CIPRIANI SETTIMIO SDB,"Uomini di Galilea,perché state a guardare in cielo?

08 maggio 2016 | 7a Domenica: Ascensione - Anno C | Appunti per la Lectio
"Uomini di Galilea,perché state a guardare in cielo? 
La festa dell'Ascensione non è certo esauribile in un gioco di "traslazione geografica", per cui Gesù
abbandona la terra e viene assunto in cielo, come forse certe espressioni del linguaggio biblico e liturgico potrebbero a prima vista indurci a credere.
Se questo fosse, essa sarebbe più un avvenimento di tristezza che di gioia, come invece tutta la Liturgia mette festosamente in evidenza a incominciare dalla Colletta, fino al Salmo responsoriale (Sal 47,2-3.6-8), al Prefazio. Quest'ultimo, infatti, così canta: "Per questo mistero, nella pienezza della gioia pasquale, l'umanità esulta su tutta la terra". L'umanità non potrebbe "esultare", se Cristo si fosse in qualche maniera "allontanato", salendo al cielo!
La Colletta ribadisce il motivo della gioia, dandone anche la motivazione teologica: "Esulti di santa gioia la tua Chiesa, Signore, per il mistero che celebra in questa Liturgia di lode, poiché in Cristo asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del tuo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere il nostro capo nella gloria". Come si vede, la ragione è duplice: la prima è che, in virtù della legge di solidarietà che lega le membra al capo, anche il "corpo" della nostra umanità è stato sublimato con Cristo nel giorno della sua Ascensione; la seconda è che, di fatto, questa sublimazione si realizza già in questa fase terrena, "nella speranza" però del suo perfezionamento ultimo.
Tutto questo sta a dire che l'Ascensione di Cristo al cielo è solo una immagine spaziale-geografica per esprimere una realtà più profonda: e cioè l'ingresso definitivo del Risorto nella "gloria" del Padre, alla quale ormai anche noi abbiamo "fiducia" di "accesso" nella potenza dello Spirito Santo (cf Ef 3,12; 2,18). Dopo l'Ascensione il "cielo" è più vicino alla "terra", nel senso che ormai i cristiani sono anch'essi immersi nella "gloria" di Dio, che non è più confinata in un luogo, ma riluce dovunque ci sia un credente che porta Cristo nel proprio cuore.

"Avrete forza dallo Spirito che scenderà su di voi e mi sarete testimoni..."

Luca è lo scrittore del N.T. più interessato al mistero dell'Ascensione. Infatti ce ne parla due volte: nella finale del suo Vangelo (24,46-53) e all'inizio degli Atti degli Apostoli, dove riprende il tema, ampliandolo (1,1-11).
Dato il maggior rilievo che ha l'Ascensione nel libro degli Atti, incominciamo da questo racconto.
I primi due versetti riassumono il contenuto del Vangelo di Luca e, nello stesso tempo, lo agganciano a tutta la tematica che egli intende sviluppare nel suo nuovo libro: "Nel mio primo libro ho già trattato, o Teofilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio fino al giorno in cui, dopo aver dato istruzioni agli Apostoli che si era scelti nello Spirito Santo, egli fu assunto in cielo..." (1,1-2).
L'"assunzione" di Cristo al cielo, ad opera del Padre, in realtà non è una conclusione, ma un inizio: l'inizio del tempo dello Spirito, che guiderà gli Apostoli e i credenti di tutti i tempi a rendergli "testimonianza" davanti a tutti gli uomini, "fino agli estremi confini della terra" (v. 8), formando così il nuovo "regno d'Israele" (cf v. 6) che è la Chiesa. Proprio perché segna l'inizio di una storia così grandiosa, di cui Luca nel suo libro ci darà soltanto alcune linee di abbozzo primordiali, l'Ascensione per lui è molto importante: essa non è perciò un addio, ma un "coinvolgimento" più profondo, anche se misterioso, di Cristo nella vita dei credenti.
"Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre, "quella, disse, che voi avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni"" (vv. 3-5).
Il prolungato contatto del Cristo risorto ("quaranta giorni": v. 3) con i suoi Apostoli è inteso a stabilirli nella convinzione che non c'è "frattura" fra l'esperienza che essi hanno avuto di lui prima di Pasqua e quella che stanno avendo adesso; così come non ci sarà frattura con l'esperienza che essi faranno dello Spirito a incominciare dalla Pentecoste "fra non molti giorni" (v. 5), proprio perché è lui che con la sua stessa bocca lo ha loro "promesso" da parte del Padre (v. 4). Di nuovo, si vede anche meglio come l'Ascensione non è un abbandono, ma una "presenza" più intima e corroborante di Cristo ai suoi.
In parte sembra che gli Apostoli questo abbiano intravisto, quando gli chiedono: "Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?" (v. 6).
Più d'uno interpreta questa domanda come espressione di un'attesa messianica ancora terrenistica. A nostro parere essa esprime, invece, qualcosa di più profondo: la convinzione che con il dono dello Spirito siano venuti gli "ultimi" tempi e perciò si instauri davvero il "regno" di Dio.
Cristo nella sua risposta non lo nega, soltanto invita gli apostoli a non perdersi in calcoli da astrologhi perché il "regno" ha da venire proprio anche per la loro opera di annunzio e di "testimonianza" davanti al mondo: "Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra" (vv. 7-8).
Il "regno" non si esaurisce dunque nello spazio limitato di qualche giorno o di qualche anno, ma si coestende a tutta la storia, se è vero che gli Apostoli, e quelli che a loro succederanno, dovranno portare la "testimonianza" evangelica "fino agli estremi confini della terra" (v. 8). E a questo contribuirà precisamente l'Ascensione di Cristo, il quale entra così nella pienezza della sua "potenza" salvifica presso il Padre.
È quanto risulta dal tratto che segue, il quale sembra fotografare gli ultimi momenti dell'esperienza umana del Cristo: "Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: "Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo"" (vv. 9-11).
Effettivamente gli Apostoli avvertono il lento "svanire" di Cristo nell'aria come una separazione; e perciò lo seguono "fissando" il cielo con tristezza e con nostalgia, fino a che i due Angeli, apparsi "in bianche vesti", come già presso la tomba vuota (cf Lc 24,4), non li richiamano alla realtà. E la realtà è che Cristo "tornerà" ancora nella sua gloria come "giudice" ultimo degli uomini e della storia.
Però in questo frattempo gli Apostoli e tutti "coloro che per la loro parola avranno creduto in lui" (cf Gv 17,20) dovranno "testimoniarlo" davanti al mondo. La fede non consuma la storia e neppure ci sottrae alla storia! In fin dei conti, ognuno di noi desidera nel fondo del proprio cuore che il "regno" si maturi proprio nel nostro "tempo": avremmo la vittoria già assicurata! Gli Angeli dell'Ascensione ci rimandano invece alla storia e ci dicono che è proprio lì, in questo campo aperto dove il bene e il male si affrontano, che il regno di Dio si costruisce giorno per giorno anche con la nostra collaborazione.
È quanto ci ricorda il Concilio Vaticano II: "Certo, siamo avvertiti che "niente giova all'uomo se guadagna il mondo intero ma perde se stesso" (cf Lc 9,25). Tuttavia l'attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell'umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo".
L'Ascensione, perciò, più che un invito a evadere dalla terra è un invito ad assumerla come luogo di salvezza, dove già risplende, sia pure parzialmente, la luce dei "cieli nuovi" e della "terra nuova", "nei quali avrà stabile dimora la giustizia" (2 Pt 3,12).

"Mentre li benediceva, si staccò da loro
e fu portato verso il cielo"

Il brano finale del Vangelo di Luca coincide sostanzialmente con il racconto degli Atti, però con alcune peculiarità di notevole interesse teologico.
Prima di tutto, si dà il "contenuto" dell'annunzio che gli Apostoli devono portare e "testimoniare" a "tutte le genti", per comando di Cristo: "Così sta scritto: Il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicate a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto" (Lc 24,46-49).
Il kérigma apostolico abbraccia, dunque, il mistero della passione, morte e risurrezione del Signore con in più l'annunzio del "perdono dei peccati" offerto a "tutti" gli uomini.
Ma dove troveranno la "forza" gli Apostoli per annunziare un messaggio così incredibile e per renderne "testimonianza" anche con la morte, se sarà necessario? Solo nella "potenza" dello Spirito (v. 49) che Cristo, attuando le sue promesse", invierà su di loro "dall'alto" (v. 49) il giorno di Pentecoste. Anche il dono dello Spirito, perciò, è il frutto dell'Ascensione di Cristo al cielo, in quanto presa di possesso definitiva della sua "gloria" e della sua "potenza" salvifica, come abbiamo già detto.
In secondo luogo, è interessante l'atteggiamento "liturgico" di Gesù, che ascende al cielo "benedicente": esso è ricalcato su quello del sommo sacerdote ebraico che penetra nel Santo dei santi (vv. 50-51), mentre l'assemblea, rappresentata qui dai discepoli, si prostra in adorazione e continua la sua lode nel tempio: "Poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio" (vv. 50-52).
La celebrazione liturgica, soprattutto quella eucaristica, abolisce le distanze fra Cristo e i suoi: il cielo e la terra si toccano quando rinnoviamo i gesti "sacramentali" che ci salvano! Cristo asceso al cielo ci è più vicino di quando era in mezzo a noi.

"Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo...
ma nel cielo stesso"

La seconda lettura, ripresa dalla lettera agli Ebrei (9,24-28; 10,19-23), per essere ben compresa va inquadrata nella tematica liturgico-sacerdotale che essa porta avanti con ampia e coerente trattazione.
Volendo esaltare il sacerdozio di Cristo, l'Autore lo mette a confronto con quello dell'Antico Testamento e ne dimostra l'infinita trascendenza. Quello che certi riti, anche solenni, dell'Antico Testamento intendevano significare, ma non riuscivano ad attuare, Cristo l'ha invece realizzato. Così, ad esempio, l'ingresso una volta all'anno nel "Sancta Sanctorum" da parte del sommo sacerdote, in occasione della festa dell'Espiazione, voleva certamente esprimere la riconciliazione di tutto il popolo con Dio e la sua "accessibilità". Ma il fatto di dover ripetere questo rito "ogni anno", non significava pure che in realtà Dio rimaneva sempre l'Impenetrabile, l'Irraggiungibile?
Applicando tutti questi "simboli" liturgici a Cristo, l'Autore intende dimostrare che Cristo mediante il suo "ingresso" nella gloria celeste, dopo il sacrificio della croce, ha aperto "per sempre" e "per tutti" l'accesso a Dio: egli è entrato per primo là dove "tutti", e non solo il sommo sacerdote come nell'Antico Testamento, sono ormai invitati ad entrare.
"Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, allo scopo di presentarsi ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui... E come è stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una volta per tutte allo scopo di togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione col peccato, a coloro che l'aspettano per la loro salvezza" (Eb 9,24-25.27-28).
Le ultime espressioni vogliono dire la "definitività" della morte salvifica di Cristo, che lo ha introdotto "per sempre" nella gloria del "cielo": di là ritornerà solamente per il "giudizio" finale.
I versetti che seguono ribadiscono lo stesso pensiero, ma nello stesso tempo esortano i lettori ad avanzare con "cuore sincero" e con "pienezza di fede" per la "via nuova", che Cristo medesimo ha "inaugurato" nel suo ingresso nella gloria: "Avendo dunque, fratelli, piena fiducia di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne; avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, in pienezza di fede, con il cuore purificato da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura..." (10,19-23).
Il Cristo, che è salito al cielo, ci dà piena garanzia che anche noi potremo ascendere al "santuario" celeste, anche in mezzo alle difficoltà della vita presente, alle tentazioni e alle seduzioni del peccato. L'importante è mantenersi "fedeli" alle promesse del nostro Battesimo ("il corpo lavato in acqua pura": v. 22) ed avere piena fiducia in Gesù, "sacerdote grande sopra la casa di Dio" (v. 21), che anche in cielo intercede "in nostro favore" (9,24).
Con una "via" così luminosa da percorrere, che poi è Cristo stesso che ci trascina dietro di sé, perché dovremmo aver paura? L'Ascensione di Gesù è anche la nostra "ascesa" verso la vita che non tramonta.

Settimio CIPRIANI
  Fonte:  www.donbosco-torino.it

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