Mons. Luigi Benigno Papa"Gesù, Signore della vita"

LITURGIA DELLA PAROLA
a cura di Sua Ecc.za Mons. Luigi Benigno Papa
DECIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
1Re 17,17-24; Gal 1,11-19; Lc 7,11-17
1. La ripresa del tempo liturgico ordinario ci pone di fronte a una problematica profondamente umana
di cui facciamo tutti ogni giorno esperienza: quella della morte. La volontà di vivere e di rimanere in vita quanto più a lungo possibile, il desiderio di vita che è radicato nel cuore di ogni uomo si infrangono di fronte al potere della morte, di quella provocata dagli uomini, amici del terrore o della guerra, e di quella che ineluttabilmente arriva nella vita di ogni uomo e alla quale nessun vivente può sfuggire. Solo Colui che con la sua morte ha vinto la morte può dire una parola e può dare una risposta al dramma del dolore che provoca la morte.
La liturgia della parola, con le tre letture bibliche, trova la sua sintesi nella fede in Gesù, Signore della vita, che noi professiamo nella celebrazione eucaristica di ogni domenica, Pasqua della settimana. Con il dono della sua vita offerta in sacrificio, Gesù ha sconfitto la causa della morte, il peccato, e perciò è l’unico capace di vincere la morte e di donare la vita. Non soltanto quella che è un semplice ritorno alla vita intramondana nella condizione di mortalità in cui si era prima, come nel caso del figlio della vedova di Zarepta, della vedova di Nain e di Lazzaro, ma anche il dono di una vita nuova nella fede che è un’autentica “risurrezione” come, in maniera eccezionale, è accaduto a Saulo sulla via di Damasco e come avviene in ogni battezzato rigenerato nella vita di figlio di Dio, partecipe della sua vita nel tempo e coerede della gloria divina al di là della morte fisica.
Al di fuori del tempo pasquale mai come in questa domenica la liturgia della parola e la liturgia eucaristica sono tematicamente unite nell’affermazione della vittoria della vita sulla morte.
L’episodio di Elia che ridona la vita al figlio della vedova di Zarepta (prima lettura), è una prefigurazione profetica della risurrezione del figlio della vedova di Nain, che non a caso è stato interpretato come segno messianico di Gesù (Lc 7,22). Ma la risurrezione del “figlio unico” di Nain (Vangelo) è profezia della risurrezione del “Figlio Unigenito Gesù”, primogenito della nuova creazione che è causa di quella autentica risurrezione spirituale che è avvenuta in Saulo che, da feroce persecutore della Chiesa di Dio, è diventato il più grande apostolo del Figlio di Dio incontrato sulla via di Damasco e che gli ha cambiato radicalmente la vita (seconda lettura).
2. L’episodio raccontato nella prima lettura è ambientato in Zarepta, una città collocata a quindici chilometri a sud di Sidone in un territorio pagano confinante con il regno di Israele. Elia si trova in quella città per esplicito comando di Jahwè ed è ospite nella casa di una vedova che aveva mostrato una grande generosità nei confronti del profeta, al quale aveva garantito vitto e alloggio pur essendo in una situazione di carestia a causa della siccità. Il figlio della vedova si ammala gravemente e muore. La donna, avendo compreso che Elia è un uomo di Dio, sente la propria indegnità al suo cospetto e interpreta la morte del proprio figlio come una punizione. Il profeta invece reagisce con una preghiera di intercessione nella quale si riflette il dramma della madre e dell’uomo di Dio coinvolto nel suo destino: “Signore, mio Dio, forse farei del male a questa vedova che mi ospita tanto da farle morire il figlio?”. È l’interrogativo che si pone ogni persona onesta che si ritiene ingiustamente colpita da Dio. Elia, la cui missione era quella di affermare in un contesto culturale caratterizzato dal culto diffuso di Baal, il potere di Jahwè non solo nella storia ma anche nella natura e persino nella vita e nella morte, chiede al Signore di intervenire e ridare la vita al figlio morto. La risposta di Jahwè è immediata, molto simile a un atto di obbedienza. Il racconto termina con la parola della madre, una adoratrice di Baal che confessa il potere di Jahwè e riconosce Elia come un suo vero profeta.
Questo evento che appartiene “ai fioretti” di Elia ci è stato tramandato per uno scopo didattico: nello sfondo polemico contro i culti naturalistici che minacciavano la fede di Jahwè, Elia personifica la difesa della fede in Jahwè: non Baal, ma Jahwè è il Signore della vita e della morte che ha il potere di far morire e di restituire la vita (2Sam 2,6; Dt 32,39). La confessione di fede espressa dalla vedova dopo aver riabbracciato il figlio “risuscitato” fa di lei la primizia dei pagani venuti alla fede. Nel discorso programmatico che Luca mette sulle labbra di Gesù all’inizio del ministero in Galilea, vive ricordata questa donna come rappresentante tipica del mondo pagano che “in anteprima” si apre all’ascolto della parola di Dio. Benché il racconto conservi un sapore arcaico e possa evocare certi riti magici, appare chiaramente che la risurrezione è dovuta all’intervento di Dio implorato dalla preghiera di Elia. Anche la risurrezione di Lazzaro operata da Gesù è preceduta da una preghiera (Gv 11,41-42). La risurrezione della vedova di Zarepta è una prefigurazione della risurrezione del figlio della vedova di Nain  e delle altre due risurrezioni del Nuovo Testamento (Gv 11,41-43; Mc 5,41) e tutte sono un annuncio della risurrezione di Gesù che nel battesimo rigenera i credenti in lui a una vita nuova ed è fondamento e garanzia della risurrezione finale di tutti i credenti: “Se lo Spirito di Colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, Colui che ha risuscitato dai morti Cristo Gesù, renderà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo dello Spirito che abita in voi” (Rm 8,11).
3. Il brano evangelico ha un significato epifanico perché rivela che Gesù è il volto della misericordia del Padre, venuto al mondo per evangelizzare i poveri, guarire gli infermi, consolare gli afflitti e, di sua iniziativa e senza alcuna richiesta previa, dona la vita ai morti. Egli che nel discorso ufficiale rivolto ai Dodici, alla folla dei discepoli e a quanti erano venuti non solo dalla Palestina ma anche dal mondo pagano aveva detto: “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36), dona l’esempio di come si debba avere compassione nei confronti di quanti sono nella sofferenza. Nel figlio unico della vedova di Nain recato alla “porta della città” e risorto c’è un’allusione a Gesù “Figlio Unigenito” che fuori dalla vigna fu ucciso e poi è risuscitato.
Nel suo cammino verso Gerusalemme (Lc 9,51; 13,22), sulle strade del suo popolo, verso il quale ha sempre gesti e parole di amore, Gesù alle porte della città di Nain si imbatte in una situazione tragica: un morto, figlio unico di una madre vedova, veniva portato al sepolcro. Per la donna, rimasta già senza il suo sposo, con la morte del figlio che era l’unico legame con la vita e sicurezza della vecchiaia, la situazione è davvero disperata.
Senza essere sollecitato da qualcuno, Gesù come buon samaritano prende l’iniziativa. Egli rivolge anzitutto il suo sguardo misericordioso verso la madre, e la tenerezza da lui sempre manifestata verso i poveri e i sofferenti, qui si fa “compassione”: “Vedendola il Signore ne ebbe compassione”. Gesù reagisce di fronte al dolore della vedova come il buon samaritano (Lc 10,33) e come il Padre misericordioso della parabola del figlio ritrovato (Lc 15,20). Si tratta nei tre casi sempre dello stesso verbo che esprime l’amore viscerale del Padre misericordioso che si commuove per la condizione disperata del popolo di Israele, suo figlio: “Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (Os 11,18). Dopo il Vangelo dell’infanzia è la prima volta che Luca parla di Gesù come “Signore”, con un titolo che rivela la natura trascendente che rivela la sua natura messianica. Gesù, che con la sua morte ha vinto la morte, è il Signore della vita, e come tale ha il potere di cambiare il destino delle persone. Per questo motivo può dire alla madre: “Non piangere”. Sulla bocca di un uomo quest’espressione non avrebbe avuto senso, anzi sarebbe stata offensiva. Solo Gesù, che è il Signore della vita può rivolgere a una donna priva dello sposo e anche dell’unico figlio una simile parola di consolazione perché Egli sa che non si tratta di una parola vuota ma di una parola di consolazione che coincide con il dono della vita del figlio. Toccando la bara fa fermare il corteo funebre e rivolgendosi al morto dice: “Giovinetto, dico a te, alzati”. Non è un gesto magico ma è la parola di Gesù Signore che ha il potere di dare la vita a chi è morto. Il successo è immediato perché il giovane si sedette e incominciò a parlare e Gesù “lo diede alla madre”. Quest’ultima affermazione è identica a quella che troviamo nel libro dei Re al racconto della risurrezione del figlio della vedova di Zarepta e anticipa il giudizio del popolo: “Un grande profeta è sorto tra noi”. Ma Gesù è più che un grande profeta, i discepoli di Emmaus lo ritenevano tale, ma erano poi rimasti delusi alla sua morte. Proprio per completare la giusta interpretazione del segno compiuto da Gesù, l’evangelista aggiunge che Dio “ha visitato il suo popolo”. Tale visita ha una valenza salvifica perché è una visita fatta non per un giudizio di condanna ma per la salvezza, una valenza ecclesiologica perché quanto accaduto riguarda tutto il popolo perché e i discepoli che sono con Gesù devono imparare dal loro Maestro e Signore come essere una comunità cristiana misericordiosa, e una valenza cristologica perché ciò che Gesù compie corrisponde alla volontà del Padre, ed è opera stessa di Dio.
4. Il racconto della vocazione e missione di Paolo nella seconda lettura è la riprova del potere che il Signore glorificato ha di operare una “risurrezione spirituale” che nelle sue conseguenze appare molto più feconda del semplice ritorno alla vita fisica di prima. Saulo conduceva un’esistenza che, con grande zelo era tutta impegnata alla custodia gelosa della “tradizione dei padri” e perciò perseguitava la Chiesa di Dio ma l’intervento del Signore risorto sulla via di Damasco lo ha trasformato profondamente a tal punto che egli è diventato apostolo di un Vangelo non ricevuto da alcuna tradizione umana ma soltanto per “rivelazione di Gesù Cristo” e, per l’esercizio di questa missione egli come Geremia e il servo di Jahwè era stato scelto da Dio fin dal seno di sua madre. Nella prima lettera a Timoteo, Paolo evoca quell’evento: “Io ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. (1, 13,14).

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