padre Gian Franco Scarpitta" Cercare il Dio vivente"

Cercare il Dio vivente
padre Gian Franco Scarpitta  
X Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (05/06/2016)
Vangelo: Lc 7,11-17 
Per coloro che non coltivano un Credo religioso (ma a dire il vero anche per i credenti) la morte
costituisce un interrogativo inquietante, un atroce dubbio o problema irrisolto. Forse non perché si tema di morire, ma perché non si sa attribuire un senso alla morte, una spiegazione o comunque non si sa come accattivarsela e rendersela amica. Seneca diceva che "noi non temiamo la morte, ma il pensiero della morte" e in effetti ciò che spaventa del trapasso è l'arcano, il mistero recato dall'umanità alla presenza del cadavere di un caro estinto. Il morire in se stesso non comporta paura o difficoltà per coloro che lo subiscono, ma piuttosto l'assillo di dover morire, la preoccupazione e l'angoscia di ciò che lasceremo. Oppure l'ansia dell'imprevisto e dell'interrogativo su ciò che verrà "dopo". Che cos'è la morte per un credente? Un pensiero del Cardinale Martini individua in essa una sorta di necessità inequivocabile: "senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di fiducia in Dio; la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio". Infatti solo la fede può estinguere il tormento di cui sopra, relativo all'imprevisto e alla paura del dopo. Il morire del cristiano è un incontrare Dio per vivere un rapporto di reciproca comunione con lui, che si fondi sulla fiducia e sull'abbandono. Quanto alla nostra vita presente, tutto è relativo e provvisorio e "passa la scena di questo mondo". Occorre vivere come se ogni giorno fosse l'ultimo e imparare come se si dovesse vivere per sempre il che equivale a non sprecare un attimo del nostro tempo e vivere intensamente il presente, che è tutto ciò di cui disponiamo. Quanto alla fine del tempo presente, essa va invece concepita come una dimensione di mutua confidenza e amicizia con Dio. Quel Dio che saremo riusciti a intravedere nella fede nel corso del presente, tale e quale lo incontreremo al termine della nostra vita mortale. La morte è quindi un'opportunità per ravvivare in noi la speranza della vita eterna e per cercare le cose di lassù (Col 3, 1 - 2) mentre sgomitiamo in questa lunghissima valle di lacrime. Paolo afferma che per lui il morire è un guadagno perché diventerà occasione per incontrare il Cristo che ora vive nella fede (Fil 1, 21).
Ma soprattutto dovremmo ravvivare in noi stessi ogni momento la fede nel Dio Vivente che ha sconfitto la morte e la speranza nella vita eterna dovrebbe essere argomento ordinario. Nella nostra prospettiva, per quanto le sfide del dolore e le atrocità del lutto possano distoglierci da questa certezza radicale, il morire è vivere per sempre e corrisponde alla perenne gioia dell'incontro suddetto. Dire che Dio ci incontra alla fine dei nostri giorni vuol dire che ne faremo esperienza come del Risorto, il quale vive per sempre e dona eternamente la vita.
"Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi" (Sap 1, 12); "Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui" (Lc 20, 27 e ss.); "Dio non è il Dio dei morti, ma dei viventi" (Mc 12, 27); "Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva" (Ez 34, 11). Questi e altri passi della Scrittura affermano che in Dio non vi è la morte, ma la vita. Dio stesso è definito il Vivente, capace solamente di dare vita e sussistenza, per il quale la morte non ha più l'ultima parola sull'uomo.
Se questo è vero per il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, è ancora più esaltante in Gesù Cristo, Figlio del Dio Vivente, il quale vero Dio e vita eterna (1Gv 5, 19 - 20), essendo passato lui stesso dalla morte alla vita, avendo non schivato ma affrontato il buio del sepolcro deliberatamente e senza retorica per poi uscirne vittorioso ribaltandone la pietra possente. La contrapposizione morte - vita si evince, oltre che nelle affermazioni, negli episodi stessi degli uomini di Dio, come ad esempio quelli che ci propone la liturgia odierna: la resurrezione del figlio della vedova di Zarepta da parte di Elia e il ritorno in vita del figlio della vedova di Nain per l'intervento prodigioso di Gesù. Vi sono particolari significativi che accomunano i due fatti narrati: in ambedue i casi si parla infatti di un GIOVINETTO, di una VEDOVA e anche, in un certo qual modo di una rassegnazione al dolore e alla morte. E in entrambi i casi si verifica il miracolo: la risurrezione.
Elia, fuggito alla persecuzione del re Acab per aver contrastato il paganesimo da questi introdotto in Israele, trova ristoro prima sulla riva del torrente Cherit dove un corvo gli porta da mangiare pene e carne (1 Re 17, 1 - 9), poi viene accolto da una vedova nella città di Zarepta. Questa gli dimostra di avere una grande fede nel Signore e di riconoscere nella sua persona un "uomo di Dio"; quindi lo accoglie nonostante lo stato di estrema indigenza e di penuria e lo rifocilla. Poco dopo il bambino della vedova viene colto da malore e cade privo di vita. A quel punto la donna, ormai disperata e forse rassegnata alla perdita del proprio figlioletto, si arrabbia contro se stessa sfogandosi con Elia: se il figlio è morto davanti ad "un uomo di Dio", ciò significa che lei ha commesso riprovevoli peccati ed errori al punto di meritare questa orrenda punizione. Questo era il pensare tipicamente dell'epoca. "Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia iniquità e per uccidere mio figlio?" Elia compie il miracolo. Il fanciullo torna a vivere e la donna confida in Dio ora riconosciuto come amore, misericordia, vincitore della morte e datore della vita, il quale le si è presentato non per mezzo di un punitore, ma attraverso un profeta, un vero uomo di Dio.
Le vedove non godevano certo di un'ottimale posizione sociale in Israele poiché la perdita del marito equivaleva anche alla fine della tutela legale, della garanzia di giustizia. Che una vedova poi perdesse un figlio, era ancora più disastroso e desolante, poiché con la sua scomparsa ella perdeva anche la vita, la sua unica ragione di perseveranza. Nel profeta Elia Dio, risuscitando questo pargoletto, recupera alla madre la vita, qualificando se stesso come il Dio Vivente che misconosce la morte.
Così anche a proposito del figlio della vedova di Nain. Notiamo che ormai la bara del defunto si sta dirigendo verso la tomba, fra le lacrime e la disperazione della madre. Non vi è alcun riferimento, neppure lontano alla possibilità che il morto possa essere condotto da Gesù da parte dei portatori, dei parenti o di qualcuno degli astanti. Viene solamente condotto nel luogo della sepoltura. E' Gesù che prende l'iniziativa, commosso dal dolore di quella povera vedova. Le si avvicina e le intima di "non piangere!"
A differenza di Elia, Gesù non prega (forse l'unica volta che prega prima di un miracolo è quella della resurrezione di Lazzaro), ma semplicemente tocca la bara e ordina: "Fanciullo, dico a te, alzati." La resurrezione avvenuta è avalla ancora una volta la verità del Dio dei vivi e non dei morti. Ma adesso con molta più consistenza, perché il fare autoritario di Gesù, la cui parola ha potere sulla morte, annuncia la verità che proprio Lui, Figlio del Dio vivente, è vita eterna. Egli è Colui che trionferà sulla morte e che affermerà la vita e nel quale tutti quanti sono destinati a vivere. Cristo è Dio che ha dato la vita per sempre e tale dono di vita si protrae per sempre, perché la resurrezione è vita eterna. Dirà poi Paolo: "Cristo è risorto dai morti, primizia di quelli che dormono (che sono nella tomba). Infatti, poiché per mezzo di un uomo è venuta la morte, così anche per mezzo di un uomo è venuta la resurrezione dei morti. Poiché, come tutti muoiono in Adamo, così anche in Cristo tutti saranno vivificati " (1° Cor. 15:30, 20-22).
Cristo risorto ci assicura che la morte non potrà mai avere la prevalenza a meno che non lo vogliamo noi. E che il pianto non deve mai trasformarsi in disperazione ma lasciare lo spazio alla fiducia piena nella vita.

Fonte:qumran2.net

Commenti

Post più popolari