Chiesa del Gesù - Roma,Commento III DOMENICA DI PASQUA

At 5,27-32.40-41; Sal 29; Ap 5,11-14; Gv 21,1-19
La pagina del vangelo ci colloca presso il mare di Tiberiade e racconta la manifestazione del Risorto ai discepoli che sono abitati dallo smarrimento.


Fa da contrasto la prima lettura degli Atti dove si parla piuttosto dell’audacia che muove gli apostoli ad annunciare il Cristo Risorto.

Questa forza di testimonianza è un dono dello Spirito, che vince la paura e ci fa essere davvero dei Risorti con Cristo.

Ci spinge ad alzare lo sguardo verso il cielo, abbandonando il ripiegamento su di noi; ci guida a cercare le realtà di Dio per illuminare con la sua luce quelle della terra.

Questo sguardo nuovo diventa celebrazione della vittoria dell’Agnello immolato nella seconda lettura.

È una liturgia cosmica, perché unisce cielo, terra e mare e abbraccia in un afflato universale tutte le creature in un unico cantico di lode.

Questa è la vittoria di Cristo risorto: aver ricapitolato in sé tutte le cose e averle riconsegnate nelle mani del Padre, da cui nessuno più le toccherà.

È una liturgia che appartiene al cielo ma cui noi ci uniamo ogni qualvolta celebriamo insieme l’Eucaristia, passando dalla paura alla fortezza di saperci già salvati, dalla dispersione alla unità in un solo corpo ecclesiale.

La celebrazione eucaristica della nostra assemblea è già partecipazione di quella escatologica.

La lode cosmica dell’Apocalisse si realizza oggi nell’assemblea celebrante, per rendere onore, gloria e testimonianza all’Agnello che ci ha redenti.

C’è una circolarità in cui siamo immessi: il canto liturgico che celebra la redenzione, partito da coloro che stanno intorno al trono, si espande per l’universo.

Avviato dall’alto, dopo aver raggiunto le profondità della terra e del mare, il canto ritorna in alto e si conclude con l’Amen solenne degli esseri viventi e l’adorazione degli anziani, che sigilla l’operare di Dio per la salvezza di tutta la creazione.

Tutta l’umanità e tutto il creato entrano allora in una lode sinfonica.

Questo avviene quando celebrando l’Eucaristia entriamo in questo movimento che è il rendere grazie per il dono della salvezza.

Lasciandoci portare dal ritmo della lode il nostro sguardo si purifica, si alza verso il cielo e la paura che ci abita diventa fiducia, speranza e amore.

Questo è quanto accaduto agli Apostoli che passano dal timore al coraggio della testimonianza e dell’annuncio.

È quanto dovrebbe accadere a noi: bisogna infatti che usciamo dalla celebrazione della vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte cambiati, con uno sguardo sul mondo diverso, con una fiducia in Dio rinsaldata.

Non a caso il Vangelo di oggi narra più che dell’apparizione del Risorto, della risurrezione dei discepoli.

Giovanni sottolinea qui il passaggio dalla notte della delusione e dello scoraggiamento, al chiarore della fede e della speranza.

I discepoli passano dall’ignoranza alla conoscenza di Gesù risorto, dalla sterilità di non prendere nulla alla fecondità della pesca abbondante.

Ma c’è un altro elemento fondamentale che viene evidenziato: dal non avere nulla di cui nutrirsi si passa alla partecipazione del pasto imbandito dal Cristo risorto.

L’allusione all’Eucaristia è evidente.

Mangiare nella Scrittura è sinonimo di avere vita.

In questo contesto significa allora il passaggio dalla ricerca insoddisfatta di senso nella propria vita a una pienezza di partecipazione della vita stessa del Signore risorto.

Questo senso pieno è comunione: la presenza del Risorto ricrea la comunità e fa passare dalla paura alla gioia, dalla timidezza alla testimonianza coraggiosa.

Può sorprenderci che dopo le diverse apparizioni del Risorto sia così difficile per i discepoli lasciare il sepolcro, rotolare via la pietra perché vi entri la luce della vita.

Ci illumina nel vangelo di oggi la fatica di Pietro a seguire il Maestro, la sua difficoltà a superare il proprio dolore e fallimento.

Eppure proprio questa esperienza di sterilità lo porterà ad aprirsi alla presenza del Signore crocifisso e risorto nella sua vita.

Se il discepolo amato fa una confessione di fede, Pietro è chiamato a fare una triplice confessione di amore.

Nel discepolo amato si manifesta infatti il discernimento dell’amore, l’intuito dell’amore.

Mentre Pietro è chiamato a riconoscere e coprire il proprio peccato con la triplice confessione di amore nei confronti del Risorto, declinando il proprio amore come fatica della sequela.

Da una parte allora la sequela espressa da Pietro e dall’altra il rimanere tipico del discepolo amato.

Sono la cifra della nostra vita spirituale: seguire il Signore per dimorare dove lui abita.

È il cammino dalla terra al cielo che ogni Eucaristia ci fa percorrere

Fonte:Chiesa del Gesù - Roma,

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