Paolo Curtaz"Rendere gloria"

Commento al Vangelo di domenica 24 aprile 2016 - Paolo Curtaz
V Domenica del Tempo di Pasqua
Colore liturgico: bianco
At 14, 21-27; Sal 144; Ap 21, 1-5; Gv 13, 31-33. 34-35
Rendere gloria
Per cinque volte in una frase Gesù parla di gloria e glorificazione e di come lui, grazie al Padre, sta
per essere glorificato.
La gloria: essere riconosciuto, applaudito, famoso, amato, celebrato.
È una parola che non usiamo più ma che, in realtà, portiamo ben radicata nel cuore.
Vivere una vita felice, fare un lavoro gratificante, avere attorno a noi persone positive che ci stimano, che ci amano, che stimiamo, che amiamo, è il desiderio fecondo e sano che portiamo inciso nell’anima e che accomuna tutti gli uomini di tutti i tempi.
È che poi, mannaggia, i consigli che ci sono dati su come raggiungere questi obiettivi sono discordanti, a volte in assoluta contraddizione.
Sei famoso se appari in televisione, devi essere aggressivo per salire la scala sociale, spregiudicato negli affetti, osare, aggredire…
I tristi, sempre più tristi esempi che stanno sotto i nostri occhi, la corruzione, l’inganno, la violenza, dal più piccolo impiegato al capo di Stato, rivelano lo sfacelo che possiamo produrre quando cerchiamo la gloria in maniera insensata e folle, quando questa diventa un idolo.
Gesù parla con convinzione e determinazione della gloria e del fatto che sta per essere glorificato.
Solo che lo dice durante l’ultima cena, poco prima di essere arrestato.
Quando Giuda esce per andare a denunciarlo.

Che gloria
Gesù insiste, esagera: ora sono stato glorificato, dice.
Nel momento più doloroso del tradimento, quando una persona che ti ama e che ti ha seguto ti inganna, Gesù afferma che potrà manifestare pienamente la sua gloria.
Ma lo è lo fa?
No, Gesù compie qualcosa di straordinario: guarda al di là del presente, vede il bicchiere mezzo pieno, non si chiude in se stesso, depresso o rabbioso, per il tradimento. Poiché Giuda lo sta tradendo potrà dimostrargli che gli vuole bene sul serio.
Poiché sta per essere ucciso, potrà manifestare a tutti gli uomini quanto li ama, quanto ci ama, quanto è serio il suo amore.
Nel tradimento di Giuda vediamo la misura dell’amore di Gesù.
Giuda si è perso, certo, vero.
Ma il Signore non è venuto proprio a salvare chi era perduto?
La perdizione non è, appunto, il luogo teologico della salvezza?
Non veniamo salvati proprio perché, prima, ci siamo smarriti?
Con Giuda Gesù potrà dimostrare qual è la misura dell’amore di Dio: l’assenza di misura.
Ogni uomo che prende coscienza di sé si pone la domanda: sono perduto o salvato?
Gesù risponde: sei perduto e sei salvato.
Gli apostoli non capiscono, come non hanno capito il gesto della lavanda dei piedi.
Pietro, poco dopo, dirà che egli è disposto a dare la vita per Gesù.
Pietro, ormai, si prende per Dio, lo vuole salvare.
Gesù gli ricorderà che è lui a dare la vita per i suoi discepoli.
Un gallo urlerà ricordando a Pietro il suo limite. Non per Dio deve morire, ma con lui.
Tutto ciò che può fare il discepolo è imitare il Maestro, non sostituirlo.

Se
Gesù parla della sua gloria, una gloria che consiste nel manifestare quanto ci ama.
E chiede a noi di fare altrettanto.
La gloria è poter dimostrare il proprio amore. Un amore sano, centrato, luminoso, concreto, umile, oblato, fecondo, rispettoso.
Poco importa se diventeremo premi Nobel o grandi personaggi, splendidi genitori o grandi santi. Importa quanto avremo amato, o desiderato amare. Ecco la vera gloria, quella che il mondo non conosce. E che nessuno ci può togliere.
E se, invece di passare la vita ad elemosinare un applauso iniziassimo a voler amare?

Amatevi
Tra Giuda e Pietro gli altri evangelisti pongono l’ultima Cena.
Giovanni salta il racconto della cena per sostituirlo con la lavanda: la liturgia è falsa se non diventa servizio al fratello debole. Giovanni osa di più: tra i due tradimenti e le due salvezze (Giuda è salvato dal male, Pietro dal finto bene) inserisce l’unico comandamento dell’amore.
Gesù chiede di amarci (amare me, amare te) dell’amore con cui egli ci ha amato.
Corregge gli altri evangelisti. Il più grande comandamento non è amare Dio e il prossimo.
Ma amare il prossimo con l’amore che riceviamo da Dio.
Del suo amore, col suo amore. Non con l’amore di simpatia, di scelta, di sforzo, di virtù.
Con l’amore che, provenendo da Cristo, può riempire il nostro cuore per poi defluire verso il cuore degli altri.
Io non riesco ad amare le persone antipatiche, né quelle che mi fanno del male. Solo l’amore che viene da Dio, un amore teologico, mi permette di poter amare al di sopra dei sentimenti e delle emozioni.

Medaglie
Dall’amore dobbiamo essere conosciuti.
Non dalle devozioni, non dalle preghiere, non dai segni esteriori, non dall’organizzazione caritative, ma dall’amore. L’amore è ciò che maggiormente deve stare a cuore nella Chiesa.
Che sia vero, che sia libero, che diventi evidente.
Un amore in equilibrio tra emozione e scelta, tra enfasi e volontà, che diventi concreto e fattivo, tollerante e paziente, autentico e accessibile, che sappia manifestarsi nel momento della prova e del tradimento.
Celebrando oggi l’eucarestia, memoria del Risorto, cerchiamo anzitutto di amare di più e meglio, perché chi ci vede si accorga che in mezzo a noi dimora il Cristo.
Per glorificare anche noi il Padre.

Fonte: "Ti racconto la Parola"


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