CIPRIANI SETTIMIO SDB,"Vieni, Santo Spirito!"

15 maggio 2016 | 8a Domenica di Pasqua: Pentecoste - Anno C | Appunti per la Lectio
"Vieni, Santo Spirito!"
Non è facile presentare la ricchezza del "mistero" della Pentecoste, che non è solo un fatto di ieri, e
perciò irripetibile nella sua "sostanza" come sono tutti i misteri della vita di Cristo, ma è anche e soprattutto l'inizio di una irruzione e di una "presenza" che si continua nella Chiesa di tutti i tempi. La Chiesa vive solo della forza e della "presenza" dello Spirito: insegna, santifica, guida, solo in virtù dello Spirito. Senza l'assistenza dello Spirito la Chiesa non potrebbe neppure celebrare l'Eucaristia, cioè realizzare di nuovo la presenza di Cristo in mezzo a noi!
La Liturgia odierna, pur consapevole della immensità del mistero, si sforza di farci percepire almeno i risultati o, come dire, i "frutti" di questa inabitazione dello Spirito nella comunità dei credenti, un po' a somiglianza di quello che avvenne circa duemila anni fa a Gerusalemme nel giorno della prima Pentecoste cristiana.
È quanto si esprime nella meravigliosa colletta iniziale: "O Padre, che nel mistero della Pentecoste santifichi la tua Chiesa in ogni popolo e nazione, diffondi sino ai confini della terra i doni dello Spirito Santo, e continua oggi, nella comunità dei credenti, i prodigi che hai operato agli inizi della predicazione del Vangelo". Dunque si prega il Padre che "rinnovi" oggi, in qualche maniera, i prodigi che furono realizzati in quegli inizi.

"Furono tutti pieni di Spirito Santo"

E i "prodigi" di quegli inizi sono appunto narrati, sia pure con linguaggio pieno di simbolismi, da S. Luca, all'inizio degli Atti degli Apostoli.
Di questo racconto noi vogliamo raccogliere soltanto alcune sollecitazioni. La prima è data dalla veemenza, come di un ciclone, che si abbatte gagliardo e riempie "tutta la casa dove si trovavano" gli Apostoli (At 2,2). È il simbolo della potenza dello Spirito, a cui niente e nessuno può resistere!
La seconda sollecitazione deriva dal senso di quelle "lingue come di fuoco che si dividevano e si posavano su ciascuno di loro" (2,3): simbolo dell'ardore che invade gli Apostoli, prima timidi e paurosi, adesso invece coraggiosi, e li abilita a "parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi" (2,4). Comunque si debba spiegare il miracolo delle "lingue", il suo significato di fondo è che il Vangelo della salvezza deve esser espresso "in ogni lingua", a tutti gli uomini della terra.
E precisamente questa è la terza sollecitazione che emerge dal testo, il quale sottolinea espressamente la "moltitudine" di persone che in occasione della festa ebraica della Pentecoste si trovavano a Gerusalemme: "Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia... stranieri di Roma..." (2,9-11). Eppure tutti "li udivano annunciare nella propria lingua le grandi opere di Dio" (2,1). È chiaro che la salvezza operata da Cristo è ormai destinata a tutte le genti. Proprio da questo nasce la domanda: dove abbiamo relegato noi cristiani, noi ministri della Chiesa, la responsabilità "missionaria" dell'annuncio del Vangelo a tutti i popoli della terra? È molto probabile che neppure nella nostra casa sappiamo annunciare e testimoniare il Vangelo: e forse neppure nella nostra parrocchia!

"Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore"

Se il racconto del libro degli Atti (2,1-11) ci descrive la discesa dello Spirito nel giorno della Pentecoste, come un evento che rende "visibile" la potenza di Dio in quel piccolo gruppo di credenti in Gesù morto e risorto, e perciò li indica davanti al mondo come la nuova "comunità" dei salvati, il brano del Vangelo di Giovanni (14,15-16.23-26) ci descrive piuttosto gli "effetti" della presenza dello Spirito nel cuore dei cristiani.
Vorrei dire che la lettura evangelica mette in evidenza la "forza" di trasformazione interiore e di illuminazione, che porta con sé questo "ospite dolce dell'anima", come lo invoca la insuperabile "sequenza" liturgica: "Consolator optime, / dulcis hospes animae, / dulce refrigerium.. / O lux beatissima, / reple cordis intima / tuorum fidelium". È tutta l'anima mistica di Giovanni che si esprime nel brano di Vangelo odierno.
Esso è ripreso dal lungo discorso di addio, che Gesù fa dopo l'ultima Cena. Anche per temperare l'amarezza del distacco, egli promette ai suoi Apostoli il dono dello Spirito: "Se mi amate, osserverete i miei comandamenti. Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre" (Gv 14,15-16).
Il termine greco, reso qui con "Consolatore", è il più vago "Paraclito" (paràkletos), che può indicare sia colui che perora una causa (avvocato), sia colui che dà assistenza, rianima, conforta, dona sicurezza. Tutto questo orizzonte concettuale è espresso dal termine "Paraclito", che perciò indica molto di più che "Consolatore".
Quello che è importante, comunque, è che esso continua, in qualche maniera, la funzione stessa di Cristo presso i discepoli: perciò viene chiamato "un altro Consolatore". Tutto questo egli lo farà interiorizzandosi al cuore dei credenti, dando loro soprattutto la forza di penetrare meglio il mistero di Cristo e di attuarne il messaggio in una docilità amorosa. Di qui il riferimento iniziale all'amore: "Se mi amate, osserverete i miei comandamenti" (v. 15).

"Se uno mi ama, osserverà la mia parola"

È solo in forza dello Spirito che il cristiano potrà attuare le rigorose esigenze del Vangelo (si pensi soltanto al Discorso della montagna!), senza sentirle come un "giogo", ma come una manifestazione di "amore".
Questo tema viene ripreso e approfondito nei versetti successivi: "Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato" (vv. 23-24).
Come si vede, il discorso qui si amplia: Gesù non reclama solamente fedeltà ai suoi "comandamenti", ma più in generale alla "parola" in quanto "parola" del Padre. Il cerchio dell'amore allora si allarga: da Cristo arriva fino al Padre che lo ha "mandato", e di cui egli è la "immagine" che lo esprime nella maniera più perfetta. D'altra parte, il Padre, vedendosi amato nel Figlio, sua Parola vivente, non potrà rifiutarsi a coloro che a questa "parola" totalmente si affidano.
Non è facile però avvertire la Parola come "presenza" del Padre e del Figlio in noi, senza la luce dello Spirito che ce la interpreta e ce la fa penetrare fino in fondo.
Infatti, essa non è un messaggio generico, ma contiene delle indicazioni precise per tutte le situazioni sempre cangianti della storia. Solo lo Spirito può aiutarci a vedere le infinite implicanze di questa Parola, senza che essa si stemperi e si vanifichi nella storia medesima, accondiscendendo a tutte le pretese e ai fraintendimenti degli uomini, magari anche teologi e responsabili delle comunità cristiane. Tutti, dal più sprovveduto cristiano al capo visibile della Chiesa, possiamo essere tentati di strumentalizzare la Parola!

"Lo Spirito di verità... vi insegnerà ogni cosa"

Ecco perché Gesù promette di mandare lo Spirito Santo, che è "Spirito di verità" (v. 17): "Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto" (vv. 25-26).
L'"insegnamento" dello Spirito non è qualcosa di autonomo da quello di Cristo, ma una maggiore comprensione del medesimo, un richiamo alla mente e al cuore dei credenti, nelle situazioni più diversificate e imprevedibili, la "Parola" che fa per quel momento. Egli è la "memoria" fedele del passato, di tutto quello che Gesù ha fatto e detto, perché il "presente" della Chiesa e degli uomini riviva in tutta la sua forza esplodente la "Parola", che è stata detta una volta per sempre.
Per conto proprio, Giovanni più di una volta ricorda come lo Spirito ha aiutato gli stessi Apostoli a capire meglio i gesti e i detti di Gesù. Si pensi alla cacciata dei venditori dal tempio (2,17.22), oppure al suo ingresso solenne in Gerusalemme: "Sul momento i suoi discepoli non compresero queste cose, ma quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che questo era stato scritto di lui e questo gli avevano fatto" (12,16).
Ecco perché la Chiesa a tutti i suoi livelli (pastori, teologi e semplici fedeli) ha bisogno di riscoprire la "presenza" dello Spirito, che l'aiuti a interpretare il presente alla luce del passato, per preparare il "futuro": proprio perché "Spirito di verità", egli è anche "Spirito di profezia" (Ap 19,10). Perché allora molte volte la Chiesa è in ritardo sugli eventi e non sa leggere i "segni dei tempi"?
Giustamente perciò la liturgia ci fa oggi pregare: "Manda, Signore, lo Spirito Santo promesso dal tuo Figlio, perché riveli pienamente ai nostri cuori il mistero di questo sacrificio e ci apra alla conoscenza della verità" (Orazione sulle offerte).

"Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio"

Anche la seconda lettura (Rm 8,8-17) ci descrive in maniera mirabile gli "effetti" della presenza dello Spirito nel cuore dell'uomo redento: però in prospettiva più "personale" che comunitaria, a differenza del testo evangelico.
Un primo effetto è quello di trasformare la nostra vita in una vita "secondo lo Spirito", sottraendoci alle voglie della "carne", che sta qui a indicare il principio del mero calcolo utilitaristico, o anche della dimensione esclusivamente umana dell'agire: "Quelli che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio. Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi... Così dunque, fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne; poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l'aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete" (Rm 8,8-9.12-13).
Lo Spirito, secondo tutta la prospettiva biblica, è principio di vita; le "opere della carne", invece, portano alla "morte". Lo Spirito "di santità" non può convivere con il peccato!
Il secondo effetto dello Spirito è quello di costituirci "figli di Dio" in Cristo e di farcene gustare la gioia e la intimità, fino a poter chiamare anche noi Dio con il nome di "Abbà", come lo ha chiamato Gesù nella orazione del Getsemani. Il termine "Abbà", infatti, non vuol dire semplicemente "padre", ma "papà mio", con il senso di infantile abbandono con cui i bambini della Palestina di quel tempo si rivolgevano al loro genitore.
"Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: "Abbà, Padre!" Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze, per partecipare anche alla sua gloria" (vv. 14-17).
In tal modo Dio non è più il Dio "lontano", che ci atterrisce, o di cui ci si può disinteressare: ma è il Dio "vicino" che è coinvolto nella nostra vita, che noi possiamo riamare come lui ci ama, perché ci ha fatto partecipi del "suo" Spirito, che è essenzialmente "Spirito d'amore".

Settimio CIPRIANI
 Fonte:  www.donbosco-torino.it

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