don Marco Pedron"Relazioni vitali che a volte fanno morire"

Relazioni vitali che a volte fanno morire
don Marco Pedron
X Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)
Vangelo: Lc 7,11-17 
Il vangelo di oggi ci presenta un vangelo che troviamo solo in Lc.
Il vangelo è apparentemente semplice: c'è una donna, ha un unico figlio, e questo le muore. Arriva
Gesù e riporta in vita il giovane. Se ci fermiamo qui non ci resta che dire: "Ma che forte Gesù! Se ci fosse oggi sai come ci potrebbe essere di aiuto! Quanti ne salverebbe Gesù!". Se riduciamo la cosa così, Gesù sembra un superman che in forza dei suoi poteri tutto poteva.
Ma se andiamo a leggere il vangelo, scopriamo che non è così. Ha guarito solo alcuni, e solo quelli che volevano. Ha riportato in vita Lazzaro, ma poi è morto. Lui stesso è morto e nulla ha potuto fare.
Osserviamo il vangelo con calma.
Gesù è il primo a guarire morti? No, nell'A.T. anche Elia lo fa. Anche Elia guarisce il figlio di una donna vedova; anche Elia menziona la porta della città. Lì Elia invoca Dio di guarirlo e da questa preghiera la donna capisce che Elia è un uomo di Dio. Qui Gesù non dice nessuna preghiera per guarirlo: se Elia era un uomo di Dio (e lo si vede dal fatto che prega Dio tre volte; 1 Re 17,21), Gesù è Dio perché guarisce in forza della sua stessa forza. Elia deve pregare Dio; Gesù, invece è Dio e quindi non prega Dio.
La cosa si capisce da un particolare: Lc in 7,13 mette appositamente il termine "Signore" e non Gesù: Gesù non è solamente un uomo ma ha qualcosa di divino. E cos'ha di divino Gesù in questo brano? Vedremo!
Dove si trova questo vangelo in Lc? Si trova al capitolo 7 e poco prima (Lc 7,1-10) Gesù guarisce il servo del centurione che stava per morire. Lì "stava per morire", qui addirittura il bambino è morto. Tutto questo ha il suo punto di arrivo nel brano successivo a questo.
Il Battista manda a dire a Gesù: "Sei tu che deve venire o ne deve venire un altro?" (Lc 7,19). E Gesù risponde: "Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito" (Lc 7,22). E cos'hanno visto? Ecco qua cos'hanno visto: un pagano quasi morto che torna a vivere e un figlio morto che torna a vivere.
Sì, Gesù è proprio quello che deve venire: loro possono testimoniare dai suoi segni.
"Gesù si recò in una città chiamata Nain e facevano la strada con lui i discepoli e grande folla" (Lc 7,11).
I discepoli ci devono essere perché devono poi testimoniare al Battista.
La folla ci deve essere perché poi dirà: "Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo" (Lc 7,16), espressione tipica per dire che Dio è presente, è qui in questo uomo.
"Quando fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato al sepolcro un morto" (Lc 7,11)
La sepoltura avveniva alla sera: il morto veniva portato fuori dalla città (questo per ragioni anche igieniche). Il termine soros=cassa indica una cassa chiusa, ma qui dev'essere aperta o dev'essere una barella, com'è nella tipica tradizione giudaica.
E' interessante il simbolismo: la città è un simbolo materno e il bambino ne esce morto (la porta della città). La madre non era riuscita a farlo crescere e a farlo uscire con le sue gambe.
Dev'essere, allora, una relazione simbiotica. La madre non ha una sua vita e questo figlio è la "sua" vita. Ma se il figlio è/dà la vita della madre allora muore/perde la propria vita.
E perché il figlio "ha dato la sua vita" per la madre? Lo capiamo subito.
Lc continua: "Figlio unico di madre vedova" (Lc 7,11).
La condizione della donna è miserevole: una vedova, in Israele non ha diritti e neppure lavoro. L'unico che la può difendere è quel figlio lì; l'unico che le può dare dignità, valore e sostentamento è quel figlio lì.
E' chiaro: quel figlio è "tutto" per lei e le farà da marito e da compagno, dandole quel valore, quella giustizia, quella protezione, che nessun altro le può dare.
Quel figlio è "tutto" per la madre e il figlio è "tutto" per la madre. Non ha una vita sua: lui vive per lei.
Ma non sarà proprio per questo che muore? Muore perché invece di ricevere la vita dalla madre lui la dona a lei. Non può non morire dentro.
Nessun figlio può dare la vita ad un genitore. La vita si dona in avanti e non indietro.
"Molta gente della città era con lei" (Lc 7,11). E' un particolare interessantissimo. Quel "essere con lei" non indica solamente un andare fisico ma un pensare, credere, che ciò sia giusto.
Avranno detto al figlio: "Mi raccomando, sei tutto quello che tua madre ha... sei il bastone della sua vecchiaia... tua madre vive per te... se tu non ci fossi stato lei se ne sarebbe andata...".
L'ambiente rinforza, calca, sottolinea il comportamento della madre e ricompensa il figlio con l'approvazione se lui vive per la madre, se lui dà la vita per lei.
E se l'ambiente rinforza ciò che la madre fa ("va con lei") allora diventa impossibile ribellarsi a quello che sembra verità, "vangelo", comportamento ovvio da seguire.
Adesso arriva Gesù. Osserviamo quello che fa. "Vedendola ne ebbe compassione" (Lc 7,12).
Dobbiamo osservare un particolare molto importante: Gesù ha compassione non del figlio ma della madre (è lei che ha bisogno d'amore, di compassione, di cura; è lei che dovrà guarire).
Quindi ciò che Gesù farà, lo farà per lei e non per il figlio. I suoi gesti sono per lei. Il figlio guarirà perché la madre opererà dei mutamenti, dei cambiamenti, delle trasformazioni.
Gesù prima di tutto "vede": la misericordia, la tenerezza, il sentimento d'amore che gli nasce dentro, nasce perché "vede". Ma vede non perché ha gli occhi, ma perché si lascia "toccare, colpire" da ciò che gli occhi vedono. Gesù non solo guarda ma vede. Gesù è attento, consapevole.
Noi spesso guardiamo (cioè i nostri occhi registrano ciò che c'è davanti) ma non vediamo: l'immagine si ferma alla nostra retina ma non arriva nel nostro cuore. Per questo non facciamo nulla: sono, infatti, le emozioni (=e-movere=motivazioni ad agire) che ci mettono in movimento.
Gesù non ha paura di essere "scombussolato dentro", di lasciare che quello che vede lo "s-muova" dentro. Gesù si "lascia toccare" e non "ri-muove" l'e-mozione. E' questo che poi lo porta ad agire.
La forza di Gesù è nel suo sentire, nei sentimenti che egli vive.
L'espressione "vide e ne ebbe compassione" la troviamo in brani molto interessanti.
Lc 7,13: "Gesù vede (orao) e ne ha compassione (splanchnizomai)". E' questo sentimento che mette in movimento Gesù, non rimanendo spettatore rassegnato come la folla, ma avvicinandosi al corteo funebre e toccando la bara.
Lc 10,33: "Il Buon Samaritano (rappresentante di Gesù) vede (orao) e ne ha compassione (splanchnizomai"): è questo sentimento che lo mette in movimento e invece di tirare dritto come gli altri due, il sacerdote e il levita, lui si ferma a curare il mezzo morto.
Lc 15,20: "Il Padre (altro rappresentante di Gesù) vede (orao) il figlio prodigo tornare e ne ha compassione (splanchnizomai)": è questo sentimento che lo mette in movimento, per cui gli corre incontro.
Allora: tutti e tre i brani sono solo di Lc (gli altri vangeli non li hanno).
In tutti e tre i brani la sequenza è la stessa:
1. Vedere (orao): non guardare ma penetrare, prestare attenzione a ciò che si vede. Vedere è il contrario di negare, di non vedere, di far finta di nulla, di essere superficiali, di scappare, di "raccontarsela".
2. Sentire di pancia (splanchnon=viscere di madre; l'utero), essere toccati da ciò che si è visto. Ciò che vedo produce un'emozione intensa, forte, potente, che non ti lascia indifferente.
Con il figlio di Nain c'è il dolore lancinante e lacerante, tremendo della morte, dell'angoscia e della situazione, sia del figlio che della madre.
Anche la folla avrà provato qualcosa ma forse non si è lasciata toccare così in profondità.
Nella parabola del buon samaritano, c'è il dolore di vedere un uomo che sta per morire.
Nel caso del levita e del sacerdote, le loro regole hanno "ucciso" l'emozione: non ci si può fermare, non si può contaminarsi, non si può rischiare di diventare impuri. La regola, il giudizio, la paura, uccide l'emozione. Non fanno nulla perché "non sentono", non provano nulla. Chi non prova nulla ("i duri") può fare di tutto.
Nel padre che vede il figlio tornare c'è l'emozione intensa, incredibile, impensata ("lacrime di gioia") del miracolo del figlio che ritorna.
Il maggiore non prova nessuna emozione d'amore: lui prova solo collera ("tuo figlio": era suo fratello!; "con le prostitute": e come lo sapeva lui?), lui ha solo rabbia, odio dentro e per questo giudica (il giudizio nasce sempre dall'odio e dal rancore). Per questo non può gioire.
In ogni caso, in tutti e tre i brani decisivo è l'intensità dell'emozione.
3 Agire: ciò che si è sentito produce dei movimenti, delle azioni, dei comportamenti.
Per Lc questo è un agire divino: vedere e provare compassione.
Ciò che un uomo fa è conseguenza di quello che egli prova. Allora dobbiamo imparare a "sentire" le nostre emozioni, a sentirle con tutta la loro intensità, ad imparare a gestirle, a non aver paura se un po' ci scombussolano, a indirizzarle.
Perché le tue azioni sono il frutto del tuo cuore (Lc 6,43: "La bocca parla dalla pienezza del cuore").
Cosa fa Gesù? Tutta una serie di azioni.
"Non piangere" (Lc 7,14). Perché la madre piange? Ovvio: piange per il dolore della separazione.
Noi sappiamo che il pianto è una richiesta di aiuto: allora il suo pianto è chiedere qualcosa, un po' come fanno i bambini che, poiché non sanno soddisfare il proprio bisogno, piangono.
Ma possiamo anche farci un'altra domanda: è il pianto di una donna o di una bambina?
Non è che nella sua situazione, questa vedova pianga la sua condizione: "E adesso? Che ne sarà di me? E chi ci penserà a me? Cosa farò senza di lui? Lui era tutto, tutta la mia vita: e ora?".
Forse non sono le lacrime di un addio ma le lacrime di chi lo vorrebbe ancora tenere legato a sé.
Allora Gesù le dice: "Smettila di fare la bambina! Smettila di pensare a te solamente attraverso di lui. Tu non puoi dipendere solo da lui!".
"E accostatosi" (Lc 7,14): intanto si avvicina alla situazione. Le cose "grosse" vanno prese un po' alla volta.
"Toccò la bara" (Lc 7,14): bisogna toccare ciò che è morto, ciò che non può più sussistere, ciò che non è più vitale. Bisogna toccare, cioè mettere mano a tutti quei comportamenti che ci distruggono, che ci imprigionano, che si soffocano, che ci ingabbiano. Anche se non è bello.
Facendo questo Gesù entra là dove la vedova non vuole entrare: questo figlio è "suo" e invece dovrà imparare che questo figlio non è suo e deve andare nella vita con le sue gambe.
Al figlio dice: "Neaniske (da neos=nuovo)=giovinetto" (Lc 7,14): c'è un comportamento nuovo da imparare, c'è un passaggio da fare. Non si può fare come prima: perché fare come prima vuol dire morire.
"Alzati (egheiro=risorgere, svegliarsi, destarsi)" (Lc 7,14), cioè "svegliati, esci dall'illusione". Tu vivi in funzione di tua madre, sei ancora legato a lei.
Alzati vuol dire: "Levati in piedi" (era disteso), cammina con le tue gambe e smettila di farti portare dai portatori, cioè smettila di farti dire dagli altri (madre e ambiente) che cosa sei, che cosa devi fare, come devi comportarti, cosa devi pensare, cosa è giusto e cosa no, ecc.
Diventa grande, prendi in mano la tua vita, muoviti sulle tue gambe.
E il ragazzino si "mette seduto" (Lc 7,15), cioè non è ancora pronto ma inizia.
E "cominciò a parlare" (Lc 7,15): adesso parla! Quindi prima non parlava. Ma chi è che lo zittiva? E' chiaro, la madre (c'era solo lei!): "Guarda quanto lavoro per mandarti a scuola... non vedi che sacrifici che faccio... non uscire stasera perché mi sento sola... quando avrai la mia età, capirai...".
C'erano sempre i suoi pensieri, i suoi problemi, prima di quelli del figlio. L'attenzione era tutta su di lei: il figlio non aveva "voce", spazio. Tutto veniva visto in funzione della madre, dei suoi bisogni e delle sue paure.
Ma adesso c'è anche lui: anche lui ha i suoi desideri, le sue passioni, i suoi gusti, i suoi punti di vista. C'è anche lui adesso e lo dice: "Non ci sei solo tu, con il tuo male e i tuoi problemi".
Perché se un figlio pensa alla madre non pensa a sé.
Su di un compito di italiano un ragazzo ha scritto: "Mia madre è sempre malata. Lei pensa sempre alle sue "rogne". Il papà pensa sempre a lei. La nonna pensa a lei. Il nonno pensa a lei. Anch'io penso a lei perché sta tanto male e cerco così di comportarmi bene. Ma a me, chi ci pensa?".
Poi Gesù "lo da alla madre" (Lc 7,15): adesso Gesù gli dà un figlio vivo e non uno morto. Ma perché questo figlio adesso è vivo mentre prima era morto? Cos'è che fa di diverso ora che prima non faceva?
Si è alzato, cammina sulle sue gambe (sta imparando perché per adesso è solamente seduto): non è più, cioè, un bambino "mangiato, ingoiato" da sua madre, ma un piccolo uomo che sta iniziando a pensare con la sua testa, a scegliere con la sua mente e a vivere in funzione di sé e dei propri desideri, non di sua madre.
Questo figlio che torna alla madre non è più quello di prima: è un altro. La madre non lo perde (ce l'ha ancora) ma "lo perde": il rapporto non sarà più quello di prima.
Se non sappiamo "perdere", cioè lasciar andare i nostri figli, li perderemo (rovineremo loro la vita).
Come Maria che ha dovuto "perdere Gesù" per averlo (perché Gesù fosse Gesù e seguisse quindi fino in fondo la sua missione; cfr Lc 2,41-50).
In questo meraviglioso vangelo noi ci possiamo identificare in tanti modi.
Io posso essere l'adolescente (neaniske) o il genitore di questo vangelo.
Oppure posso vedere una delle tante famiglie separate di oggi madre-figlio. Cosa succede? Cosa può capitare? Come si può morire? Cosa fa vivere le persone?
Oppure una famiglia dove il padre è morto o assente o non c'è. Cosa succede?
Nell'adolescenza il ragazzo deve trovare la propria identità di genere: lui è maschio, lei è femmina. Da piccoli si è bambini, ma quando si cresce il fatto di essere di due generi diversi assume un ruolo fondamentale. A questo mondo io sono secondo la mia modalità: o maschio o femmina.
Innanzitutto si tratta di accettare il mio essere fisico: il mio è un corpo da maschio o un corpo da femmina. Già accettare di avere un corpo è complesso: il corpo ha le sue esigenze ed è visibile agli altri.
Quando guardo il mio corpo non posso non confrontarmi con quello degli altri: se il mio è più bello o più brutto, più atletico o meno, più seducente o meno, più alto o più basso, più grosso o più snello, se il mio viso è più carino o meno, pieno di brufoli o senza, non è la stessa cosa.
Perché quel corpo sono io e nel confronto con il mondo a volte mi ritrovo brutto, meno degli altri, escluso dagli amici, non guardato dall'altro sesso, con la paura che nessuno mi voglia o di esser escluso.
Essere maschi, poi, vuol dire avere forza, avere energia, essere prestanti, farsi valere: ma il mio corpo è così? Gli altri, e soprattutto le "altre", mi vogliono attraverso il mio corpo: mi vorranno? Andrà bene questo corpo, cioè, andrò bene io?
Essere femmine vuol dire avere un corpo appetibile, bello, formoso, snello, piacevole, seducente. Gli altri, e soprattutto gli "altri", mi vogliono attraverso il mio corpo: mi vorranno? Andrà bene questo corpo, cioè, andrò bene io?
Sono fantasmi, insicurezze, a volte mostri e drammi, che si consumano nei cuori e nelle teste di tutti gli adolescenti.
Il nostro primo modello è stata nostra madre. Lei era il nostro "Dio" e abbiamo guardato a lei per essere noi stessi.
Da questo punto di vista essere maschi o essere femmine non è la stessa cosa. La femmina ha il grande vantaggio che può diventare come lei. Ma il maschietto non è femmina come la madre: quindi la "deve" rifiutare per identificarsi con il padre che è maschio come lui. Sappiamo poi che per un maschietto non solo è importante la figura del padre con cui identificarsi (entrambi maschi) ma anche la figura della madre. Infatti fino ad una certa età il bambino vede il padre con gli occhi della madre (che è la sua figura di riferimento).
Ma cosa succede se la madre dice: "Tuo padre pensa solo al lavoro, non c'è mai per me". Oppure: "Gli uomini ti fanno solo soffrire"; "Se tornassi indietro non lo vorrei più tuo padre", ecc.
Che immagine avrà di uomo? Non avrà l'idea che l'uomo si disinteressa delle donne e le fa solo soffrire? Vorrà essere uomo, un bambino così? Vorrà cioè diventare maschio se per lui diventare maschio vuol dire far soffrire "la mamma" (come suo papà) e tutte le altre donne ("mamme seconde")? O non sarà molto difficile (già lo è quando va bene) per lui diventare maschio?
Perché un maschio diventi "maschio" dev'esserci un padre, modello positivo di maschilità e una madre che ama "il maschile" e che lo sente come un valore e una bellezza.
Immaginiamoci un bambino: lui ama la mamma (il femminile) e lui ama il papà (il maschile). Ma cosa succede se la mamma non ama il papà? Cosa succede se la mamma disprezza o critica il papà?
Il bambino si trova di fronte ad un bivio: o sto dalla parte della mamma (e perdo il papà) o sto con il papà (ma perdo la mamma). In genere sceglie la prima (è troppo importante la mamma-rifugio, base sicura, nido e tana). In ogni caso qualunque scelta è tremenda: perché o perde l'amore (mamma) o perde la propria identità (papà).
La Dolto rispose così ad una donna che si lamentava che suo figlio era troppo femminile: "Tuo figlio vede suo padre attraverso i tuoi occhi. Lui ama ciò che ami tu e lui odia ciò che odi tu".
Un uomo oggi è totalmente remissivo e in preda di sua moglie che dispone di lui a suo piacimento in maniera molto narcisistica: "Luigi, fai questo... così non va bene... Luigi fai quello... ti ho detto di no... non capisci... non sai mai capire di che cosa ho bisogno... dovresti essere più attento a me...".
La sua storia, in breve, è questa: sua madre istigava il marito dicendogli che era un buono a nulla, che non portava a casa i soldi per mandare avanti la famiglia, che la trascurava, che non sapeva prendersi cura dei suoi figli e che "neanche là era bravo". Ora l'uomo non era affatto così: era un buon uomo, operaio, faceva un secondo lavoro, quindi sì, sempre assente, ma che si faceva in quattro per la sua famiglia. Quando lei lo istigava, lui ad un certo punto "scattava", urlava, alzava la voce e per non "menare qualcuno" se ne andava fuori. La madre approfittava di quelle situazioni per dire a suo figlio: "Vedi come sono gli uomini, sono tutti uguali, non sono proprio capaci di amare".
Così facendo la madre aveva il figlio dalla sua parte. Il figlio infatti le diceva: "Non ti preoccupare mamma, ci sono io per te. Il papà è cattivo, ma ci sono io mamma qui con te". La madre era felice e il bambino si sentiva "importante", il "maritino" della mamma.
Ma intanto cosa succedeva nella psiche di quel bambino? Succedeva che l'immagine di maschio veniva distrutta. Essere maschi, per lui, era uguale a far soffrire la madre e le femmine. Il maschio ti fa soffrire. Il maschio è un "bruto" che non prova emozioni.
E quando fu tempo di diventare "uomo", rifiutando l'immagine maschile non lo divenne mai. E rimase sempre un "servetto", un "mezzo uomo", mai in grado di assumere la forza e i valori dell'essere maschio.
E quando il padre è assente? E quando il padre è morto? O quando il padre è separato dalla madre e dal figlio? O quando la madre "non vuole farlo vedere" al padre?
Un bambino maschio ad un certo punto deve dire a sua madre: "No, mamma io non sono come te. Tu sei mia madre, ma tu sei una femmina e io sono un maschio".
Questo è un grande dolore per ogni madre. Soprattutto lo è se la madre non è capace di capire che suo figlio non sta rifiutando lei ma "il femminile". Del suo amore ha ancora bisogno, solo che adesso deve riappropriarsi della propria identità. Perché se non capisce questo, ne farà una questione personale e smetterà di dargli anche quell'amore, quell'approvazione, quell'accettazione di cui ha ancora bisogno, pur rifiutandola sotto alcuni aspetti.
Ma se il padre non c'è, il grande pericolo è che il bambino non possa dire: "No, mamma io non sono come te". Il grande pericolo è che il maschio rimanga "femmina o femminile".
E quando non c'è un modello maschile? Quando il padre c'è ma non è presente? Quando il padre non sa dare il "suo dono" di valori, di energia maschile, di decisione affettiva, di libertà da conquistare, di trasgressione da gestire, di aggressività da dominare? Quando il padre è troppo debole o remissivo o non sa imporsi o non sa porre limiti, dire dei no e motivarli o è un maschio frustrato e deluso, cosa farà il figlio? A chi guarderà?
Se non può guardare a suo padre, se suo padre non diventa il suo "idolo", il suo "mito", il suo riferimento con cui identificarsi, guarderà fuori e prenderà i caratteri stereotipati, caricaturali, di maschio della società (il macho; l'uomo depilato; il ricco che può permettersi tutto; il calciatore).
Se va bene e trova un buon insegnante o un buon allenatore, un buon maestro di arti marziali, un buon animatore, allora potrà fare una discreta identificazione con lui e "assumere" da lui la maschilità.
Nelle culture antiche ad un certo momento i ragazzi venivano presi dai padri e portati nella foresta a confrontarsi con i pericoli e gli animali. Era un'esperienza difficile, pericolosa e tremenda. Ma perché? Perché il maschio aveva bisogno di "tirare fuori" il suo coraggio, il suo ardore, la sua libertà, la sua forza. E' per questo che una madre non basta per suo figlio: può dargli l'amore (e questo è tantissimo) ma non la forza del maschio (non perché è cattiva: perché non ce l'ha!).
Un maschio che non è stato "riempito" dai valori maschili, che non ha fatto suoi i valori del genere maschile, rimarrà sempre con questo vuoto e con questa insicurezza dentro.
C'è un uomo che si è sposato con una bellissima ragazza dell'Est, bionda, occhi azzurri e molto buona. Sembra tutto ok ma non lo è. Lui si sente insicuro e indeciso come uomo ("Ho la forza di un uomo? Sono piacevole? Sono appetibile?") e così ha scelto una ragazza dell'Est, remissiva, docile, perché "è più facile" essere accettati da una così. Ha trovato una donna ma non ha risolto la sua insicurezza. Stare con una più debole lo fa sentire più forte ma non maschio.
Un altro uomo ha vissuto con la madre separata. La madre gli impediva di vedere il padre, perché "non sapeva proprio farci col figlio". In realtà era: "Questo figlio è mio e non te lo do" (un figlio in realtà è invece sempre "nostro" mai "mio"). Il figlio doveva prendersi cura della madre, ascoltarla nei momenti tristi e consolarla quando piangeva; in vacanza andavano loro due e anche a fare la spesa. Erano un po' marito e moglie. Il figlio ha dato, ha dato, ha dato. Ma non ha ricevuto nulla di maschile. Adesso il ragazzino è adulto: è un uomo avido, che chiede, pretende. Lui le donne "le spreme", "se le mangia" (è un gran bell'uomo, molto affascinante e seducente). Lui non dà nulla: prende solo e così le sfrutta. Ma anche con gli altri è così: è invidioso, competitivo, cerca di raggiungere un posto sempre più alto, sempre più importante. Cosa sta facendo? E' nella richiesta, nell'impresa impossibile di avere dal mondo ciò che sua madre gli ha impedito di avere da suo padre: la vera forza del maschio.
C'è il famoso proverbio: "Ogni mattina in Africa, quando sorge il sole, una gazzella si sveglia e sa che dovrà correre più del leone o verrà uccisa. Ogni mattina in Africa, quando sorge il sole, un leone si sveglia e sa che dovrà correre più della gazzella, o morirà di fame. Ogni mattina in Africa non importa che tu sia un leone o una gazzella, l'importante è che cominci a correre".
In ogni caso, che io sia "la donna" o il "giovane" il comando è lo stesso: "Alzati", muoviti e smettila di piangere.
Pensiero della Settimana
Dopo un po' impari la sottile differenza
tra tenere la mano e incatenare un'anima.
E impari che l'amore non è appoggiarsi a qualcuno
e che la compagnia non è sicurezza.
E inizi ad imparare che i baci non sono contratti
e i doni non sono promesse.
E incominci ad accettare le tue sconfitte a testa alta con gli occhi aperti; con la grazia di un adulto e non con il dolore di un bambino.
E impari a costruire le tue strade oggi perché il terreno di domani è troppo incerto per fare piani.
Dopo un po' impari che il sole scotta se ne prendi troppo.
Perciò pianti il tuo giardino e decori la tua anima,
invece di aspettare che qualcuno ti porti i fiori.
E impari che puoi aver pazienza con te, molta pazienza.
E impari che puoi trasformarti
e che puoi essere domani ciò che oggi non sei.
E impari che sei davvero forte e che vali. Davvero. Tanto. Molto.

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