Settimio CIPRIANI SDB "Vidi la nuova Gerusalemme scendere dal cielo..."

24 aprile 2016 | 5a Domenica di Pasqua - Anno C | Appunti per la Lectio
"Vidi la nuova Gerusalemme
scendere dal cielo..." 
L'uso continuato dell'Apocalisse come seconda lettura, in questo terzo ciclo, dà uno splendore e una
profondità tutta particolare alla celebrazione di queste Domeniche dopo Pasqua.
La gioia pasquale trova qui ampia possibilità di trasmettersi, quasi per contagio, agli attenti lettori; e con la gioia anche il senso sempre più dilatato della Pasqua, che diventa così evento non solo ecclesiale, ma addirittura cosmico. "Ecco, io faccio nuove tutte le cose", leggiamo al termine del brano odierno dell'Apocalisse (21,5): la "novità" introdotta e portata a termine da Cristo va ben oltre i confini della Chiesa, e abbraccia l'universalità del cosmo, che "geme" in attesa della "liberazione" finale (cf Rm 8,19).

"Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell'Agnello"

La 2ª lettura fa parte dell'ultima sezione dell'Apocalisse (19,11-22,5), in cui si descrive la definitiva e totale sconfitta del male: "Io, Giovanni, vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più" (Ap 21,1). Siamo dunque davanti a un mondo "nuovo", diverso da quello di prima: il "mare", luogo di vita del drago e simbolo del male, scomparirà per sempre, quasi ritirandosi per paura davanti alla marcia vittoriosa del "nuovo" Israele.
Quello infatti che interessa al Veggente di Patmos non è la "novità" delle cose ma la novità degli uomini, che egli ci rappresenta sotto il simbolo appassionato della Gerusalemme celeste: "Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo" (v. 2). È chiaro che il simbolo intende alludere alla comunità dei redenti che, alla fine dei tempi, si stringerà attorno all'Agnello per celebrare per sempre l'amore salvante di Dio in Cristo. A questo rimanda anche l'immagine della "sposa" che si prepara e si "adorna per il suo sposo". E tra poco ascolteremo "uno dei sette angeli, che avevano le sette coppe piene degli ultimi flagelli", gridare: "Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell'Agnello" (v. 9).
Le immagini sono davvero esaltanti e riassumono in felice sintesi la storia dell'amore di Dio verso gli uomini. Gerusalemme è la città di Davide, capitale e centro religioso d'Israele, città di Dio, città santa, soprattutto perché in essa era costruito il Tempio. I Profeti l'assumono come simbolo della futura metropoli del popolo messianico. Ai tempi del N. Testamento Cristo consumerà in essa il suo sacrificio, "poiché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme" (Lc 13,33); in essa gli Apostoli riceveranno il dono dello Spirito che li spingerà alla conquista di tutta la terra; a essa farà sempre ritorno Paolo al termine dei suoi viaggi missionari.
Tutto questo era più che sufficiente per farla assumere come "simbolo" anche della consumazione finale della salvezza, che non potrà essere se non una salvezza "comunitaria": la Chiesa della terra è predestinata a diventare la futura Chiesa celeste! Non c'è soluzione di continuità fra le due realtà, tanto che S. Paolo potrà dire che "la nostra cittadinanza è nei cieli" (Fil 3,20).
Non si tratta dunque qui di una localizzazione "geografica", quanto di una "dimensione" dello spirito: già fa parte della Gerusalemme celeste chi è capace di aderire a Cristo con tutta l'intensità del suo amore.
Sì, perché non si diventa cittadini di questa città se non in forza dell'amore. È per questo che la Gerusalemme celeste ci viene presentata anche sotto un altro simbolo: quello della "sposa che si adorna per il suo sposo" (Ap 21,22). È chiaro che siamo nel mondo delle immagini, se si può passare così facilmente dall'una all'altra!
E qui si recupera tutta la meravigliosa tematica dell'allegoria "nuziale", con cui i profeti dell'Antico Testamento avevano inteso rappresentare i rapporti di amore, di benevolenza, di preferenza di Dio verso Israele. In tal modo l'ideale profetico è realizzato: "Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell'amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore" (Os 2,21-22). Soltanto che adesso le nozze non saranno più con Jahvèh ma con l'Agnello (cf v. 9), in quanto "Agnello di Dio" però (cf Gv 1,36): cioè nella espressione massima dell'amore che Dio possa dimostrare all'uomo, dando appunto per lui alla morte "il proprio Figlio" (Rm 8,32). È a questo punto che il rapporto di nuzialità è perfetto: una capacità di donarsi nell'amore, che non si arresta neppure davanti alla morte.
Ecco perché il brano dell'Apocalisse, anche se apparentemente lontano dalla tematica pasquale, ha invece una profonda risonanza pasquale: la "nuzialità" della Chiesa nasce dall'amore senza limiti che le ha dimostrato il suo Signore. Tutte le precedenti esperienze d'Israele erano solo "l'ombra" di quanto Dio avrebbe fatto per noi alla fine dei tempi, "donandoci" Cristo. La Pasqua cristiana è l'esaltazione di questo amore "nuziale", con cui Dio assume gli uomini come suoi partners in un amplesso senza fine.
Di qui anche il senso di gioia e di esultanza che pervade il resto del nostro brano, sul quale però non possiamo ulteriormente intrattenerci: "Udii allora una voce potente che usciva dal trono: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il "Dio con loro". E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate" (vv. 3-4)!

"Vi do un comandamento nuovo"

Però, perché si abbia un vero patto nuziale, l'amore deve circolare dalle due parti. È precisamente a questo che ci richiama il breve, ma ricchissimo brano del Vangelo di Giovanni, ripreso dal racconto dell'ultima Cena.
Dopo la scena drammatica dello svelamento del traditore e la sua fuga dal Cenacolo, "nella notte" (Gv 13,30), Gesù ha come un senso di sollievo che esprime nei seguenti termini: "Ora il Figlio dell'uomo è stato glorificato e anche Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito" (vv. 31-32). È il tema della "gloria" che Giovanni lega, come ben sappiamo, più alla Passione che alla Risurrezione: "Io quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me" (12,32).
Dal momento che Giuda, spinto da Satana, è uscito per mandare a effetto il suo tradimento, Gesù considera il dramma della Passione come già avviato, e perciò adopera il verbo al passato: "Ora il Figlio dell'uomo è stato glorificato..." (13,31). D'altra parte, se la "gloria" che lui dà a Dio è già in atto, quella che il Padre darà a lui, dimostrandogli di aver gradito la sua offerta, deve ancora venire nella Risurrezione. Ecco il perché dei due futuri successivi: "Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito" (v. 32). Gesù non ha dubbi sul gradimento del Padre, e perciò è sicuro che la glorificazione avverrà "subito".
Si apre qui uno squarcio degli insondabili rapporti di amore inesauribile fra il Padre e il Figlio, che è il segno rivelatore della loro unità di natura: "Io e il Padre siamo una cosa sola" (Gv 10,30).
È possibile che qualche cosa di questa "unione" così profonda si riverberi anche sui discepoli di Cristo, in modo che anch'essi siano un segno rivelatore della presenza del Dio-Trinità in loro? È quanto Gesù dichiara immediatamente dopo, dando il "comandamento nuovo" dell'amore, cercando così quasi di prolungare la sua presenza in mezzo agli uomini. Mediante l'amore, tutto "nuovo", dei suoi discepoli, gli uomini scopriranno le orme del suo passaggio nella nostra storia: "Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (vv. 33-35).
Dal contesto è chiaro che qui Gesù lascia ai suoi come un "testamento", che esprime la sua volontà ultima e definitiva: "Ancora per poco sono con voi" (v. 33). E come ogni testamento, soprattutto questo di Gesù è un "dono" gratuito: "Vi do un comandamento nuovo..." (v. 34). In Giovanni, infatti, il verbo greco dídomi (dare) esprime normalmente un dono.
Ma come è possibile che sia dono un "comandamento"? Lo è se esso, più che imporci qualcosa, ci scopre una dimensione del nostro essere, ci fa penetrare più a fondo nel mistero del nostro intimo costitutivo di uomini e di cristiani, strutturati per amarsi appunto come fratelli. Cristo non ci impone qualcosa che venga come dal di fuori, ma ci illumina su quello che siamo e su quello che dobbiamo fare per realizzarci fino in fondo. Non c'è niente di "legalistico" in tutto questo, ma la scoperta del disegno di Dio sopra di noi. Perciò Giovanni non adopera qui il termine nómos (= legge), che è una realtà superata nella prospettiva evangelica, ma entolé, termine caratteristico nella letteratura deuteronomistica, adoperato dalla versione dei Settanta per esprimere la manifestazione della volontà di Dio.

"Come io vi ho amato"

Ma perché Gesù chiama "nuovo" questo comandamento dell'amore fraterno? Anche l'Antico Testamento, infatti, esigeva l'amore verso il prossimo, tanto che Gesù farà proprio quel precetto: "Amerai il prossimo tuo come te stesso" (Lv 19,18 e Mt 22,39), ampliandolo però a tutti gli uomini, ivi inclusi i nemici. Per Giovanni la "novità" consiste soprattutto nel "modo" e nell'intensità con cui questo amore deve venire attuato: "Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri" (v. 34).
Non dimentichiamoci che siamo in un contesto di passione: Gesù si sta ormai avviando a "dare la sua vita in riscatto" per tutti gli uomini (cf Mc 10,45). Perciò rimanda i suoi discepoli a un esempio concreto di amore, capace di introdurre nei rapporti fra gli uomini qualcosa di rivoluzionario, nel senso che un amore del genere deve sempre "rigenerarsi" per non diventare abitudinario.
Amare "come" Gesù ci ha amati significa, infatti, prendere come misura non la piccolezza del nostro cuore, ma la immensità del cuore di Dio; significa entrare costantemente in rottura con la logica dell'egoismo, della chiusura, della prepotenza che è in noi e nella società che noi tutti contribuiamo a creare. Amare "come" Cristo ci ha amati significa metterci noi stessi a "lavare i piedi" ai fratelli, senza pretendere che siano loro a lavarli a noi (cf Gv 13,1-20).
Credo che il lettore avrà facilmente osservato come ci sia un'insistente convergenza sull'aggettivo "nuovo", in questi due brani: "un nuovo cielo e una nuova terra", "la nuova Gerusalemme", "comandamento nuovo", ecc. Questo sta a dire che la "novità" radicale è già venuta, anche se apparirà nella sua pienezza e in tutto il suo splendore solo alla fine.
Perciò tocca ai cristiani di anticipare, fin da ora, la discesa dal cielo della "nuova Gerusalemme", fermentando la Chiesa e la stessa comunità civile di questa potenza "nuova" dell'amore, la sola capace di creare, finché c'è ancora tempo, possibilità concrete di "convivenza" fra gli uomini.

Settimio CIPRIANI
 Fonte:  www.donbosco-torino.it  

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