Mons. Luigi Benigno Papa"Egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto "

SESTA DOMENICA DI PASQUA
At 15,1-2.22-29; Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29
LITURGIA DELLA PAROLA  SESTA DOMENICA DI PASQUA)
a cura di Sua Ecc.za Mons. Luigi Benigno Papa
1. C’è una parola del Vangelo che ci indica la modalità con la quale vivere la liturgia di oggi: pace. Ai
discepoli turbati dall’annuncio del suo ritorno al Padre, Gesù dice: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace”. La pace è il nome stesso di Dio (Giud 6,24), la pace che circola nella comunione trinitaria è l’archetipo della pace della quale abbiamo bisogno. È un dono di Dio da accogliere con gratitudine, è un bisogno profondo del cuore umano da invocare con frequenza. In un mondo senza pace la Chiesa è chiamata a essere un luogo di pace e una comunità impegnata a offrire la sua collaborazione per la promozione della pace nella società (Mt 5,9). La domanda di pace è così urgente che la Chiesa in ogni celebrazione eucaristica la rivolge al Signore facendo proprio leva sulle parole del Vangelo citate prima, perché Egli, non guardando ai nostri peccati, ci dia unità e pace secondo la sua volontà.
La prima lettura ci offre la testimonianza delle Chiesa apostolica che, sorretta dall’azione dello Spirito Santo; è riuscita a superare una conflittualità che rischiava di dividerla in due tronconi distinti. Il raggiungimento dell’unità ha poi favorito una nuova spinta evangelizzatrice. La seconda lettura ci fa vedere che ebrei e cristiani, storicamente divisi sin dalla venuta di Gesù, si trovano uniti nella Gerusalemme celeste, sulle cui dodici porte stanno scritti “i nomi delle dodici tribù dei figli di Israele” e le cui mura “poggiano su dei basamenti sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello”. Questa unità attestata per la fine del mondo suscita speranza e infonde coraggio a lavorare per anticiparla nella storia come un’unità dell’amore che è sempre possibile.
Ma Gesù che ha detto: “Beati gli operatori di pace perché saranno figli di Dio” ci propone di lavorare come cristiani non solo per la salvaguardia dell’unità della Chiesa e per il superamento delle tensioni presenti all’interno di essa, ma anche per la promozione della pace sociale e della pace nel mondo. A questo proposito occorre valorizzare il prezioso contributo che il Santo Padre ci ha affidato al capitolo quarto della Evangelii Gaudium che tratta della dimensione sociale del Vangelo e dove vengono suggeriti quattro principi che favoriscono la convivenza sociale (il tempo è superiore allo spazio; l’unità prevale sul conflitto; la realtà è più importante dell’idea; il tutto è superiore alla parte) e diverse iniziative di dialogo (dialogo tra fede, ragione e scienza, dialogo ecumenico, la relazione con l’ebraismo, il dialogo interreligioso, il dialogo sociale in un contesto di libertà religiosa) come contributo per la pace.
Soprattutto nel corso della celebrazione eucaristica dobbiamo ricordarci che “il cuore dalla pace è la pace del cuore” che soltanto il Signore ci può donare.
2. La prima lettura ci offre un racconto che indica il problema che ha dato origine al concilio di Gerusalemme (15,1-2) e la conclusione di esso (15,22-29). Per capire quanto è effettivamente accaduto dobbiamo fare necessariamente riferimento ai versetti intermedi che giustificano la conclusione conciliare. Il problema che è all’origine del concilio è introdotto da Luca nei versetti 14,27-15,7°, che hanno la funzione di precisare i termini e l’atmosfera della controversia.  Benché il problema sia stato sollevato soltanto da un gruppo di giudeo-cristiani, esso verte intorno a una questione di principio da cui dipende la vita stessa delle comunità di Antiochia e di Gerusalemme: la pratica della circoncisione come mezzo di salvezza per i pagani che vogliono diventare cristiani (15,1). Tale pratica è poi legata al problema più vasto dell’osservanza o meno della Legge di Mosè (15,5). In primo piano Luca pone non tanto i sostenitori dell’una o dell’altra opinione quanto il problema stesso, per la cui soluzione la comunità di Antiochia decide di mandare una delegazione a Gerusalemme ove il collegio degli apostoli e dei presbiteri si riunisce per dare una soluzione autorevole. Le persone passano in secondo ordine di fronte a un problema che non tocca gli interessi personali di Pietro, Paolo, Barnaba, Giacomo ma il futuro della comunità cristiana.
Dopo aver ascoltato Pietro, Paolo, Barnaba e Giacomo, l’assemblea arriva a una decisione. Gli apostoli, i presbiteri e tutta la comunità dei credenti decidono di scegliere Giuda, Barsabba e Sila che insieme a Paolo e Barnaba devono comunicare ai cristiani provenienti dal paganesimo i risultati del concilio: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi alcun altro obbligo all’infuori di queste cose necessarie: astenervi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla impudicizia”. Per la comprensione di questa decisione occorre tener presente che la venuta dei pagani alla fede non poneva soltanto il problema teologico o di principio della necessità della circoncisione o meno per ottenere la salvezza, ma anche la questione pratica della comunione di mensa tra pagani e giudeo-cristiani (At 11,3). Il problema teologico aveva trovato pacifica soluzione nelle parole autorevoli di Pietro: “Noi crediamo che per la Grazia del Signore Gesù siamo salvati e nello stesso modo anche loro” (15,11), a cui Giacomo dà il suo assenso. Questi però nel suo intervento fa riferimento alla questione pratica della osservanza della legge mosaica e soprattutto alla legislazione relativa ai cibi puri e impuri. Tale questione pratica non è meno importante di quella teologica. La comunione di mensa è più che il semplice coesistere quotidiano di due gruppi di cristiani; essa è concretizzazione della comunione ecclesiale. A nulla varrebbe l’apertura del Vangelo verso i pagani, se poi questi non potessero vivere in comunione con i fratelli giudeo-cristiani. La comunione di mensa è l’espressione concreta di tale fraternità. Il decreto conciliare con le parole: “Abbiamo deciso di non imporvi alcun altro obbligo al di fuori di…” accoglie la proposta di Pietro (15,10-11) e respinge quella avanzata da “quelli della Giudea” (15,1) e con i versetti 15,24-29 accoglie la proposta avanzata da Giacomo e respinge quella dei cristiani provenienti dal partito dei farisei (15,5). I pagani possono entrare a far parte della comunità cristiana senza passare attraverso l’accettazione del giudaismo (pratica della circoncisione e osservanza della legge mosaica) ma con l’impegno di osservare soltanto quattro clausole disciplinari sopracitate che permettono alla Chiesa nascente di essere effettivamente unita sia nella dottrina, sia nella vita. Tale unità, frutto dello Spirito, diventa trampolino di lancio per una maggiore spinta evangelizzatrice.
3. I discepoli turbati e intimoriti per la separazione fisica annunciata da Gesù, vengono da questi consolati: ogni vero discepolo è dimora del Padre e del Figlio, il Padre invierà alla comunità dei discepoli lo Spirito Santo che sarà il loro maestro interiore; nel commiatarsi da loro il Risorto offre in dono la sua pace. Precisando quanto aveva detto prima ai suoi discepoli: “Nella casa del Padre mio ci sono molti posti… vado a prepararvi un posto”, perché nessuno pensasse che Gesù deve salire in senso locale in cielo come se questo fosse un albergo nel quale Gesù prenota una stanza per ciascun discepolo, Gesù dice che ogni cristiano che nella sua vita dimostra di vivere e di accogliere il suo amore mettendo in pratica il suo messaggio, gode della presenza sua e del Padre, diventa la loro dimora. Si tratta di una comunione di amore molto intima subordinata in maniera molto realistica all’essere un vero discepolo di Gesù.
Questi è però consapevole che nel periodo prepasquale i discepoli non possono aver capito tutto ciò che Egli ha insegnato e operato nell’esercizio della sua missione e perciò assicura che essi riceveranno in soccorso dal Padre lo Spirito Santo: “Egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”. Queste parole sono importanti perché rivelano la qualità specifica del magistero dello Spirito. Questi non ha una dottrina propria da insegnare in aggiunta a quanto ha insegnato Gesù. La modalità dell’insegnamento dello Spirito consiste in una duplice azione: aiuta la Chiesa tutta e i singoli cristiani a capire in profondità il vero significato salvifico dei gesti e delle parole di Gesù, e nello stesso tempo dà alla Chiesa e ai singoli cristiani la forza di tradurre in termini concreti di vita nuova tutto ciò che Gesù comanda e promette (Gv 2,22;7,39;12,16). Senza il dono dello Spirito non avremmo avuto i Vangeli, non avremmo avuto la Chiesa, la comprensione della figura di Gesù sarebbe stata molto riduttiva della sua vera identità. L’invio dello Spirito Santo da parte del Padre risponde alla richiesta di Gesù e si collega alla sua missione.
È comune a tutti gli ebrei che partono da un luogo o arrivano in un luogo salutare gli altri con la parola “Shalòm”. Non è questo il significato del dono della pace che Gesù offre ai suoi discepoli. Essa non è un banale saluto, ma esperienza viva di quella comunione pasquale di cui aveva parlato prima dicendo che ogni vero discepolo è dimora sua e del Padre. È un’esperienza che permette di vivere la partenza di Gesù verso il Padre attraverso la morte non come una tragedia ma con quella serenità che deriva dalla consapevolezza che la sua morte è la manifestazione suprema del suo amore, è la vittoria sulla morte anche per loro.
4. Lo Spirito Santo promesso da Gesù ai discepoli nel Vangelo è fondamento della beata speranza, caparra dell’eredità concessa a noi, che per il battesimo siamo figli di Dio nel Figlio suo Gesù Cristo e quindi partecipi della sua gloria nella Gerusalemme celeste che l’autore descrive nel brano della seconda lettura.
È una visone che Giovanni ottiene per grazia, trasportato su di un monte alto e grande come Mosè che dal monte Nebo (Dt 32,40) osserva la terra promessa. Essa non è un luogo geografico ma una comunione con Dio che incomincia certo mentre siamo sulla terra ma trova il suo vero compimento nella patria celeste. L’oggetto della visione è “la Santa città di Gerusalemme” che qui è simbolo di tutta la comunità redenta da Cristo che ha terminato il suo pellegrinaggio storico ed è già in possesso della gloria di Dio. Essa avvolge tutta la città  (l’umanità redenta) in modo tale che il suo splendore è descritto con la stessa immagine utilizzata per descrivere l’apparizione di Dio stesso: “un diaspro limpido come cristallo” (21,11;4,3). La città è circondata da mura alte e pesanti che hanno il compito di separare ciò che è dentro da ciò che è fuori, ma non di difendere i suoi abitanti dai nemici. La Gerusalemme celeste è una città dalle porte aperte (21,25) le tre porte (simbolo della divinità) per i quattro punti cardinali (simbolo del cosmo) sono un invito a tutta l’umanità a entrare e condividere la beatitudine dell’incontro con Dio. Su ogni porta c’è scritto il nome di una delle dodici tribù di Israele come sulle dodici pietre poste a fondamento delle mura sono scritti i nomi dei dodici apostoli. È cosi indicata l’unità del popolo santo di Dio e il compimento della promessa fatta nell’antica e nuova alleanza.
Nella Gerusalemme celeste non c’è più bisogno di “segni” o di mediazioni umane perché il Signore Dio Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio e i redenti in Cristo vivono uniti a Dio e all’Agnello compenetrati dalla vita di Dio. Il sole e la luna creati da Dio per illuminare la terra sono ormai superflui perché lo splendore della gloria di Dio che adorna la città fa venire meno ogni luce terrena. Nella misura in cui noi siamo trasfigurati dalla luce di Cristo tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà fanno parte di questa città collocata sul monte.
Noi vogliamo essere pronti per entrare in questa città!

Fonte:VICARIATO DI ROMA
Ufficio Liturgico

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