Juan J. BARTOLOME sdb Lectio Divina"Parabola del figlio prodigo o del padre misericordioso"

6 marzo 2016 |4a Domenica di Quaresima - Anno C | Lectio Divina
Lectio Divina: Lc 15,1-3.11-32
Parabola del figlio prodigo o del padre misericordioso
Poche pagine del vangelo ci risultano tanto familiari come il racconto che abbiamo appena ascoltato:
la parabola del figlio prodigo è stata sempre una delle narrazioni preferite dai cristiani di tutti i tempi. E proprio questo è il problema: la storia può essere tanto conosciuta da non lasciarci mettere in discussione dal suo sorprendente messaggio. Incominciamo col dire che il racconto non è centrato sul comportamento di uno dei due figli; la parabola si centra, piuttosto, sull'atteggiamento che ha il padre in tutta la storia: in essa la cosa più importante non è ciò che hanno fatto o detto i figli, quanto piuttosto ciò che ha fatto e ha detto ad ambedue il padre. Sapremo ciò che ci dice oggi Gesù, se riusciamo ad identificarci con uno dei due figli della sua parabola. E sapendo con quale figlio ci identifichiamo meglio, sapremo meglio ciò che Dio Padre si aspetta da noi.
In quel tempo, 1si avvicinarono a Gesù i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano, tra di loro dicendo: "Costui riceve i peccatori e mangia con loro".

11 Gesù disse loro questa parabola:
"Un uomo aveva due figli; 12il più giovane disse al padre: 'Padre, dammi la mia parte di beni". E il padre divise i suoi beni.
13No molti giorni dopo il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose andò in un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, in quella terra vi fu una terribile carestia, ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Domandò lavoro presso un abitante di quel paese, che lo mandò nei campi a guardare i porci. 16Per la fame voleva riempire il suo stomaco con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava. 17Rientrando in sé disse: "Quanti servi assunti da mio padre hanno pane in abbondanza e io qui sto morendo di fame. 18Mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te 19non sono degno di essere chiamato tuo figlio: trattami come uno dei tuoi servi ".
20Si mise in cammino verso suo padre; quando era ancora lontano, suo padre lo vide e ne ebbe compassione, e, cominciando a correre, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Suo figlio gli disse: 'Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te non sono più degno di essere chiamato tuo figlio'. 22Il padre disse ai suoi servi: "Portate qui il vestito più bello e, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi 23prendete il vitello grasso, ammazzatelo, facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è vivo era perduto ed è stato ritrovato". E cominciarono il banchetto.
25Suo figlio maggiore si trovava nei campi. Nel tornare, mentre si avvicinò alla casa, udì la musica e le danze, 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse successo. Il servo rispose: "È tornato tuo fratello e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo". 28Ma egli si adirò e non voleva entrare, ma suo padre uscì e cercò di convincerlo. 29E lui rispose a suo padre 'Ecco, io ti servo da molti anni, senza mai aver disobbedito ai tuoi comandi, ma non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici, 20e quando questo tuo figlio che ha mangiato i tuoi beni con le prostitute è tornato, hai ammazzato il vitello ingrassato ". 31Il padre gli disse: "Figlio, tu sei sempre con me, e tutto quello che ho è tuo: 32ma dovevamo rallegrarci, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato' ".
I. LEGGERE: capire cosa dice il testo e come lo dice
Con troppa frequenza passa inavvertito il fatto che Gesù ha pronunziato non una, ma tre parabole (Lc 15,3-32), per difendere una sua abitudine, che scandalizzava coloro che si credevano buoni: mangiava spesso con pubblici peccatori (Lc 15,2). Bisogna comprendere, dunque, la parabola del "padre che aveva due figli" (Lc 15,11-32) e le altre due che la precedono (Lc 15,3-7: la pecora perduta; Lc 15,8-10: la moneta perduta), come argomento con il quale Gesù difende il suo insolito comportamento. Mangia con peccatori perché sa che Dio gioisce per la conversione di, almeno, uno di loro (Lc 15,7.10). Il peccatore recuperato da Dio fa sì che Dio recuperi la sua gioia e il desiderio di festa: tale è il potere del peccatore che ritorna al suo Dio.
In concreto, la nostra parabola ha un unico protagonista, un padre (Lc 15,11), e due scene (Lc 15,12-24; 15,25-32), ognuna si centra su uno dei suoi due figli, il minore, il "cattivo" (Lc 15,12-24) e il maggiore, più "buono" (Lc 15,25-32). Ambedue i personaggi sono stati ideati da Gesù per descrivere le due maniere di essere figlio di Dio e potere così mettere a confronto i suoi critici e vedere con il quale dei due si identificano meglio. Inoltre, e soprattutto, Gesù vuole che i suoi uditori riflettano bene sulla reazione del padre alla doppia, e ben diversa, pretesa dei figli. Ciò che è realmente decisivo nella narrazione non è quello che vogliono i figli, ma ciò che il padre fa o dice, ordina o suggerisce, chiede o desidera.
Per ogni figlio - sono due e molto diversi tra loro - c'è un Padre che sa differenziare. Non è lo stesso per ognuno di loro; non li tratta, né è trattato, allo stesso modo. A colui che lo aveva offeso, non gli chiese nulla, si accontentò del fatto che rientrasse a casa, pur sapendo il figlio che non era degno di suo padre né meritevole della casa. A quello che mai lo aveva abbandonato, lo pregò che accettasse come fratello il figlio recuperato. I figli sono provati, però le prove non sono uguali: si adattano ad ogni modo di essere figlio. E nascono dal desiderio del padre di contare sui suoi due figli.
Il figlio minore ha conosciuto il peccato, però non ha mai abbandonato il Padre: allontanatosi da lui il più possibile, non poté bandirlo dal suo cuore; seppe chiedere l'eredità e dilapidarla senza indugio né misura, però non seppe smettere di sentirsi figlio, tanto cattivo da non meritare di esserlo, però sempre figlio. E quando la situazione era più disperata, "entrò in se stesso"... e si ritrovò con il padre. Il ritorno alla casa iniziò tornando al suo cuore: Il padre recuperò il figlio perduto alla porta della casa; il figlio recuperò il padre, prima di tornarlo a vedere, prima di sentire il suo abbraccio e vedersi reinvestito come figlio del signore: lo portava con sé, nel suo cuore. Nel proprio interiore, il figlio che si è smarrito incontra se stesso.
Il figlio maggiore, pur sempre in casa, e lavorando duramente, non si trovava in essa quando il fratello minore ritornò: si è perduto l'incontro - ha saputo dell'arrivo da un servo - e fece di tutto per non partecipare alla festa. Bisogna osservare che ora l'atteggiamento del padre con il figlio maggiore è più insistente, più dialogante, perfino più affettuoso. Non gli toglie la ragione di quanto dice, non nega le sue ragioni, gli dà una nuova ragione, la sua, la paterna: chi è appena arrivato è fratello, qualunque cosa abbia fatto, perché continua ad essere suo figlio. Il padre, e in modo indiretto, gli fa rendere conto che l'obbedienza non va sempre insieme con la fedeltà, che essere servo non è essere figlio: il figlio deve sentirsi padrone, anche se lavora con i servi di suo padre; il figlio è libero di disporre dei beni di suo padre, poiché dispone del padre come dono supremo e base di tutti i beni.
Il figlio maggiore non ha perduto il padre né i suoi beni, né si è allontanato da casa né si è assentato dal lavoro; non ha peccato contro Dio né contro suo padre, ma lo ha servito tutta la vita come salariato. Non ebbe mai un padre, solo un padrone, né casa ma solo un posto di lavoro. Triste destino! Però - e qui sta la sostanza della storia - perché un figlio "buono" non ha potuto o non ha voluto essere un buon fratello, il padre non poté riavere insieme i suoi due figli in casa.
Rubano a Dio il suo bene più prezioso, lo spogliano della sua paternità, i "buoni" figli che non vogliono essere fratelli accoglienti. Non ricevere il fratello caduto, recuperato come fratello, suppone privare Dio di ciò a cui dà più importanza: litigare con il fratello, per quante ragioni si possano avere, è attentare alla paternità di Dio. E non bisogna omettere che questa è la prova del figlio buono, la conversione del figlio "buono" è farsi buon fratello.
II. MEDITARE: applicare quello che dice il testo alla vita
Per comprendere la parabola di Gesù bisogna tener presente la circostanza che l'ha motivata, il rimprovero fariseo al suo comportamento: Gesù giustifica la sua familiarità con i peccatori alludendo al comportamento di Dio nella figura del padre che aveva due figli. Il figlio prodigo non smise mai di essere figlio, anche se un giorno lascia la casa paterna e sperpera i beni della sua famiglia; perfino dopo il suo peccato si sentì figlio, pur sentendosi indegno. E' ciò che gli salvò la vita e lo salvò dal peccato. I figlio che mai abbandonò la casa, sempre si era sentito servo di suo padre: viveva in casa senza libertà e con sforzo; la sua fedeltà gli costava, poiché non era obbedienza di figlio, bensì di servo; prima e dopo non conoscerà la festa familiare. La cosa drammatica sarà che il padre smise di essere padre di due figli, perché il "buono" non accettò di vedere suo fratello in colui che ritornava, perché non ha potuto ammettere che suo padre fosse più buono con colui che si era comportato male. A osservare bene, la parabola non tratta di figli che avevano un padre, ma di un padre che aveva due figli. E non è il figlio minore il prodigo, ma il padre, ammesso che sia stato il figlio ad aver dilapidato la sua parte, a dividere per primo l'eredità e a usare dopo ciò che restava, quando il figlio tornò a casa; è vero che il minore lasciò la casa e il padre con la parte della sua eredità per dilapidarla e vivere disordinatamente, però fu il padre ad addolorarsi più per il figlio perduto che per la perdita dei suoi beni. Il protagonista del racconto non è stato, allora, il figlio malnato ma piuttosto il padre disposto sempre a riconoscere come figlio suo colui che con ragione non poteva aspirare ad altro che ad essere considerato solo servo. Chi non voleva appartenere alla casa perché ha voluto abbandonarla, non riuscì ad allontanarsi dal cuore del padre, per quanto lontano se ne fosse andato; è stato il padre che ha continuato ad aver nostalgia del figlio, che si era allontanato dalla sua famiglia, andando a vivere in terra straniera; è stato il padre che, sentendone la mancanza, lo manteneva vivo e presente nel suo cuore e nella sua casa. Avremmo dovuto esser passati, forse, da un'esperienza di abbandono simile per misurare meglio quale è potuta essere la pena e la tristezza in cui viveva il padre mentre suo figlio era lontano e viveva male. Nemmeno il fratello maggiore ha avuto un atteggiamento molto lucido. Non si è allontanato mai da casa, è vero, però non si è sentito mai libero in essa; si è mantenuto sempre sottomesso a suo padre, però con obbedienza di servo. Cresciuto come figlio non smise mai di essere servo di suo padre. Senza abbandonare il padre, mai si considerò suo erede né seppe celebrare una festa con i suoi amici; non si è permesso di chiedere qualcosa, non perché non lo desiderasse, ma perché gli mancò la fiducia. E quando il figlio di suo padre ritornò a casa, non seppe accettarlo come proprio fratello né volle festeggiare il suo ritorno. Non gli mancavano ragioni, ma gli mancò comprensione verso suo padre. Tanta permanenza insieme al padre non gli fece imparare ad essere fratello; tanto tempo aveva convissuto con suo padre ma non riuscì a vederlo che come il suo signore: la sottomissione non portò la fraternità, l'obbedienza non lo trasformò in figlio. E poiché non comprese le ragioni di suo padre, rimase senza festa, senza fratello e senza casa. E' tragico rendersi conto come una vita di fedeltà a Dio può condurre a perderlo per sempre: non basta fare ciò che vuole nostro Padre, bisogna volere anche ciò che ci dice; dargli piena obbedienza è compito di servi; per essere figli, l'obbedienza deve essere cordiale e interna.
La parabola è solo ombra della realtà: il padre buono non è altro che figura di ciò che Dio vuole essere per noi. Con quanta frequenza abbiamo sentito la tentazione di lasciare Dio in casa e cercare arie e luoghi di maggiori libertà, dove poter essere noi stessi senza dover essere riconosciuti come figli di Dio, dove spendere ciò che avevamo ricevuto come se lo avessimo guadagnato noi. E con quanta frequenza abbiamo acconsentito a questa volontà di libertà, a questo desiderio di smettere all'improvviso di essere figli in casa propria; con la stessa frequenza abbiamo ottenuto unicamente di essere servi in casa altrui. Però non è pessimista il racconto di Gesù, come non possono portarci all'abbandono i nostri abbandoni. Se ci riconosciamo nel "cammino di andata" che ha fatto il figlio, possiamo riconoscerci anche nel suo "cammino di ritorno" e trovarci, come lui, con un Padre disposto a vederci e commuoversi, correre verso di noi e abbracciarci. E perfino baciarci, senza dovergli dire prima alcuna parola di pentimento. La storia del figlio minore può essere la nostra storia: se torniamo a Dio, recuperiamo il Padre che tanto ci manca. Non dimentichiamo che il figlio, lontano da casa, dovette conoscere gioie che devastano e tristezze che alimentano nostalgie, godere piaceri ma sentirsi nel bisogno; tornò a ricordare il padre che aveva abbandonato solo quando sentì lo stomaco vuoto, quando terminò il suo denaro, quando non ebbe amici con i quali sperperare la sua fortuna. Fu nell'esperienza di solitudine, di mancanza di affetti umani, e di fame, di mancanza di cibo, che tornò a pensare a suo Padre e al cibo dei suoi servi. Coloro che sono soddisfatti di sé, coloro che hanno successo, coloro che si aggiustano bene per conto loro, coloro che credono di non peccare solamente perché dispongono a piacere dei propri beni, difficilmente intraprendono il cammino di ritorno. Perché invidiarli, se hanno perduto la casa, il padre, la famiglia propria e la festa comune? Se avvertiamo qualche bisogno, se ci sentiamo bisognosi di qualcosa di importante, tutto ciò può essere l'occasione per ritornare dal Padre buono che ci aspetta tutti. Dietro il nostro peccato, dietro i nostri errori, dietro le nostre povertà, c'è sempre un Dio che ci aspetta, un Dio che non terrà conto di ciò che abbiamo fatto se ritorniamo. Convertiamoci al nostro Dio, torniamo a scoprirlo come Padre, proviamoci e vedremo com'è buono il Signore. Se tutti abbiamo un Padre che ci aspetta alla fine del cammino, perché dubitare tanto di tornare a casa? Se alla fine c'è la nostra casa, perché tardare tanto nel lasciare quelle altrui? Se alla meta è già preparato il banchetto di benvenuto, perché patire ancora la fame?
E un'ultima osservazione: se qualcuno conosciuto, che si era allontanato, ritorna con nostro Padre e con noi, a casa, riceviamolo come figlio recuperato e come fratello da recuperare. Condividiamo con lui la casa e il Padre, senza invidia né rancore. Alla fin fine, il nostro Dio per essere Padre nostro ha bisogno di figli, siano questi più o meno buoni come noi stessi. E noi abbiamo bisogno di fratelli buoni per formare una famiglia con Dio: nessuno è migliore perché non è mai andato via da casa, bensì se si è sempre considerato figlio, anche se indegno; se la nostra pretesa fedeltà a Dio non ci avvicina ai suoi figli meno fedeli, non riusciremo a sentirci altro che servi nella nostra famiglia. Perché Dio sia nostro Padre, i suoi figli, anche se non sono tanto buoni come noi, devono essere nostri fratelli. Per vedere cosa ci chiede oggi Dio Padre, vediamo che tipo di figli siamo, verificando che tipo di fratelli cerchiamo di essere.
Juan J. BARTOLOME sdb
 Fonte:  www.donbosco-torino.it

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