Michele Antonio Corona"Questo mio figlio era morto"
Commento su Luca 15,1-3.11-32
Michele Antonio Corona
IV Domenica di Quaresima - Laetare (Anno C) (06/03/2016)
Vangelo: Lc 15,1-3.11-32
"Questo mio figlio era morto". Cosa significa ciò? Era fisicamente morto? Oppure è solo
un'esagerazione orientale? Il padre sembra avere a cuore questa realtà della risurrezione del figlio, al punto da ribadirla in modo fermo anche col fratello maggiore, dicendo "tuo fratello". Il figlio minore è veramente morto su due fronti: come uomo e come figlio. È morto come uomo, in quanto si è reso peggio delle bestie e delle bestie impure, i porci, dei quali chiede il cibo ma non gli viene dato. Come uomo dovrebbe essere reggente-custode delle creature, invece ne è assoggettato. Il desiderio bestiale di trangugiare qualcosa lo pone nel sottoscala dell'umanità, al di sotto anche dei porci.
Come figlio, muore gradualmente: in primo luogo, chiedendo anticipatamente l'eredità del padre rende questi morto e se stesso orfano. Seppellisce il padre e lo lascia in casa, allontanandosene. Inoltre, chiedendo la parte della propria eredità, spezza il legame affettivo e filiale a favore del vincolo economico. In secondo luogo, quando l'eredità viene sperperata, muore veramente come figlio in quanto perde ogni tipo di relazione col padre, anche solo pecuniaria.
L'intervento dei due figli si intesse intorno al verbo "dare" che evidenzia il legame supposto dai due col padre. La loro figliolanza sembra essere legata all'idea del bancomat, del patermat: un padre che elargisca, doni, fornisca, soddisfi i desideri. Il rapporto col padre si muove tra la pretesa e la sicurezza che il padre doni, tra le richieste pressanti e la gratuità paterna. La causa di fondo che muove il figlio a ricordarsi di un padre vivo è la fame ed il desiderio di mangiare qualcosa non bestiale, ma servile. Il ravvedimento del figlio (non sappiamo se fosse ragazzo o giovane, ma solo minore rispetto all'altro) trova ancora le sue radici in una non-figliolanza. Il ritorno a casa è in fondo una rivendicazione tra figlio e servi ed un'accettazione a ribasso di altri legami. Il figlio non si sente legato al padre, ma è incatenato alla ricchezza dell'eredità, alla voglia di autonomia, al mito della libertà dalla casa paterna, dalla dissolutezza della vita, dalla pretesa di essere autosufficiente. Un figlio che idealmente parte per essere libero ed invece scopre di essere ancora più schiavo dei servi di suo padre. Non osa desiderarsi veramente libero (figlio), ma sceglie una via di mezzo: in casa come servo.
È difficile accettare un padre così magnanimo, benevolo, gratuito, misericordioso, paradossale, assurdo, autentico. Accettare e riconoscere questo significa entrare nella dinamica di un amore riconosciuto e condiviso, di una misericordia e accolta e donata, di una gratuità che ci libera da ogni legame superficiale. Il figlio non spera di essere liberato dalle catene che lo hanno legato fin dalla nascita. Non riconosce il padre come vincolo di liberazione", come donatore dell'unica cosa utile: amore libero.
La libertà è uno dei punti mancanti anche nel secondo figlio. Il figlio maggiore ha bisogno di riconoscersi figlio, dato che rifiuta di entrare in casa, non chiama suo padre ma un servo, torna dai campi come un servo mentre i servi sono a casa come figli, non usa mai col padre l'appellativo di "padre" e menziona il fratello come "tuo figlio". Infine, vive il ritorno/risurrezione con rabbia e indignazione a differenza del padre che si commuove. Egli non può essere liberante col fratello poiché non si sente libero. Il rammarico con cui ha vissuto il lavoro in casa del padre, la condivisione della vita, la fatica della quotidianità, l'astio verso le pretese del fratello, l'incomprensione per una bontà esagerata del padre lo hanno cristallizzato in una mentalità di giudizio e di condanna. L'indignazione del figlio si contrappone alla supplica del padre, che dimostra di saper lasciare la propria casa e andare incontro a chi attende. Non aspetta, non si ferma, non trascura, ma ha passi premurosi verso i figli/servi ribelli.
Interessante notare che il vangelo liturgico anticipa la parabola con la contestualizzazione del racconto attraverso i versetti. 1-3. Come nella parabola ci sono due antagonisti ed un padre, così nei primi versetti ci sono pubblicani/peccatori e farisei/scribi con Gesù. È chiaro il parallelismo tra Gesù è il padre dei figli e la possibile identificazione tra i due gruppi di personaggi reali e i due figli della parabola. Chi si sente figlio minore e chi il maggiore? Chi, pur sbagliando, torna dal padre e chi invece non vuole averne più a che fare per la presenza dei "ritornati"? chi fugge dalla casa e poi ne sente nostalgia e chi, invece, vi rimane fedelmente, ma non sentendosi veramente parte integrante?
Michele Antonio Corona
IV Domenica di Quaresima - Laetare (Anno C) (06/03/2016)
Vangelo: Lc 15,1-3.11-32
"Questo mio figlio era morto". Cosa significa ciò? Era fisicamente morto? Oppure è solo
un'esagerazione orientale? Il padre sembra avere a cuore questa realtà della risurrezione del figlio, al punto da ribadirla in modo fermo anche col fratello maggiore, dicendo "tuo fratello". Il figlio minore è veramente morto su due fronti: come uomo e come figlio. È morto come uomo, in quanto si è reso peggio delle bestie e delle bestie impure, i porci, dei quali chiede il cibo ma non gli viene dato. Come uomo dovrebbe essere reggente-custode delle creature, invece ne è assoggettato. Il desiderio bestiale di trangugiare qualcosa lo pone nel sottoscala dell'umanità, al di sotto anche dei porci.
Come figlio, muore gradualmente: in primo luogo, chiedendo anticipatamente l'eredità del padre rende questi morto e se stesso orfano. Seppellisce il padre e lo lascia in casa, allontanandosene. Inoltre, chiedendo la parte della propria eredità, spezza il legame affettivo e filiale a favore del vincolo economico. In secondo luogo, quando l'eredità viene sperperata, muore veramente come figlio in quanto perde ogni tipo di relazione col padre, anche solo pecuniaria.
L'intervento dei due figli si intesse intorno al verbo "dare" che evidenzia il legame supposto dai due col padre. La loro figliolanza sembra essere legata all'idea del bancomat, del patermat: un padre che elargisca, doni, fornisca, soddisfi i desideri. Il rapporto col padre si muove tra la pretesa e la sicurezza che il padre doni, tra le richieste pressanti e la gratuità paterna. La causa di fondo che muove il figlio a ricordarsi di un padre vivo è la fame ed il desiderio di mangiare qualcosa non bestiale, ma servile. Il ravvedimento del figlio (non sappiamo se fosse ragazzo o giovane, ma solo minore rispetto all'altro) trova ancora le sue radici in una non-figliolanza. Il ritorno a casa è in fondo una rivendicazione tra figlio e servi ed un'accettazione a ribasso di altri legami. Il figlio non si sente legato al padre, ma è incatenato alla ricchezza dell'eredità, alla voglia di autonomia, al mito della libertà dalla casa paterna, dalla dissolutezza della vita, dalla pretesa di essere autosufficiente. Un figlio che idealmente parte per essere libero ed invece scopre di essere ancora più schiavo dei servi di suo padre. Non osa desiderarsi veramente libero (figlio), ma sceglie una via di mezzo: in casa come servo.
È difficile accettare un padre così magnanimo, benevolo, gratuito, misericordioso, paradossale, assurdo, autentico. Accettare e riconoscere questo significa entrare nella dinamica di un amore riconosciuto e condiviso, di una misericordia e accolta e donata, di una gratuità che ci libera da ogni legame superficiale. Il figlio non spera di essere liberato dalle catene che lo hanno legato fin dalla nascita. Non riconosce il padre come vincolo di liberazione", come donatore dell'unica cosa utile: amore libero.
La libertà è uno dei punti mancanti anche nel secondo figlio. Il figlio maggiore ha bisogno di riconoscersi figlio, dato che rifiuta di entrare in casa, non chiama suo padre ma un servo, torna dai campi come un servo mentre i servi sono a casa come figli, non usa mai col padre l'appellativo di "padre" e menziona il fratello come "tuo figlio". Infine, vive il ritorno/risurrezione con rabbia e indignazione a differenza del padre che si commuove. Egli non può essere liberante col fratello poiché non si sente libero. Il rammarico con cui ha vissuto il lavoro in casa del padre, la condivisione della vita, la fatica della quotidianità, l'astio verso le pretese del fratello, l'incomprensione per una bontà esagerata del padre lo hanno cristallizzato in una mentalità di giudizio e di condanna. L'indignazione del figlio si contrappone alla supplica del padre, che dimostra di saper lasciare la propria casa e andare incontro a chi attende. Non aspetta, non si ferma, non trascura, ma ha passi premurosi verso i figli/servi ribelli.
Interessante notare che il vangelo liturgico anticipa la parabola con la contestualizzazione del racconto attraverso i versetti. 1-3. Come nella parabola ci sono due antagonisti ed un padre, così nei primi versetti ci sono pubblicani/peccatori e farisei/scribi con Gesù. È chiaro il parallelismo tra Gesù è il padre dei figli e la possibile identificazione tra i due gruppi di personaggi reali e i due figli della parabola. Chi si sente figlio minore e chi il maggiore? Chi, pur sbagliando, torna dal padre e chi invece non vuole averne più a che fare per la presenza dei "ritornati"? chi fugge dalla casa e poi ne sente nostalgia e chi, invece, vi rimane fedelmente, ma non sentendosi veramente parte integrante?
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