MONASTERO MARANGO,"Non c’è missione senza contemplazione del volto del Risorto"

3° Domenica di Pasqua (anno C)
Letture: At 5,27-32.40-41; Ap 5,11-14; Gv 21,1-19
Non c’è missione senza contemplazione del volto del Risorto
1)Il capitolo 21 del vangelo di Giovanni è stato aggiunto dalla sua comunità perché alcuni elementi
della tradizione non andassero perduti. E’ diviso in tre parti: la pesca miracolosa e il riconoscimento del Signore; il pasto comunitario in riva al lago; il dialogo tra Gesù e Pietro, che riceve un ministero pastorale contrassegnato dalla pienezza dell’amore.
Si capisce che l’interesse prevalente è ecclesiologico: attraverso le tre scene narrative la comunità giovannea della fine del primo secolo ci vuole consegnare le linee essenziali della Chiesa di sempre.
Una chiesa impegnata nella missione.
La pericope della pesca miracolosa inizia narrando la manifestazione di Gesù risorto «sul mare di Tiberiade». Gesù vuole incontrare i discepoli lì dove tutto era iniziato. Li aveva visti un giorno sulla riva del lago, mentre rassettavano le reti. Li aveva osservati a lungo e poi, con poche e incisive parole, aveva detto loro di seguirlo: ne avrebbe fatto dei pescatori di uomini. Si trattava di aiutarlo in una missione difficile e impegnativa: strappare questa umanità dalle onde della morte, da una vita privata di senso e di bellezza. Subito avevano abbandonato le reti, le barche, il padre e lo avevano seguito, entusiasti e colmi di una nuova speranza: certamente quell’uomo aveva i tratti del Messia tanto a lungo atteso! Ci furono anche i dubbi, le prove, una dura resistenza alle continue provocazioni di Gesù. Ma avevano continuato a seguirlo, affascinati dalla novità portata da quell’uomo. Avevano posto in lui tutta la loro speranza, che del resto non era andata delusa: avevano visto segni prodigiosi, avevano ascoltato parole mai udite nella sinagoga, avevano preso parte a drammatici scontri con le autorità religiose, che avevano ridotto il tempio ad  un’ennesima occasione di mercato. Pietro aveva detto che era pronto a seguirlo fino alla morte. Poi, annunciata più volte da Gesù, la tragedia: l’arresto, la condanna a una tremenda esecuzione capitale, una morte infamante, senza Dio, come scrive l’autore dell’Apocalisse. La fine di tutto. Tutti erano fuggiti, tornando alle occupazioni di prima. «Io vado a pescare» sussurra mestamente Pietro. «Veniamo anche noi con te» ripetono tutti gli altri che stanno ancora con lui. Di alcuni si sono perse anche le tracce. Fine della speranza. Fine della missione: «Quella notte non presero nulla».
Siamo sempre tentati di voltarci indietro, di non vivere più nella fede, di rinunciare al compito che ci è stato affidato. Siamo tentati di abbandonare la missione di annunciare con gioia il vangelo di Gesù, accontentandoci delle forme religiose, di tradizioni stereotipe, di verità astratte che non hanno alcun riscontro nella vita reale. O lasciando perdere del tutto: la fede, in fondo, sarebbe solo una credenza non più adatta ai nuovi tempi.
Com’è una Chiesa impegnata nella missione?
E’ innanzitutto una Chiesa che crede con fiducia nella presenza in essa del Risorto, che lo riconosce, che lo invoca. La missione della Chiesa è feconda se ha la sua sorgente nell’obbedienza alla Parola: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete».
Una Chiesa impegnata nella missione è una Chiesa che ripercorre le strade polverose della Galilea, dove tutto ha avuto inizio, nell’umiltà e nella semplicità. Una Chiesa che non si allontana dalla vita della gente, i cui ministri lavorano con la fatica delle loro mani, una Chiesa che non frequenta i palazzi del potere e non approfitta della religiosità della gente per estorcere denaro ai poveri. Una Chiesa povera, che annuncia instancabilmente il Regno, presente in mezzo a noi, curvandosi sulle sofferenze e sulle malattie di una umanità ferita, versando l’olio e il vino della consolazione e della speranza. Ce lo ripete con voce forte papa Francesco: «Non lasciamoci rubare la gioia della missione». E ancor una volta è lo sguardo penetrante «del discepolo che Gesù amava» che percepisce la Presenza, parla, annuncia, adora: «E’ il Signore!». Non c’è missione senza contemplazione del volto del Risorto.
Una Chiesa riunita attorno all’Eucaristia.
«Venite a mangiare».
Il racconto evangelico ci riporta all’esperienza eucaristica della comunità primitiva. Nel gruppo dei discepoli che riceve dalle mani di Gesù il pane e il pesce viene descritta la Chiesa che celebra nell’Eucaristia la presenza sacramentale del Signore risorto. «Nessuno dei discepoli osava domandargli: chi sei?, perché sapevano bene che era il Signore». La Chiesa sa , nella certezza della fede, che cosa celebra e chi è presente nell’Eucaristia. E’ la presenza del Signore nei Santi Misteri che continuamente nutre la Chiesa, la fa vivere e la rende feconda.
Il primato dell’amore.
«Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?».
Gesù non interroga per tre volte Simone, volendogli in questo modo ricordare il suo triplice rinnegamento. La domanda, così insistita, vuole invece ricordarci l’importanza fondamentale e il primato assoluto dell’amore nella Chiesa di Gesù. Un amore che diventa scelta dell’ultimo posto, servendo i fratelli. Gesù chiede un amore che va fino al dono totale di sé (agàpe) e che implica la concretezza di un affetto vissuto nella quotidianità della vita (filìa). Nella figura di Pietro c’è l’immagine autentica di come deve essere un pastore nella Chiesa: gli è chiesto di amare il Signore con un amore incondizionato; e di condurre pastoralmente i fratelli.
Cosa significa condurre i fratelli secondo il cuore del Pastore grande delle nostre vite?
Propongo un inizio di risposta riportando le parole di papa Francesco: «Il pastore a volte si porrà davanti per indicare la strada e sostenere la speranza del popolo, altre volte starà semplicemente in mezzo a tutti con la sua vicinanza semplice e misericordiosa, e in alcune circostanze dovrà camminare dietro al popolo, per aiutare coloro che sono rimasti indietro e - soprattutto – perché il gregge stesso possiede il suo olfatto per individuare nuove strade» (E.G. 31).
L’amore pastorale è un dono che si riceve e una relazione che si impara.

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