi dei sacerdoti: Non siete voi quelli che domandano se questi è il figlio del carpentiere? Egli è il Dio forte e potente. Correte, affrettatevi; unitevi alla folla e cantate in onore di colui che ha risuscitato Lazzaro: Benedetto colui che viene nel nome del Signore. A lui la gloria nei secoli. Amen (dai Discorsi di san Proclo, Oratio IX, In ramos Palmarum, 1-3.4. PG 65, 772-777
Gesù era venuto spesso a Gerusalemme; mai però vi era entrato in modo così solenne. Quale ne è il motivo? All’inizio del suo ministero egli non era molto conosciuto e a quel tempo neppure era prossima l’ora della sua passione. Gesù si mescolava alla folla senza alcuna distinzione, cercando anzi di passare inosservato. Qualora si fosse manifestato troppo presto, non avrebbe riscosso ammirazione, ma l’ira degli avversari sì sarebbe scatenata ben più violenta. Più tardi, invece, quando la croce è alle porte, dà prova sufficiente del suo potere, dispiega in modo più lampante la sua grandezza e compie con maggiore solennità ogni cosa, anche se ciò inasprirà la parte avversa. Ripeto che egli avrebbe potuto fare ciò sin dall’inizio della sua predicazione, ma non sarebbe stato né utile né vantaggioso.
Non considerare la menzione dell’asina poco importante. Quelli che si lasciarono portare via i loro animali, erano povera gente, forse dei contadini. Chi li persuase a non opporsi? Che dico? Neppure aprirono bocca. Insomma, perché acconsentirono oppure tacendo dettero via l’asina?
Nell’uno e nell’altro caso il comportamento di costoro è ugualmente ammirevole: sia lo starsene zitti quando vengono portate via le loro bestie; sia il non opporre resistenza dopo aver chiesto e avuto la spiegazione dagli apostoli: Il Signore ne ha bisogno. E sono tanto più ammirevoli, perché non vedevano il Signore, ma solo i suoi discepoli.
Questo episodio ci insegna che Gesù avrebbe potuto ridurre al silenzio e atterrare i Giudei che stavano per impadronirsi di lui, ma non volle farlo. Non solo, ma in quella circostanza dà anche un altro insegnamento ai discepoli: essi dovranno senza opporsi fare quanto egli chiederà loro, foss’anche la vita stessa. Se quegli sconosciuti hanno ceduto obbedienti, essi dovranno abbandonare tutto senza recriminazioni.
Allorché Gesù entra in Gerusalemme cavalcando un’asina, ci insegna l’umiltà e la moderazione. Egli non viene solo a compiere le profezie e a seminare la parola di verità, ma anche a istituire un modello di vita che si limiti al necessario e si ispiri ad un comportamento onesto.
Ecco perché, quando nasce, non cerca un magnifico palazzo, e neppure una madre ricca e illustre, ma si contenta dell’umile sposa di un carpentiere; nasce in una grotta e viene deposto in una mangiatoia. Per discepoli non sceglie né retori e dotti, né ricchi e nobili ma povera gente di modesta estrazione, del tutto sconosciuta.
Al momento del pasto, a volte si ciba di pane d’orzo, altre volte di quello che manda i discepoli a comprare in piazza, e l’erba gli serve da tavola. Si veste poveramente, come usa la gente del popolo, e non ha neppure una casa. Quando deve spostarsi da un luogo all’altro, fa i viaggi a piedi, tanto da esserne affaticato.
Gesù non ha nessun trono per sedersi né cuscino per posare il capo. Che sia sulla montagna o presso un pozzo – come quando era solo a parlare con la Samaritana – si mette semplicemente a sedere per terra.
Ci dà l’esempio della misura anche nei nostri dolori e nella nostra tristezza: quando piange, versa poche lagrime, in modo che indica i limiti da non oltrepassare e l’equilibrio, da mantenere.
Ecco un altro esempio di semplicità: prevedendo che molti, deboli fisicamente, non potranno sempre viaggiare a piedi, insegna con il suo esempio la moderazione: non è necessario andare a cavallo, non c’è bisogno di muli aggiogati, ma basta un’asina, e così non si eccede oltre il necessario.
Ma vediamo più da vicino questa profezia che si realizza in parole e in atti. Quale è dunque? Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te, mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma. (Cf Zc 9,9) Gesù non guida carri da guerra, come gli altri re; non impone tributi, non avanza sconvolgente scortato da un corpo di guardia, ma presenta d’ora in poi il modello della mitezza e della moderazione. (Dalle Omelie di san Giovanni Crisostomo In Mt., hom. 66, 1-2. PG 57, 627-628)
Venite, e saliamo insieme sul monte degli Ulivi, e andiamo incontro a Cristo che oggi ritorna da Betània e si avvicina spontaneamente alla venerabile e beata passione, per compiere il mistero della nostra salvezza. Viene dì sua spontanea volontà verso Gerusalemme. E’ disceso dal cielo, per farei salire con sé lassù al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si posso nominare (Ef 1,21). Venne, non per conquistare la gloria, non nello sfarzo e in forma spettacolare. Non contenderà, dice, né griderà, né si udrà la sua voce (Is 12, 2). Sarà mansueto e umile ed entrerà con un vestito dimesso e in condizione di povertà. Corriamo anche noi insieme con colui che si affretta verso la passione e imitiamo coloro che gli andarono incontro. Non però per stendere davanti al suo cammino rami d’olivo o di palme, tappeti o altre cose del genere, ma come per stendere in umile prostrazione e in adorazione profonda dinanzi ai suoi piedi le nostre persone. Accogliamo così il Verbo di Dio che si avanza e riceviamo in noi stessi quel Dio che nessun luogo può contenere.
Egli, che è la mansuetudine stessa, gode di venire a noi mansueto. Sale, per cosi dire, sopra il crepuscolo del nostro orgoglio, o meglio entra nell’ombra della nostra infinita bassezza, si fa nostro intimo, diventa uno di noi per sollevarci e ricondurci a sé. Egli salì verso oriente sopra i cieli dei cieli (cf Sal 67,34), cioè al culmine della gloria e del suo trionfo divino, come principio e anticipazione della nostra condizione futura. Tuttavia non abbandona il genere umano perché lo ama, perché vuole sublimare con sé la natura dell’uomo, innalzandola dalla bassezza della terra verso la gloria. Stendiamo, dunque, umilmente innanzi a Cristo noi stessi, piuttosto che le tuniche o i rami inanimati e le verdi fronde che rallegrano gli occhi solo per poche ore e sono destinate a perdere con la linfa, anche il loro verde. Stendiamo noi stessi rivestiti della sua grazia, o meglio dì lui stesso. poiché quanti siamo stati battezzati in Cristo, ci siamo rivestiti di Cristo (Gal 3,27) e prostriamoci ai suoi piedi come tuniche distese. Per il peccato eravamo rossi come scarlatto; in virtù del lavacro battesimale della salvezza, siamo arrivati al candore della lana per poter offrire al vincitore della morte non più semplici rami di palma, ma trofei di vittoria. Agitando i rami spirituali dell’anima, anche noi ogni giorno, assieme con i fanciulli, acclamiamo santamente: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele. Diciamo anche a noi a Cristo, diciamogli: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il Re d’Israele. Protendiamo verso di lui, a guisa di rami di palma, le ultime parole sulla croce. Seguiamolo in letizia non con i ramoscelli di ulivo, ma con la gioia fraterna che deriva dalla carità prestata a chi ne ha bisogno.
Stendiamo al suo passaggio a mo’ di mantelli i desideri del nostro cuore, perché volgendo i suoi passi verso la nostra dimora, diventi tutto nostro e gradisca l’offerta totale di noi e con noi rimanga. Ripetiamo a Si”on quel messaggio profetico: Abbi fiducia, figlia di Sion, non temere: Ecco, a te viene il tuo re, umile, cavalca su un’asina (Zc 9, 9). Viene colui che è presente in ogni luogo e riempie ogni realtà; viene, dico, per compiere in te la salvezza di tutti. Viene colui il quale non è venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi (cf Lc 5, 32), per richiamarli dalla vie del peccato. Non temere. Vi è Dio in mezzo a te: non potrai vacillare (cf Sal 45, 6) accogli con le braccia aperte lui che nelle sue mani ha segnato la linea delle tue mura. Accogli lui che con le sue mani ha fondato le tue stesse fondamenta. Accogli colui che in sé accolse tutto ciò che è proprio della natura umana, fuorché il peccato. Rallegrati, o città-madre, Sion; non temere. Celebra la tua festa (Na 2, 1). Glorifica per la sua misericordia colui che in te viene a noi.
Ma anche tu, figlia di Gerusalemme, gioisci vivamente. Sciogli il tuo canto, muovi il passo alla danza. Con le parole di Isaia, quel sacro vate, esclamiamo: Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria dei Signore brilla sopra di te (Is 60, 1). Ma quale luce? Quella che illumina ogni uomo (Gv 1, 9) che viene nel mondo. Voglio dire la luce eterna, la luce senza tempo e donata nel tempo: la luce che si è manifestata nella carne mentre per natura è occulta; la luce che avvolse i pastori e ai Magi fu guida nel cammino; la luce che era nel mondo fin dal principio e per la quale è stato fatto il mondo; e tuttavia il mondo non la conobbe; la luce che venne in casa sua, ma i suoi non l’hanno accolta.
La gloria del Signore accogli: quale gloria? Senza dubbio, la croce sulla quale Cristo è stato glorificato; lui, dico, che è lo splendore della gloria paterna come egli stesso ebbe ad asserire nell’imminenza della sua Passione: Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui e lo glorificherà subito (Gv 13, 31-32). Il Signore chiama qui gloria il suo innalzamento sulla croce. La croce di Cristo, infatti, è gloria, ed è la sua esaltazione. Ecco perché egli dice: Io, quando sarò elevato, attirerò tutti a me (Gv 12, 32). (Dai “Discorsi” di sant’Andrea di Creta. Sulle Palme, Disc. 9 sulle Palme; PG 97, 990-994)
FONTE:http://www.figliedellachiesa.org/
Commemorazione dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme
La passione del Signore (Lc 22,14-23,56)
Introduzione
Questa Domenica di grande solennità, si pone al confine sia del tempo di Quaresima,
essendone il termine, sia della Settimana Santa, poiché la inaugura. Volendo distinguere, potremmo dire che la Commemorazione dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, che apre la liturgia odierna per mezzo della benedizione e della processione con i rami d’ulivo e le palme, segna la fine della Quaresima, mentre la liturgia della Parola soprattutto con la lettura della Passione di Gesù Cristo, quest’anno secondo il vangelo di Luca, apre il tempo della preparazione immediata alla Pasqua di morte e risurrezione del Signore.
Il brano evangelico di Lc 19,28-40 che ascoltiamo nella liturgia e che precede la processione delle palme, ci presenta Gesù mentre entra a Gerusalemme attorniato da una folla festosa di discepoli e di pellegrini, uomini e donne giunti a Gerusalemme per la Pasqua.
L’ovazione che accompagna Gesù in questo solenne ingresso nella città santa, alimentata sia dalle crescenti aspettative che il popolo d’Israele aveva nei confronti del Messia, secondo le parole dei profeti, sia dalle parole e dai prodigiosi segni compiuti da Gesù lungo il suo cammino, aveva accresciuto lo sdegno del sinedrio, già da tempo in ricerca spasmodica di un capo di accusa per mettere a morte Gesù.
Come sempre, nelle cose di Dio, se abbiamo potuto distinguere i due momenti della vita di Gesù in gloria e in passione, possiamo senz’altro vedere l’unità misteriosamente presente in questa solenne celebrazione. Lo facciamo sia attraverso le parole della folla che ha seguito Gesù festante verso la città santa, acclamandolo: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!», e sia, qualche giorno più tardi, attraverso l’urlo ostile e deciso della stessa folla che lo rifiuterà: “Crocifiggilo! Crocifiggilo!” (Lc 23,21). La benedizione come Re e l’accusa come reo si fondono formando un unico evento, del quale Gesù è pienamente consapevole, perché egli pesa veramente le parole… perché conosce il cuore dell’uomo e la sua volubilità, dunque non si gloria della popolarità che riscontra, ma vive questa esperienza di “successo pubblico” come il compimento delle parole della Scrittura… come possibilità di glorificare Dio attraverso la sua adesione alla volontà del Padre. Questo è per noi l’insegnamento da seguire: le due dimensioni della gloria e della passione, anche se apparentemente opposte, rivelano la verità piena: la gloria di Dio si manifesta nella passione di Gesù Crocifisso. L’immagine del corpo del Risorto nel quale splendono le ferite che hanno segnato la carne di Gesù, sono un’eloquente “parola” su questo argomento, che possiamo comprendere attraverso la nostra esperienza, in cui il mistero di gioia-dolore è una realtà vitale spesso inscindibile, dove la gioia è sempre mista al dolore, il dolore è sempre intriso di gioia.
Prepariamoci dunque, a vivere con Gesù questa verità unitaria che è profondamente nostra, per imparare a sperimentare la profondità degli eventi nei quali siamo immersi quotidianamente, fatti di lice e tenebre, di bene e di male.
Andiamo a Gerusalemme con Gesù acclamandolo Re, tra la folla festante, ma accettiamo anche di essere tra quelli che urlano un giudizio iniquo e menzognero, sempre pronti a puntare il dito, a volgere le parole e le spalle per nascondere la verità a se stessi e agli altri. Andiamo a Gerusalemme sapendo che il Re sederà su un trono alto, e, innalzato da terra, attirerà gli sguardi di tutti verso l’amore di Dio che si fa dolore per noi.
Lectio
[28] In quel tempo Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme.
Gesù prosegue il suo cammino davanti a tutti, deciso, lasciando trasparire ancora quella risolutezza con la quale ha iniziato il suo viaggio verso Gerusalemme in Lc 9,51: “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme”, indurendo il volto, come dice Is 50,7: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso”. È lui che ci precede sulla via della croce.
Poiché Gesù sale a Gerusalemme, come faceva dall’infanzia con la sua famiglia, in occasione della festa di Pasqua, facciamo un piccolo viaggio nelle feste ebraiche, per notare quanto l’aspetto del pellegrinaggio sia connaturale al popolo d’Israele.
Excursus: le feste ebraiche
Le principali feste d’Israele erano legate ai momenti forti del calendario agricolo-pastorale: si offrivano a Dio i primi frutti della terra e delle greggi, con la Pasqua; la mietitura con la Pentecoste o la festa delle Settimane; la vendemmia e gli ultimi frutti, con la festa delle Capanne. In origine si celebravano in diversi santuari, poi divennero “le feste del pellegrinaggio” perché si celebravano solo in Gerusalemme.
L’obbligo di salire a Gerusalemme per queste tre Feste riguardava solo gli uomini adulti, in grado di camminare, residenti entro un giorno di cammino da Gerusalemme; per gli ebrei residenti più lontano era sufficiente un pellegrinaggio all’anno, mentre per chi risiedeva fuori della Palestina era prescritto un pellegrinaggio in vita. Poiché Nazareth distava da Gerusalemme una settimana di cammino, la famiglia di Gesù saliva a Gerusalemme per la Pasqua (Lc 2,41-46).
Per comprendere l’enorme affluenza di pellegrini a Gerusalemme in occasione della Pasqua, basta pensare che la Città santa raggiungeva i 150.000 abitanti, contro i 40.000 residenti. Per evitare sommosse o disordini, il procuratore romano si trasferiva a Gerusalemme, concentrando un alto numero di soldati romani. Di norma i pellegrini si riunivano in gruppi numerosi, sostenendo il cammino con il canto dei salmi.
Diamo uno sguardo alle singole feste.
– LA PASQUA E I GIORNI DEGLI AZZIMI (dall’ebraico pesach) era la festa di primavera che si celebrava dopo il plenilunio del primo mese, quello di Nisan, in cui Israele uscì dall’Egitto, come memoria della liberazione dalla schiavitù che Dio operò per mezzo di Mosè. Pasqua significava sia il “passaggio di Dio” che aveva liberato Israele, sia il “passaggio di Israele” dalla schiavitù alla libertà attraverso il mare, che travolse l’esercito del faraone.
Ogni famiglia sacrificava un agnello per ricordare la notte dell’esodo, quando Dio “passò oltre” le case degli israeliti, segnate col sangue dell’agnello, e l'”angelo della morte” risparmiò la vita dei primogeniti ebrei, facendo morire i primogeniti egiziani. Durante la cena pasquale e per tutta la settimana seguente si mangiava pane azzimo, cioè non lievitato, impastato in fretta come durante la fuga dall’Egitto. L’ultimo giorno degli azzimi si offrivano al Signore le prime spighe di orzo della nuova mietitura. Azzimi e primizie evidenziano l’origine agricola della Pasqua ebraica, mentre il sacrificio dell’agnello pasquale ne richiama l’origine pastorale, come offerta dei nuovi parti del gregge e auspicio alla partenza verso i nuovi pascoli. Con ogni probabilità le due feste, quella della Pasqua e quella degli azzimi, in origine erano distinte; poi si unirono assumendo il carattere di memoriale della liberazione d’Israele.
Gesù celebrò ripetutamente la Pasqua: la prima volta purificò il tempio dai mercanti presentando se stesso come vero tempio (Gv 2,13-22); nella seconda moltiplicò i pani in Galilea, presentando se stesso come vero cibo (Gv 6,1-71); nella terza salendo a Gerusalemme, fu condannato a morire sulla croce, presentando se stesso come vero agnello pasquale (Gv 19,31).
– LA PENTECOSTE o LA FESTA DELLE SETTIMANE. Sette settimane dopo la Pasqua si celebrava la festa del ringraziamento, detta Pentecoste (50° giorno), a conclusione della mietitura del grano: il sacerdote offriva due pani di farina nuova, insieme a sacrifici di animali.
Era anche la festa dell’alleanza perché ricordava il dono della legge di Dio sul Sinai. A Gerusalemme probabilmente per la Pentecoste, Gesù guarì il paralitico alla piscina (Gv 5,1-46).
– LA FESTA DELLE CAPANNE o delle Tende, o dei Tabernacoli, era la festa più popolare e allegra, celebrata in autunno al termine dei raccolti e della vendemmia. Per una settimana si viveva all’aperto, nei giardini o sui terrazzi, in improvvisate capanne di frasche, per ricordare il tempo in cui Israele aveva pellegrinato sotto le tende, nel deserto. Ogni mattina i sacerdoti attingevano acqua alla piscina di Sìloe e la versavano sull’altare degli olocausti per invocare il dono delle piogge. La sera si accendevano quattro grandi candelabri, visibili da tutta Gerusalemme, in ricordo della “colonna di fuoco” con cui Dio illuminava il cammino del popolo nel deserto, e come espressione di attesa vigilante del Messia che doveva venire.
Gesù salì a Gerusalemme per la festa delle Capanne, ponendo se stesso al centro della festa: “Chi ha sete venga a me e beva” (Gv 7,37-38), e donò la luce al cieco nato (Gv 9,1-41).
C’erano anche delle feste religiose senza obbligo di pellegrinaggio.
– LA FESTA DELLA DEDICAZIONE o delle Luci, commemorava la purificazione e la dedicazione del secondo tempio fatta da Giuda Maccabéo nel 164 a C., dopo la profanazione del re Antìoco IV Epìfane, che vi aveva eretto una statua a Giove. Si celebrava d’inverno. Si accendeva un gran fuoco e si illuminavano con lampade case e sinagòghe.
Gesù salì a Gerusalemme per la Dedicazione (Gv 10,22) e si presentò come Messia buon pastore donando la vita a Lazzaro morto (Gv 11,1-44).
– IL GIORNO DELL’ESPIAZIONE (Yom Kippùr). Il decimo giorno del settimo mese la comunità d’Israele confessava i propri peccati e chiedeva a Dio il perdono e la purificazione.
Il sommo sacerdote offriva prima un sacrificio per i propri peccati e per quelli dei sacerdoti, poi un secondo sacrificio per i peccati del popolo. Solo in quel giorno il sommo sacerdote entrava nel Santo dei Santi (Lc 1,8-9), cioè nella cella più sacra del tempio, per aspergervi parte del sangue offerto in sacrificio: quindi stendeva le mani sul “capro espiatorio”, e lo cacciava a perdersi nel deserto, come segno che i peccati erano stati cancellati.
– LA FESTA DI PURIM o delle sorti, era una celebrazione quasi carnevalesca, che ricordava come la regina Ester e suo cugino Mardochéo salvarono il popolo ebraico dal massacro al tempo del re persiano Serse (Assuéro).
– LA FESTA DELLE TROMBE o Capodanno. L’inizio di ogni mese e di ogni festa veniva segnalato dal suono delle trombe. Però l’inizio del settimo mese (Tisri) con le trombe si annunciava una speciale festa “d’acclamazione”, che dopo l’esilio era considerata festa di Capodanno (Rosh Hashanah), anche se i mesi si contavano partendo da Nisan.
La processione delle Palme a Gerusalemme, come avveniva nel primo cristianesimo, è descritta nel Diario di Viaggio di una pellegrina di nome Egeria, risalente agli anni 381-84. Egeria ci riporta la tradizione della festa dell’ingresso di Gesù nella città santa così come veniva celebrata nella chiesa di Gerusalemme, dove i fedeli si radunavano nella cosiddetta chiesa dell’Eleona, sul monte degli Ulivi, dove si trovava la grotta in cui insegnava il Signore, e proseguiva sino al Calvario, guidato dal vescovo in groppa a un’asinella.
[29]Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi…
Geograficamente siamo ad est di Gerusalemme, dove si trova il monte Uliveto, alto più o meno 800 mt. Per raggiungere Gerusalemme da Bètfage e Bètania, ultimi villaggi nella zona del monte, è necessario prima scendere e poi salire. Questo movimento compiuto da Gesù per entrare a Gerusalemme è la sintesi della sua esistenza di Figlio di Dio, disceso nella carne, per essere innalzato sulla croce, carne trafitta, per poi risalire alla destra del Padre, carne gloriosa.
Come la strada per Gerusalemme, così anche la nostra strada alla sequela di Gesù è una scuola di vita, bisogna scendere prima di salire: discendere, per accogliere la nostra e l’altrui debolezza, per poi affrontare la risalita, sapendo che la fatica che ciò comporta, non possiamo sopportarla da soli. L’immagine della cordata rende l’idea. Una processione di uomini e donne che uniti gli uni gli altri affrontano il cammino sapendo che in testa c’è un uomo deciso e sicuro, colui che conduce alla mèta, alla città eterna. È il cammino della Chiesa.
… inviò due discepoli dicendo: [30]«Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è mai salito; scioglietelo e portatelo qui. [31]E se qualcuno vi chiederà: Perché lo sciogliete?, direte così: Il Signore ne ha bisogno». [32]Gli inviati andarono e trovarono tutto come aveva detto. [33]Mentre scioglievano il puledro, i proprietari dissero loro: «Perché sciogliete il puledro?». [34]Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno».
Così come abbiamo ritrovato l’atteggiamento deciso di Gesù nell’affrontare la parte finale del suo viaggio verso Gerusalemme in Lc 9,51, così troviamo un altro elemento comune con il nostro brano, nel versetto 52: Gesù “mandò avanti dei messaggeri. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per fare i preparativi per lui”. I due discepoli erano Giacomo e Giovanni. Ancora, per i preparativi della Pasqua leggiamo in Lc 22,8-12, Gesù “mandò Pietro e Giovanni dicendo: “Andate a preparare per noi la Pasqua, perché possiamo mangiare”. Gli chiesero: “Dove vuoi che la prepariamo?”. Ed egli rispose: “Appena entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua. Seguitelo nella casa dove entrerà e direte al padrone di casa: Il Maestro ti dice: Dov’è la stanza in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà una sala al piano superiore, grande e addobbata; là preparate“. Le assonanze sono molto evidenti e ci dicono uno stile di invio del Signore, che manda i suoi discepoli “avanti” per preparare e per collaborare alla sua missione, senza mandarli allo sbaraglio; infatti li informa di ciò che avverrà con autorità e rendendoli sicuri di non essere abbandonati dal Maestro.
Circa il puledro da slegare, di sottofondo, senza menzione esplicita, come invece accade nella versione matteana, risuonano alle nostre orecchie le parole del profeta Zaccaria (Zc 9,9-10): “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina. Farà sparire il carro da guerra da Èfraim e il cavallo da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle nazioni, il suo dominio sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra”. Il riferimento alle parole del profeta, indica la corrispondenza tra il Messia atteso dal popolo e la persona di Gesù: il re che Israele stava aspettando era un re giusto e vittorioso, ma soprattutto umile e portatore di pace.
La scelta del puledro come cavalcatura per l’ingresso a Gerusalemme, dunque non è un dettaglio, ma esprime ciò che Gesù è ed è stato fino a quel momento: mite e umile di cuore, lento all’ira e ricco di misericordia. Infatti mentre i guerrieri montavano i cavalli per giungere alla vittoria, le persone povere e pacifiche cavalcavano gli asini. La storiografia ci insegna che la cavalcatura tipica del re era il cavallo, anzi proprio dal numero dei cavalli che un re possedeva si misurava la sua ricchezza e la sua potenza, poiché era l’animale usato per fare la guerra, mentre l’asino era usato in tempo di pace. Questo è già di per sé molto significativo riguardo alle intenzioni di Gesù: egli non giunge a Gerusalemme come capo militare, circondato da un esercito a cavallo, ma seduto sopra un asino e circondato da una folla festante a piedi. Non si tratta di una parata militare, ma di una processione rituale. Tra l’altro Dio aveva espressamente proibito la moltiplicazione dei cavalli nel paese d’Israele (Dt 17,16).
Anche la scelta del puledro sul quale non è mai salito nessuno, non è casuale, ma ha dei riferimenti nell’AT: come gli animali che venivano usati per il sacrificio non potevano essere usati per lavori comuni, perché erano già destinati a Dio, così anche la cavalcatura di Gesù, re e Messia, doveva essere un puledro sul quale nessuno era mai salito.
Il Signore ha bisogno di un puledro, di un asino, per il suo ingresso a Gerusalemme come Messia. Ancora una volta, il Signore ha bisogno di ciò che conta meno. Possiamo dire che in quel puledro e in ciò che esso rappresenta c’è spazio per tutti: per chi si sente incapace e inadeguato a portare il Signore agli altri, e per chi viene giudicato inadatto a portare Gesù, a causa della vita passata o del proprio carattere.
Il Signore ha bisogno di noi, così come siamo, lenti e cocciuti, ma disposti a portarlo, perché Lui cavalca assecondando il nostro ritmo. Anche oggi Gesù sceglie non cavalli forti e vigorosi, ma asini miti e silenziosi per arrivare al cuore degli uomini. Così verrà a noi, non nel clamore, non nel vento gagliardo, non nel suono di tromba, non su un cocchio dorato: verrà nella brezza lieve, nel silenzioso profumo dell’aria di primavera, nel lento e ritmato incedere, nel suono delle foglie mosse dal vento. Così verrà e così noi dovremmo portarlo.
Per approfondire la figura dell’asino nella cultura biblica, facciamo insieme un piccolo excursus.
Excursus: l’asino nella Bibbia
Nell’AT l’asino è la cavalcatura dei profeti e dello stesso Messia. Nel libro del Giudici è presentato come cavalcatura dei potenti: infatti in Gdc 5,9-10 la profetessa Deborah, canta «Benedite il Signore! Voi che montate asine bianche e splendenti».
Nel libro dei Numeri, ai capitoli 22-24, si racconta la storia dell’asino o asina di Balaam, mago madianita che si recava per conto del re di Moab contro l’esercito degli Ebrei per maledirlo. L’asino che cavalcava, percepita la presenza dell’angelo armato di spada che il Signore aveva inviato per fermarlo, deviò per i campi, nonostante le bastonature di Balaam per riportarlo sulla via, e gli parlò, dicendogli che aveva le sue buone ragioni per non obbedirlo come sempre. Proprio in quel momento anche il suo padrone vide l’angelo e rese grazie, benedicendo. Qui l’asino assume una figura sapienziale, perché riconosce la volontà di Dio prima dell’uomo, ruolo sottolineato dal dono temporaneo della parola fattogli dal Signore.
In 1Samuele 9-10 Saul, alla ricerca delle asine smarrite di suo padre Kis, si rivolge a Samuele perché come veggente gli indichi dove fossero e il profeta, rassicurandolo che le asine erano state trovate, lo unge re d’Israele; in Giobbe, 39, 5-6 è esaltato lo spirito di libertà dell’ònagro, l’asino selvatico, che alla greppia con ricca pastura preferisce le terre salmastre e inospitali.
In Zaccaria, 9,9 l’asino è legato alla profezia della venuta del Messia: «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio di asina». La figura dell’asino si ricollega da un lato alla cavalcatura dei re e degli immortali, propria delle culture dell’estremo Oriente, mentre d’altro lato è presentato come cavalcatura modesta, il cui impiego da parte del Messia è segno d’umiltà.
Nel NT la figura dell’asino è largamente presente sia nei libri canonici che negli apocrifi: è presente nell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme la Domenica delle Palme. Nell’opera Opuscules et sermons di Riccardo da San Vittore, commentando questo episodio secondo il Vangelo di Matteo che vede condurre a Gesù sia un’asina che il suo puledro, l’asina rappresenta l’umiltà e l’asinello l’umiliazione, e per questo sarebbero stati scelti da Gesù. Secondo l’apocrifo Atti di Tommaso, l’asino che portò Gesù, sarebbe stato un discendente dell’asino di Balaam. Esiste una pia tradizione di origine medievale, che attribuisce il segno cruciforme che segna la schiena dell’asino come premio ricevuto per avere portato in groppa il Signore. Rispetto allo stesso episodio, i Padri della Chiesa forniscono anche un’interpretazione negativa della figura dell’asino come simbolo delle forze del male, sostenendo che è stato dominato dal Cristo, quando è stato cavalcato.
Anche se non esplicitamente menzionato nei Vangeli, l’asino, come mezzo di trasporto usuale, è da ritenersi presente negli episodi evangelici della visita di Maria a Elisabetta, nel viaggio a Betlemme di Giuseppe e Maria (esplicito nell’apocrifo Protovangelo di Giacomo), nella fuga in Egitto (esplicito nell’apocrifo Pseudo Matteo). A corroborare questa presenza, ci pensano le molte raffigurazioni pittoriche di questi episodi evangelici.
Nell’episodio della Natività, la presenza dell’asino insieme al bue accanto alla mangiatoia, è presente soltanto nello Pseudo Matteo, considerandoli parte integrante del quadro di umiltà nel quale ha voluto nascere il Salvatore.
La prospettiva offertaci dai Padri della Chiesa, invece è più ampia: essi infatti vedono in questi animali il simbolo della presenza di tutti i popoli davanti al Re, dove il bue rappresenta il Popolo Eletto in quanto animale “puro” che ha l’unghia bifida e rumina, mentre l’asino rappresenta i pagani in quanto animale impuro, che ha l’unghia compatta e non rumina.
Nella Bibbia troviamo un episodio simile a quello dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme. È quello che si riferisce alla tormentata intronizzazione di Salomone quale successore di Davide sul trono di Israele. Leggiamo nel libro dei Re: “Il re Davide fece chiamare il sacerdote Zadòk, il profeta Natan e Benaià figlio di Ioiadà. Costoro si presentarono al re, che disse loro: “Prendete con voi la guardia del vostro signore: fate montare Salomone sulla mia mula e fatelo scendere a Ghicon. Ivi il sacerdote Zadòk e il profeta Natan lo ungano re d’Israele (1Re 1,32-34). Gesù, quale discendente di Davide, viene introdotto su un puledro figlio d’asina, ad occupare il posto di Re che gli era stato preparato. Gesù in groppa al puledro guarda Gerusalemme: Giovanni Crisostomo dice che “qui il puledro raffigura la Chiesa e il popolo nuovo che fin a quel momento era impuro e che diviene puro, quando Gesù si siede su di esso”. E continua osservando: “Notate qui come si mantiene il rapporto tra l’immagine e la realtà. Gli apostoli che sciolgono gli animali: sono infatti gli apostoli che hanno chiamato sia gli ebrei sia noi alla fede; e per mezzo loro siamo stati condotti a Cristo”
[35]Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. [36]Via via che egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada.
I discepoli, trovato il puledro, lo slegano e lo portano a Gesù, davanti al quale lo “sellano” dei loro mantelli, mentre altri li stendono lungo la strada a mò di tappezzeria. fuori dal paese. Sono gesti di accoglienza che dimostrano rispetto, gesti che si fanno quando arriva un re.
Possiamo leggere cosa accadde dopo l’unzione di Ieu come re d’Israele in 2 Re 9,13. Infatti quando c’era l’intronizzazione regale, il popolo, in segno di sottomissione, metteva il proprio mantello, immagine della propria vita, lungo il percorso del nuovo re.
In questo modo possiamo capire che con questo gesto, i discepoli accolgono, accettano quest’immagine di Messia non violento, di Messia portatore di pace, colui che avrebbe realizzato la profezia di Zaccaria, e in segno di adesione, mettono il proprio mantello, cioè la propria esistenza, nelle mani di Gesù, disposti a seguire un Messia di pace.
[37]Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, esultando, cominciò a lodare Dio a gran voce, per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo:
[38]«Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!».
Siamo vicini alla vista splendida di Gerusalemme dalla discesa del monte Uliveto. Da qui tutti iniziano ad acclamare, e ai gesti di sottomissione seguono le parole osannanti che annunciano l’avvento della pace: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!».
Queste parole ci ricordano le parole degli angeli alla nascita di Gesù, così come viene narrata da Luca al capitolo 2, dove la venuta di Gesù è portatrice di una pace che conquisterà a prezzo del suo sangue: Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti (Eb 2, 9).
Noi siamo chiamati ad essere questo segno nel mondo, ad essere persone rappacificate anche se soffrono o hanno sofferto, anche se devono lottare o subire l’ingiustizia.
[39]Alcuni farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli». [40]Ma egli rispose: «Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre».
Ai farisei che gli chiedevano di far tacere la folla, Gesù rispose: “Se questi taceranno, grideranno le pietre” (Lc 19,40). Egli si riferiva, in particolare, alle mura del tempio di Gerusalemme, costruito in vista della venuta del Messia e ricostruito con grande cura dopo essere stato distrutto al momento della deportazione babilonese. La memoria della distruzione e della ricostruzione del tempio era rimasta viva nella coscienza d’Israele e Gesù faceva riferimento a tale consapevolezza, affermando: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2,19). Come l’antico tempio di Gerusalemme fu distrutto e ricostruito, così il nuovo e perfetto tempio del corpo di Gesù doveva morire sulla Croce e risorgere il terzo giorno.
Questa pericope è riportata solo da Luca ed è una espressione proverbiale usata dai Greci e dai Romani, e anche dagli Ebrei. La troviamo già in uso ai tempi del profeta Abacuc 2:11. La testimonianza resa in quel giorno era stata predetta dai profeti, perché era necessario che l’attenzione di tutti quelli che si trovavano allora in Gerusalemme fosse attirata su di lui.
Gesù che fin dall’inizio del suo ministero aveva cercato l’anonimato e la solitudine nel deserto e sui monti per evitare la notorietà, non si tira indietro nell’ora del clamore, considerandola come una parte necessaria al disegno di Dio, perché il Messia saliva per l’ultima volta in Gerusalemme… ne sarebbe sceso presto, salendo, tra urla dissacranti, sul legno della Croce, il pinnacolo più alto dal quale ogni uomo vedrà la sua salvezza.
Appendice
Cari fratelli, il tempo liturgico che stiamo vivendo chiede un impegno maggiore da noi: ci vuole più ferventi, più disponibili, più solleciti nel recarci all’incontro con il re venuto dal cielo. Questo stesso gioioso messaggio annunziava san paolo quando diceva: Il Signore è vicino, non angustiatevi per nulla.
Accogliamo il nostro Dio con acclamazioni degne di lui. Gridiamo con la folla: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele! Colui che viene: l’espressione è giusta, perché il Signore non smette di venire, pur senza mai essere assente. Il Signore è vicino a quanti lo invocano. Perciò, benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!
Tutto quello che accade in questo giorno ha valore di simbolo. Tutte queste manifestazioni indicano in figura che avanza un re. Gli abitanti delle città di questo mondo, quando aspettano l’arrivo del loro governatore, spianano la strada, sospendono corone ai portici; l’aspetto della città cambia, il palazzo reale è ripulito da cima a fondo. In vari punti si organizzano cori che cantino le lodi del re. Da questi segni si riconosce che in un dato paese si avvicina un grande della terra. Applichiamoci anche noi a un lavoro analogo, anzi a un’impresa ben più gloriosa: le celebrazioni della nostra città spirituale devono essere all’altezza della trascendenza del suo re celeste.
Il re umile e mansueto è alle porte. Nei cieli egli cavalca sui cherubini, quaggiù è seduto su un puledro di asina. Prepariamo la dimora della nostra anima. Togliamo le ragnatele, cioè ogni rancore contro i fratelli. Non si trovi in noi la polvere delle critiche, ma laviamo abbondantemente tutto con l’acqua dell’amore. Livelliamo le gobbe dell’inimicizia, inghirlandiamo i portici delle nostre labbra con i fiori della bontà. Uniamoci alle acclamazioni della folla: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele! Chi vorrebbe tacere? Chi non ammirerà questa folla, avversa ai Giudei e amica dei discepoli di Cristo? Acclamano il Signore come re, lui che non porta nessuna visibile insegna di una dignità regale: non cocchio laminato d’oro, non bianchi cavalli bardati; nessuna traccia della pompa che i re di questo mondo sogliono sfoggiare nei loro cortei. Qui non ci sono né armi né scudi né alabarde; neppure mantelli di porpora né prestigiosi scudieri dalle chiome fluenti; tanto meno sfilano dignitari o parate di elefanti.
La folla non contempla nulla di ciò, anzi vede proprio il contrario: un volgare, meschino puledro, senza sella, preso a prestito per l’occasione. Tutto il corteo si riduce agli undici apostoli, perché Giuda già ordisce il tradimento. Le folle vedono questa grande povertà di Gesù, eppure sono come rapite in cielo e con gli occhi dello spirito contemplano le realtà dell’alto. Si uniscono ai cori angelici e si valgono delle voci dei serafini per acclamare come loro: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re di Israele!
È aspro e pungente per i sacerdoti e i farisei udire le folle che acclamano un re di Israele. Eppure, volenti o no, sono costretti a udirlo. Avevano tacciato Gesù di possedere un demonio, ed ecco la folla proclamarlo re. Chi le ha suggerito quel titolo? Chi le ha messo in mente tale lode? Chi ha posto rami di palma nelle loro mani? Chi improvvisamente ha radunato tutta questa gente, guidandola come sotto un unico capo? Chi ha insegnato questo canto unanime?
È una grazia discesa dall’alto, una rivelazione dello Spirito Santo. ecco perché gridano con libera franchezza: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re di Israele. La folla forma il corteo terreno del Signore, gli angeli quello celeste. I mortali sono simili agli immortali, i pellegrini della terra già partecipano ai cori celesti. Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re di Israele. Essi rifuggono i farisei, hanno in orrore i sommi sacerdoti. Cantando una melodia degna dell’Altissimo, rallegrano la creazione, santificano l’aria. I morti trasaliscono, il cielo si apre, rifiorisce il paradiso, gli altri mortali sono stimolati a emulare un simile fervore.
Prendiamo anche noi rami di palma e usciamo incontro al Signore. Diciamo ai prìncipi dei sacerdoti: Non siete voi quelli che domandano se questi è il figlio del carpentiere? Egli è il Dio forte e potente. Correte, affrettatevi; unitevi alla folla e cantate in onore di colui che ha risuscitato Lazzaro: Benedetto colui che viene nel nome del Signore. A lui la gloria nei secoli. Amen (dai Discorsi di san Proclo, Oratio IX, In ramos Palmarum, 1-3.4. PG 65, 772-777
Gesù era venuto spesso a Gerusalemme; mai però vi era entrato in modo così solenne. Quale ne è il motivo? All’inizio del suo ministero egli non era molto conosciuto e a quel tempo neppure era prossima l’ora della sua passione. Gesù si mescolava alla folla senza alcuna distinzione, cercando anzi di passare inosservato. Qualora si fosse manifestato troppo presto, non avrebbe riscosso ammirazione, ma l’ira degli avversari sì sarebbe scatenata ben più violenta. Più tardi, invece, quando la croce è alle porte, dà prova sufficiente del suo potere, dispiega in modo più lampante la sua grandezza e compie con maggiore solennità ogni cosa, anche se ciò inasprirà la parte avversa. Ripeto che egli avrebbe potuto fare ciò sin dall’inizio della sua predicazione, ma non sarebbe stato né utile né vantaggioso.
Non considerare la menzione dell’asina poco importante. Quelli che si lasciarono portare via i loro animali, erano povera gente, forse dei contadini. Chi li persuase a non opporsi? Che dico? Neppure aprirono bocca. Insomma, perché acconsentirono oppure tacendo dettero via l’asina?
Nell’uno e nell’altro caso il comportamento di costoro è ugualmente ammirevole: sia lo starsene zitti quando vengono portate via le loro bestie; sia il non opporre resistenza dopo aver chiesto e avuto la spiegazione dagli apostoli: Il Signore ne ha bisogno. E sono tanto più ammirevoli, perché non vedevano il Signore, ma solo i suoi discepoli.
Questo episodio ci insegna che Gesù avrebbe potuto ridurre al silenzio e atterrare i Giudei che stavano per impadronirsi di lui, ma non volle farlo. Non solo, ma in quella circostanza dà anche un altro insegnamento ai discepoli: essi dovranno senza opporsi fare quanto egli chiederà loro, foss’anche la vita stessa. Se quegli sconosciuti hanno ceduto obbedienti, essi dovranno abbandonare tutto senza recriminazioni.
Allorché Gesù entra in Gerusalemme cavalcando un’asina, ci insegna l’umiltà e la moderazione. Egli non viene solo a compiere le profezie e a seminare la parola di verità, ma anche a istituire un modello di vita che si limiti al necessario e si ispiri ad un comportamento onesto.
Ecco perché, quando nasce, non cerca un magnifico palazzo, e neppure una madre ricca e illustre, ma si contenta dell’umile sposa di un carpentiere; nasce in una grotta e viene deposto in una mangiatoia. Per discepoli non sceglie né retori e dotti, né ricchi e nobili ma povera gente di modesta estrazione, del tutto sconosciuta.
Al momento del pasto, a volte si ciba di pane d’orzo, altre volte di quello che manda i discepoli a comprare in piazza, e l’erba gli serve da tavola. Si veste poveramente, come usa la gente del popolo, e non ha neppure una casa. Quando deve spostarsi da un luogo all’altro, fa i viaggi a piedi, tanto da esserne affaticato.
Gesù non ha nessun trono per sedersi né cuscino per posare il capo. Che sia sulla montagna o presso un pozzo – come quando era solo a parlare con la Samaritana – si mette semplicemente a sedere per terra.
Ci dà l’esempio della misura anche nei nostri dolori e nella nostra tristezza: quando piange, versa poche lagrime, in modo che indica i limiti da non oltrepassare e l’equilibrio, da mantenere.
Ecco un altro esempio di semplicità: prevedendo che molti, deboli fisicamente, non potranno sempre viaggiare a piedi, insegna con il suo esempio la moderazione: non è necessario andare a cavallo, non c’è bisogno di muli aggiogati, ma basta un’asina, e così non si eccede oltre il necessario.
Ma vediamo più da vicino questa profezia che si realizza in parole e in atti. Quale è dunque? Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te, mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma. (Cf Zc 9,9) Gesù non guida carri da guerra, come gli altri re; non impone tributi, non avanza sconvolgente scortato da un corpo di guardia, ma presenta d’ora in poi il modello della mitezza e della moderazione. (Dalle Omelie di san Giovanni Crisostomo In Mt., hom. 66, 1-2. PG 57, 627-628)
Venite, e saliamo insieme sul monte degli Ulivi, e andiamo incontro a Cristo che oggi ritorna da Betània e si avvicina spontaneamente alla venerabile e beata passione, per compiere il mistero della nostra salvezza. Viene dì sua spontanea volontà verso Gerusalemme. E’ disceso dal cielo, per farei salire con sé lassù al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si posso nominare (Ef 1,21). Venne, non per conquistare la gloria, non nello sfarzo e in forma spettacolare. Non contenderà, dice, né griderà, né si udrà la sua voce (Is 12, 2). Sarà mansueto e umile ed entrerà con un vestito dimesso e in condizione di povertà. Corriamo anche noi insieme con colui che si affretta verso la passione e imitiamo coloro che gli andarono incontro. Non però per stendere davanti al suo cammino rami d’olivo o di palme, tappeti o altre cose del genere, ma come per stendere in umile prostrazione e in adorazione profonda dinanzi ai suoi piedi le nostre persone. Accogliamo così il Verbo di Dio che si avanza e riceviamo in noi stessi quel Dio che nessun luogo può contenere.
Egli, che è la mansuetudine stessa, gode di venire a noi mansueto. Sale, per cosi dire, sopra il crepuscolo del nostro orgoglio, o meglio entra nell’ombra della nostra infinita bassezza, si fa nostro intimo, diventa uno di noi per sollevarci e ricondurci a sé. Egli salì verso oriente sopra i cieli dei cieli (cf Sal 67,34), cioè al culmine della gloria e del suo trionfo divino, come principio e anticipazione della nostra condizione futura. Tuttavia non abbandona il genere umano perché lo ama, perché vuole sublimare con sé la natura dell’uomo, innalzandola dalla bassezza della terra verso la gloria. Stendiamo, dunque, umilmente innanzi a Cristo noi stessi, piuttosto che le tuniche o i rami inanimati e le verdi fronde che rallegrano gli occhi solo per poche ore e sono destinate a perdere con la linfa, anche il loro verde. Stendiamo noi stessi rivestiti della sua grazia, o meglio dì lui stesso. poiché quanti siamo stati battezzati in Cristo, ci siamo rivestiti di Cristo (Gal 3,27) e prostriamoci ai suoi piedi come tuniche distese. Per il peccato eravamo rossi come scarlatto; in virtù del lavacro battesimale della salvezza, siamo arrivati al candore della lana per poter offrire al vincitore della morte non più semplici rami di palma, ma trofei di vittoria. Agitando i rami spirituali dell’anima, anche noi ogni giorno, assieme con i fanciulli, acclamiamo santamente: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele. Diciamo anche a noi a Cristo, diciamogli: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il Re d’Israele. Protendiamo verso di lui, a guisa di rami di palma, le ultime parole sulla croce. Seguiamolo in letizia non con i ramoscelli di ulivo, ma con la gioia fraterna che deriva dalla carità prestata a chi ne ha bisogno.
Stendiamo al suo passaggio a mo’ di mantelli i desideri del nostro cuore, perché volgendo i suoi passi verso la nostra dimora, diventi tutto nostro e gradisca l’offerta totale di noi e con noi rimanga. Ripetiamo a Si”on quel messaggio profetico: Abbi fiducia, figlia di Sion, non temere: Ecco, a te viene il tuo re, umile, cavalca su un’asina (Zc 9, 9). Viene colui che è presente in ogni luogo e riempie ogni realtà; viene, dico, per compiere in te la salvezza di tutti. Viene colui il quale non è venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi (cf Lc 5, 32), per richiamarli dalla vie del peccato. Non temere. Vi è Dio in mezzo a te: non potrai vacillare (cf Sal 45, 6) accogli con le braccia aperte lui che nelle sue mani ha segnato la linea delle tue mura. Accogli lui che con le sue mani ha fondato le tue stesse fondamenta. Accogli colui che in sé accolse tutto ciò che è proprio della natura umana, fuorché il peccato. Rallegrati, o città-madre, Sion; non temere. Celebra la tua festa (Na 2, 1). Glorifica per la sua misericordia colui che in te viene a noi.
Ma anche tu, figlia di Gerusalemme, gioisci vivamente. Sciogli il tuo canto, muovi il passo alla danza. Con le parole di Isaia, quel sacro vate, esclamiamo: Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria dei Signore brilla sopra di te (Is 60, 1). Ma quale luce? Quella che illumina ogni uomo (Gv 1, 9) che viene nel mondo. Voglio dire la luce eterna, la luce senza tempo e donata nel tempo: la luce che si è manifestata nella carne mentre per natura è occulta; la luce che avvolse i pastori e ai Magi fu guida nel cammino; la luce che era nel mondo fin dal principio e per la quale è stato fatto il mondo; e tuttavia il mondo non la conobbe; la luce che venne in casa sua, ma i suoi non l’hanno accolta.
La gloria del Signore accogli: quale gloria? Senza dubbio, la croce sulla quale Cristo è stato glorificato; lui, dico, che è lo splendore della gloria paterna come egli stesso ebbe ad asserire nell’imminenza della sua Passione: Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui e lo glorificherà subito (Gv 13, 31-32). Il Signore chiama qui gloria il suo innalzamento sulla croce. La croce di Cristo, infatti, è gloria, ed è la sua esaltazione. Ecco perché egli dice: Io, quando sarò elevato, attirerò tutti a me (Gv 12, 32). (Dai “Discorsi” di sant’Andrea di Creta. Sulle Palme, Disc. 9 sulle Palme; PG 97, 990-994)
FONTE:http://www.figliedellachiesa.org/
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