padre Raniero Cantalamessa, "Mi sarete Testimoni"
Domenica 8 maggio 2016, ASCENSIONE DEL SIGNORE
Atti 1,1-11; Efesini 1, 17-23; Luca 24,46-53
Luca è, tra gli evangelisti, quello che dà più rilievo all’Ascensione di Cristo al cielo. Con essa egli
termina il Vangelo e con essa inizia il libro degli Atti degli apostoli. Un modo, questo, per affermare che l’Ascensione chiude “il tempo di Gesù” e inaugura “il tempo della Chiesa”. Ma ascoltiamo come viene descritto il fatto nel Vangelo:
“Poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e stavano sempre nel tempio lodando Dio”.
Se vogliamo che la festa dell’Ascensione sia davvero una “festa” e non somigli invece a un mesto addio, è necessario comprendere la differenza radicale che c’è fra una scomparsa e una partenza. Chi parte non c’è più; chi scompare può essere ancora lì, a due passi, solo che qualcosa impedisce di vederlo. La partenza causa un’assenza; la scomparsa inaugura una presenza nascosta. Con l’Ascensione Gesù non è partito, non si è “assentato”, si è invece stabilito per sempre in mezzo a noi.
Su questo punto le rappresentazioni tradizionali dell’Ascensione possono portarci completamente fuori strada. Come hanno rappresentato l’Ascensione i pittori? Gesù sale in cielo, Maria e gli apostoli lo guardano allontanarsi e restano con il capo in su. La vera Ascensione non è stata mai rappresentata e non può essere rappresentata. Si può rappresentare una partenza, un addio, ma non una scomparsa, perché ciò che scompare, per definizione, non appare più. Gesù scompare, sì, dalla vista degli apostoli, ma per essere presente in altro modo, più intimo, non fuori, ma dentro di loro. Avviene come nell’Eucaristia: finché l’ostia è fuori di noi la vediamo, la adoriamo; quando la riceviamo non la vediamo più, è scomparsa, ma per essere ormai dentro di noi. Si è inaugurata una presenza nuova e più forte.
L’Ascensione è dunque un’intensificazione della presenza di Cristo, non un’ascensione locale che lo allontanerebbe da noi. Come egli non ha lasciato il Padre venendo da noi nell’incarnazione, così non si è separato da noi ritornando al Padre. Non ha ristabilito le distanze tra cielo e terra, ha, al contrario, assicurato stabilmente la comunicazione tra di loro. Se non fosse scomparso secondo la carne, sarebbe stato visibile in Giudea, da alcuni uomini; in questo modo nuovo, spiritualizzato, è presente a tutti gli uomini, di tutti i tempi.
Ma sorge un’obiezione. Se non è più visibile, come sarà creduto nel mondo, come faranno gli uomini a sapere di questa sua presenza? La risposta è: egli vuole rendersi visibile attraverso i suoi discepoli! Sia nel Vangelo che negli Atti, l’evangelista Luca associa strettamente all’Ascensione il tema della testimonianza:
“Di questo voi siete testimoni” (Luca 24, 48)
Quel “voi” indica in primo luogo gli apostoli che sono stati con Gesù. E difatti, dopo la Pentecoste, essi non fanno altro che rendere testimonianza a Cristo. Proclamano a tutti: “Dio lo risuscitò e noi ne siamo testimoni” (Atti 1, 22). ”La vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza”: così comincia la Prima lettera di Giovanni. Dopo gli apostoli, questa testimonianza per così dire “ufficiale”, cioè legata all’ufficio, passa ai loro successori, i vescovi e i sacerdoti, che sono definiti infatti, in un testo del Concilio Vaticano II, “testimoni di Cristo e del Vangelo” (Lumen gentium 21). Ma quel “voi”, in senso più ampio, sono tutti i battezzati e i credenti in Cristo. “Ogni laico – dice poco dopo, quello stesso documento del concilio- deve essere davanti al mondo un testimone della risurrezione e della vita del Signore Gesù e un segno del Dio vivo” (Lumen gentium 38).
Se tutti dobbiamo essere testimoni, è necessario sapere chi è e che cosa deve fare un testimone. Testimone è uno che “attesta”, che afferma una cosa. Ma non tutti quelli che attestano qualcosa sono testimoni. Solo chi attesta una cosa che ha veduto e udito di persona. Non chi riferisce una cosa saputa da altri. In questo caso, potrà attestare solo che Tizio o Caio ha detto quella certa cosa, non che quella cosa è vera.
È diventata celebre l’affermazione di Paolo VI: “Il mondo ha bisogno di testimoni, più che di maestri”. Verissimo! È relativamente facile essere maestro, assai meno essere testimone. Infatti il mondo brulica di maestri, veri o falsi, ma scarseggia di testimoni. Tra i due ruoli, c’è la stessa differenza che esiste, secondo il proverbio, tra il dire e il fare… I fatti, dice un proverbio inglese, parlano più forte delle parole.
Il testimone è uno che parla con la vita. In questo senso, il modello di ogni testimonianza è Cristo stesso che, davanti a Pilato, si definì “testimone della verità” e che la Scrittura chiama il “testimone fedele” (Apocalisse 1,5). Egli infatti ha vissuto fino all’ultima virgola quello che ha insegnato e ha dato la vita per rendere testimonianza alla verità. Lo seguono da vicino quei “super-testimoni” che sono i martiri. Il secolo appena trascorso è stato probabilmente quello che ha visto il maggior numero dei martiri, più ancora che nell’era delle persecuzioni. Pensiamo a Massimiliano Kolbe, Edith Stein, Oscar Romero, i sette monaci trappisti di Tibhirine in Algeria, le suore e i missionari che ogni tanto figurano tra le vittime di guerre e guerriglie in Africa e in America latina.
Ma non possiamo fermarci a questi nomi. Finiremmo per perdere di vista quello che ci ha ricordato il concilio: che ogni battezzato deve essere un testimone di Cristo. Esiste anche il cosiddetto “martirio quotidiano”, cioè la testimonianza quotidiana, che a volte non è meno esigente del martirio del sangue.
Un papà e una mamma credenti devono essere, per i figli, “i primi testimoni della fede”. (Questo chiede per loro la Chiesa a Dio nella benedizione che segue il rito delle nozze). Facciamo un esempio concreto. In questo periodo dell’anno molti bambini si accostano alla prima comunione o alla cresima. Una mamma o un papà credenti possono aiutare il bambino a ripassare il catechismo, spiegargli il senso delle parole, aiutarlo a memorizzare le risposte. Fanno una cosa bellissima e magari fossero in tanti a farlo! Ma che cosa deve pensare il bambino, se dopo tutto quello che i genitori hanno detto e fatto in occasione della sua prima comunione, essi tralasciano poi sistematicamente di andare a Messa la domenica, non fanno mai neppure il segno della croce e non dicono mai una preghiera? Sono stati maestri, ma non testimoni.
La testimonianza dei genitori non deve, naturalmente, limitarsi al tempo della prima comunione o della cresima dei figli. Con il loro modo di correggere e perdonare il bambino e di perdonarsi tra di loro, di parlare con rispetto degli assenti, di comportarsi di fronte a un povero che chiede l’elemosina, coi commenti che fanno in presenza dei figli nell’ascoltare le notizie del giorno, i genitori hanno ogni giorno la possibilità di rendere testimonianza della loro fede. L’anima dei bambini è una lastra fotografica: tutto quello che vedono e ascoltano negli anni dell’infanzia si incide in essa e un giorno “si svilupperà” e porterà i suoi frutti, buoni o cattivi.
Gesù sa bene che da soli noi non siamo capaci di rendere testimonianza. Lasciati a noi stessi, non possiamo che ripetere quello che fece Pietro durante la Passione, e cioè dire di Cristo, coi fatti se non con le parole: “Non lo conosco; non so chi è!”. Ecco perché, prima di scomparire dai loro sguardi, Gesù fa agli apostoli una promessa:
“Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e fino agli estremi confini della terra” (Atti 1, 8).
Un motivo in più per vivere intensamente la novena di Pentecoste e prepararci alla festa della venuta dello Spirito Santo di Domenica prossima.
Atti 1,1-11; Efesini 1, 17-23; Luca 24,46-53
Luca è, tra gli evangelisti, quello che dà più rilievo all’Ascensione di Cristo al cielo. Con essa egli
termina il Vangelo e con essa inizia il libro degli Atti degli apostoli. Un modo, questo, per affermare che l’Ascensione chiude “il tempo di Gesù” e inaugura “il tempo della Chiesa”. Ma ascoltiamo come viene descritto il fatto nel Vangelo:
“Poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e stavano sempre nel tempio lodando Dio”.
Se vogliamo che la festa dell’Ascensione sia davvero una “festa” e non somigli invece a un mesto addio, è necessario comprendere la differenza radicale che c’è fra una scomparsa e una partenza. Chi parte non c’è più; chi scompare può essere ancora lì, a due passi, solo che qualcosa impedisce di vederlo. La partenza causa un’assenza; la scomparsa inaugura una presenza nascosta. Con l’Ascensione Gesù non è partito, non si è “assentato”, si è invece stabilito per sempre in mezzo a noi.
Su questo punto le rappresentazioni tradizionali dell’Ascensione possono portarci completamente fuori strada. Come hanno rappresentato l’Ascensione i pittori? Gesù sale in cielo, Maria e gli apostoli lo guardano allontanarsi e restano con il capo in su. La vera Ascensione non è stata mai rappresentata e non può essere rappresentata. Si può rappresentare una partenza, un addio, ma non una scomparsa, perché ciò che scompare, per definizione, non appare più. Gesù scompare, sì, dalla vista degli apostoli, ma per essere presente in altro modo, più intimo, non fuori, ma dentro di loro. Avviene come nell’Eucaristia: finché l’ostia è fuori di noi la vediamo, la adoriamo; quando la riceviamo non la vediamo più, è scomparsa, ma per essere ormai dentro di noi. Si è inaugurata una presenza nuova e più forte.
L’Ascensione è dunque un’intensificazione della presenza di Cristo, non un’ascensione locale che lo allontanerebbe da noi. Come egli non ha lasciato il Padre venendo da noi nell’incarnazione, così non si è separato da noi ritornando al Padre. Non ha ristabilito le distanze tra cielo e terra, ha, al contrario, assicurato stabilmente la comunicazione tra di loro. Se non fosse scomparso secondo la carne, sarebbe stato visibile in Giudea, da alcuni uomini; in questo modo nuovo, spiritualizzato, è presente a tutti gli uomini, di tutti i tempi.
Ma sorge un’obiezione. Se non è più visibile, come sarà creduto nel mondo, come faranno gli uomini a sapere di questa sua presenza? La risposta è: egli vuole rendersi visibile attraverso i suoi discepoli! Sia nel Vangelo che negli Atti, l’evangelista Luca associa strettamente all’Ascensione il tema della testimonianza:
“Di questo voi siete testimoni” (Luca 24, 48)
Quel “voi” indica in primo luogo gli apostoli che sono stati con Gesù. E difatti, dopo la Pentecoste, essi non fanno altro che rendere testimonianza a Cristo. Proclamano a tutti: “Dio lo risuscitò e noi ne siamo testimoni” (Atti 1, 22). ”La vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza”: così comincia la Prima lettera di Giovanni. Dopo gli apostoli, questa testimonianza per così dire “ufficiale”, cioè legata all’ufficio, passa ai loro successori, i vescovi e i sacerdoti, che sono definiti infatti, in un testo del Concilio Vaticano II, “testimoni di Cristo e del Vangelo” (Lumen gentium 21). Ma quel “voi”, in senso più ampio, sono tutti i battezzati e i credenti in Cristo. “Ogni laico – dice poco dopo, quello stesso documento del concilio- deve essere davanti al mondo un testimone della risurrezione e della vita del Signore Gesù e un segno del Dio vivo” (Lumen gentium 38).
Se tutti dobbiamo essere testimoni, è necessario sapere chi è e che cosa deve fare un testimone. Testimone è uno che “attesta”, che afferma una cosa. Ma non tutti quelli che attestano qualcosa sono testimoni. Solo chi attesta una cosa che ha veduto e udito di persona. Non chi riferisce una cosa saputa da altri. In questo caso, potrà attestare solo che Tizio o Caio ha detto quella certa cosa, non che quella cosa è vera.
È diventata celebre l’affermazione di Paolo VI: “Il mondo ha bisogno di testimoni, più che di maestri”. Verissimo! È relativamente facile essere maestro, assai meno essere testimone. Infatti il mondo brulica di maestri, veri o falsi, ma scarseggia di testimoni. Tra i due ruoli, c’è la stessa differenza che esiste, secondo il proverbio, tra il dire e il fare… I fatti, dice un proverbio inglese, parlano più forte delle parole.
Il testimone è uno che parla con la vita. In questo senso, il modello di ogni testimonianza è Cristo stesso che, davanti a Pilato, si definì “testimone della verità” e che la Scrittura chiama il “testimone fedele” (Apocalisse 1,5). Egli infatti ha vissuto fino all’ultima virgola quello che ha insegnato e ha dato la vita per rendere testimonianza alla verità. Lo seguono da vicino quei “super-testimoni” che sono i martiri. Il secolo appena trascorso è stato probabilmente quello che ha visto il maggior numero dei martiri, più ancora che nell’era delle persecuzioni. Pensiamo a Massimiliano Kolbe, Edith Stein, Oscar Romero, i sette monaci trappisti di Tibhirine in Algeria, le suore e i missionari che ogni tanto figurano tra le vittime di guerre e guerriglie in Africa e in America latina.
Ma non possiamo fermarci a questi nomi. Finiremmo per perdere di vista quello che ci ha ricordato il concilio: che ogni battezzato deve essere un testimone di Cristo. Esiste anche il cosiddetto “martirio quotidiano”, cioè la testimonianza quotidiana, che a volte non è meno esigente del martirio del sangue.
Un papà e una mamma credenti devono essere, per i figli, “i primi testimoni della fede”. (Questo chiede per loro la Chiesa a Dio nella benedizione che segue il rito delle nozze). Facciamo un esempio concreto. In questo periodo dell’anno molti bambini si accostano alla prima comunione o alla cresima. Una mamma o un papà credenti possono aiutare il bambino a ripassare il catechismo, spiegargli il senso delle parole, aiutarlo a memorizzare le risposte. Fanno una cosa bellissima e magari fossero in tanti a farlo! Ma che cosa deve pensare il bambino, se dopo tutto quello che i genitori hanno detto e fatto in occasione della sua prima comunione, essi tralasciano poi sistematicamente di andare a Messa la domenica, non fanno mai neppure il segno della croce e non dicono mai una preghiera? Sono stati maestri, ma non testimoni.
La testimonianza dei genitori non deve, naturalmente, limitarsi al tempo della prima comunione o della cresima dei figli. Con il loro modo di correggere e perdonare il bambino e di perdonarsi tra di loro, di parlare con rispetto degli assenti, di comportarsi di fronte a un povero che chiede l’elemosina, coi commenti che fanno in presenza dei figli nell’ascoltare le notizie del giorno, i genitori hanno ogni giorno la possibilità di rendere testimonianza della loro fede. L’anima dei bambini è una lastra fotografica: tutto quello che vedono e ascoltano negli anni dell’infanzia si incide in essa e un giorno “si svilupperà” e porterà i suoi frutti, buoni o cattivi.
Gesù sa bene che da soli noi non siamo capaci di rendere testimonianza. Lasciati a noi stessi, non possiamo che ripetere quello che fece Pietro durante la Passione, e cioè dire di Cristo, coi fatti se non con le parole: “Non lo conosco; non so chi è!”. Ecco perché, prima di scomparire dai loro sguardi, Gesù fa agli apostoli una promessa:
“Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e fino agli estremi confini della terra” (Atti 1, 8).
Un motivo in più per vivere intensamente la novena di Pentecoste e prepararci alla festa della venuta dello Spirito Santo di Domenica prossima.
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