Abbazia Santa Maria di Pulsano Lectio «DELLA RESURREZIONE DEL FIGLIO DELLA VEDOVA DI NAIN»

DOMENICA «DELLA RESURREZIONE DEL FIGLIO DELLA VEDOVA DI NAIN»
X del Tempo per l'Anno C

Luca 7,11-17; 1 Re 17,17-24; Sal 29; Galati 1,11-19


Antifona d'Ingresso Sal 26,1-2
Il Signore è mia luce e mia salvezza,
di chi avrò paura?
Il Signore è difesa della mia vita,
di chi avrò timore?
Proprio coloro che mi fanno del male
inciampano e cadono.

Nel Sal 26, un canto di fiducia individuale, l’orante anticipa il grido della folla proclamando il Signore con i titoli di Luce e Salvezza sua, modi per esprimere che il Signore è la sua vita. Per questo non teme nulla da nessuno e per nessun motivo ma al contrario sono proprio coloro che ostacolano i piani di Dio a dover tremare. Essi che non hanno nessuna forza per nuocergli perché egli è protetto dal Signore.
Il Signore battezzato dal Padre con lo Spirito Santo seguita a passare per la sua missione divina tra gli uomini, ai quali annuncia ed insegna l’Evangelo, per i quali opera le opere della carità del Regno, i quali riporta all’adorazione del Dio Unico, il Padre comune. Noi insieme con Lui passiamo, e dobbiamo imitarlo in tutto, avendo ricevuto per questo il medesimo Spirito Santo che abilita alla missione.

Canto all’Evangelo Lc 7,16
Alleluia, alleluia.
Un grande profeta è sorto tra noi,
e Dio ha visitato il suo popolo.
Alleluia.

Tratto dalla pericope evangelica di oggi il canto all’evangelo è il grido della folla che nel prodigio massimo esercitato sul figlio della vedova di Nain, la resurrezione, acclama Gesù come il profeta atteso, riconosciuto quello come Mosè, promesso dal Signore (Dt 18,15-19), che avrebbe operato prodigi grandi e avrebbe rivelato la Visita del Signore in mezzo al suo popolo.
Le “opere del Regno”, come si è detto tante volte, ma giova sempre ripeterlo, sono operate dalla medesima Persona divina di Gesù. Secondo le antiche profezie e la grande attesa d’Israele, esse sono proprie del Re Messia, l’Unto d’Israele, il Promesso dei secoli.
Gesù battezzato è il Re che viene per il regno nella Potenza dello Spirito Santo. L’Evangelo di Luca narra i segni prodigiosi operati dal Signore a cominciare dall’indemoniato di Cafarnao (4,31-37), poi la guarigione della suocera di Pietro (4,38-39) e di molti altri (4,40-43); il Signore opera anche il miracolo della pesca miracolosa (5,1-11), guarisce il lebbroso (5,12-16), quindi il paralitico (5,17-26), ed il servo del centurione (7,1-10).
Nell’Evangelo di oggi però e in specie rispetto alla serie di guarigioni, si assiste ad un irresistibile crescendo. Gesù affronta e via via, con pazienza ma con sicurezza, cerca deliberatamente lo scontro diretto, frontale, deciso e sempre e del tutto spietato con l’intero “male” che impedisce il Regno di Dio, sottraendogli i poveri uomini. Insegnare agli ignoranti, perdonare i peccatori, sovvenire alla fame, guarire le malattie, sono alcune delle “opere del Regno”, che Gesù battezzato nello Spirito Santo passa ed esegue nella Potenza del medesimo Spirito. Tuttavia, delle opere nessuna eguaglia lo scontro del Signore con la morte. Vincere l’ignoranza, il peccato, la fame, le malattie, è ancora poco, di fronte alla vittoria ultima, quella sulla morte.
“La morte è l’ultima nemica di Dio”, afferma giustamente Paolo, e con termini identici Giovanni. La morte è tale, che in un certo senso sembra che Dio stesso tremi davanti ad essa. Si pensi al triplice tremare e piangere di Gesù alla morte dell’amico che amava (Gv 11,5), Lazzaro (cf. qui Gv 11,33 con 2 verbi del tremare, 11,35, il pianto; 11,38, ancora il tremito). E si pensi al Getsemani. Trema evidentemente non per se stesso, ma per la creatura più amata, il capolavoro della mirabile sua creazione, gli uomini, che si vede rapinati dal Predatore insaziabile, mentre secondo il suo inamovibile Disegno li ha destinati ad essere innalzati a vivere la sua stessa Vita eterna. Questo “tremore” di amore sarà presente, ed in modo centrale, nell’episodio di resurrezione che adesso Luca narra, senza paralleli evangelici.
Con queste coordinate, possiamo immergerci nella lettura del brano. Si tratta di un testo estremamente equilibrato: due versetti di introduzione (vv. 11-12) e due di conclusione (vv. 16-17) incorniciano una sezione centrale (vv. 13-15) strutturata da una serie di verbi che hanno Gesù come soggetto.

Esaminiamo il brano

v. 11 - «In seguito si recò in una città chiamata Nain»: Gesù guarisce il servo del centurione (7,1-10), e si avvia verso Nain con i discepoli e molta folla. Il villaggio si trova al meridione del Monte Tabor.
v. 12 - «veniva portato al sepolcro un morto»: Il primo incontro, all’ingresso dell’abitato, è con un trasporto funebre; si porta alla sepoltura un defunto. Luca annota accuratamente, per dare più risalto al seguito, che è l’unico figlio della madre, e questa era vedova, accompagnata per ciò da una folla copiosa, che mostra la sua partecipazione. È figlia unica anche la bambina di Giairo, capo della sinagoga, altra creatura che muore (8,42); come è figlio unico il ragazzo lunatico incontrato dopo la Trasfigurazione (9,38). Anche Lazzaro è fratello unico di Marta e di Maria. L’“unicità” sta in analogia con il Figlio Unico di Dio, che dal Battesimo va verso il suo destino di una morte accettata, a cui il Padre l’abbandona per amore trascendente di tanti altri “figli unici”, tutti destinati alla morte.
v. 13 - «il Signore fu preso da grande compassione»: Il “tremito” divino davanti alla morte è descritto da Luca in forma insuperabile.“Il Signore”, il Kyrios, il titolo divino rivelato per Gesù dopo la Resurrezione, è qui anticipato: il Risorto affronta e vince la Nemica. Egli vede la madre, ed il moto del suo Cuore è questo: “furono sconvolte le sue viscere” (alla lettera, splagchnízomai, avere viscere di misericordia). Questo verbo è usato solo dai Sinottici, 5 volte in Matteo, 4 in Marco, 3 in Luca, e sempre riferito a Cristo, salvo 1 volta in cui è riferito al Padre del figlio dissoluto. È un verbo dunque riservato, come movimento di amore, alla Divinità. Nell’A.T. è usato solo 2 volte. Tuttavia l’A.T. ci rivela che dietro il verbo sta il sostantivo splágchna, le viscere materne, che traducono solo 2 sostantivi ebraici: raham, l’utero materno, oppure beten, il ventre della madre. Il significato è avere tenerezza come il seno materno lo ha per il frutto delle proprie viscere. Un movimento totale, che investe la persona, la sconvolge. Il paragone vuole insegnarci che il Signore nel suo moto di amore non può essere descritto meglio che prestandogli l’amore “materno”.
«le disse: Non piangere»: Così si rivolge alla madre disperata, e le dice solo: Non piangere. Come dirà anche per la figlia di Giairo, un altro caso di resurrezione (8,58). L’esortazione è tipica di una teofania: Non temete, non piangete. Qui adesso sta il “Con-noi-Dio”. Egli che asciugherà le lacrime dagli occhi dei dolenti, ed annullerà la morte per sempre (cf Is 25,8, la promessa; e Ap 7,17; 21,24; Mt 5,5; Lc 6,21, la realizzazione).
v. 14 - «E accostatosi toccò la bara»: Il Signore opera solo due gesti. Anzitutto si avvicina e tocca la bara. Come prescritto dalla Legge, chi tocca un cadavere, o un oggetto che tocca un cadavere, come la bara (scoperta, secondo l’uso orientale), diventa impuro gravemente, e tutto quello che tocca diventa contaminato (cf. Lv 21,1-2.10-11, per il sacerdote; Nm 6,6, per il nazireo; 19,11-19, per i fedeli). Gesù dunque consapevolmente si contamina con il grado più alto di contaminazione “levitica”. Attrae su di sé, per così dire, la contaminazione della morte, per restituire il giovane, ormai purificato — poiché biblicamente, se la morte è contaminazione, la Vita è la massima purità —, all’assemblea liturgica dei viventi del popolo di Dio, a pieno titolo. Ed assunta su di sé, quale Servo sofferente, ogni impurità umana, portando il “peccato del mondo”, distrugge l’una e l’altro. Lo ricorda Mt 8,16-17, che cita sul Servo Is 53,4. Vi insiste Pietro (1 Pt 2,22-25), che cita sul Servo Is 53,9.
«Poi disse: Ragazzo, dico a te, àlzati!»: Il secondo gesto è la parola di resurrezione: Ragazzo, a te Io parlo: risvegliati! È Parola di creazione e di vita. Il verbo egéirô per sé vuol dire risvegliarsi; qui, dal sonno mortale. È il medesimo verbo che il N.T., con l’altro, anístêmi o anistáno, usa per Cristo Risorto. Il giovane è ammesso a partecipare dunque alla sorte del Risorto. E anche se per adesso solo per un altro segmento di tempo, dopo però in eterno ed insieme al Risorto.
v. 15 - «Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare…»: Il giovane si pone seduto in quel luogo così scomodo, e parla. E Gesù “lo donò alla madre sua”, il dono più prezioso per lei.
v. 16 - «Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio»: La reazione della duplice folla, quella che segue Gesù e quella che segue il morto, è tipica della teofania, dapprima il timore, poi la glorificazione di Dio che opera la misericordia. Con il motivo duplice, del Profeta grande che sta adesso tra loro, e di Dio che “visita” il popolo suo con la vita, come aveva cantato il sacerdote Zaccaria (Lc 1,68).
«Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo»: L’amore di Dio per gli orfani e le vedove è proverbiale nella Scrittura, che precisamente chiama Dio “Padre degli orfani e Giudice delle vedove” (Sal 67,6a; 9,35; 145,9), Egli che su questo ha emanato norme di bontà, severe verso gli oppressori (Es 22,22; Dt 10,18; 24,17, etc.). Nel N.T. esiste poi un aspetto quasi sconosciuto sulle vedove, che nella Comunità sono considerate come stato consacrato al Signore (1 Tim 5,1-16). Gesù viene adesso a manifestarlo in forme teofaniche, donando alle vedove la loro stessa vita, i figli.
L’episodio di Nain ha precedenti tipologici nell’A.T. Elia resuscita il figlio della vedova di Sarepta di Sidone (1 Re 17,17-24, la I lett.); Eliseo il figlio della donna di Sunem (2 Re 4,18-37). Sono due “profeti”, i mediatori di Dio e del popolo. Mosè aveva promesso “il Profeta”, operatore di segni grandi (Dt 18,15-19), dalle cui opere sarebbe stato riconosciuto. La folla precisamente “riconosce” adesso che “il Profeta grande” promesso è venuto. Ma uno senza paragoni più grande di Elia e di Eliseo, ed anche di Mosè. Con Lui, viene anche la Visita divina per il popolo che attende.Il Profeta grande poi non resterà preda della morte, ma la vincerà per sempre con la sua Resurrezione nello Spirito Santo, donando a tutti la speranza della resurrezione finale. Luca riporta la resurrezione della figlia di Giairo in comune con Matteo e Marco. Giovanni narra quella di Lazzaro. Solo Luca riporta anche quella di Nain, Evangelista attento ad annunciare la massima opera di Dio, dare la vita ai morti.
v. 17 - «La fama di questi fatti si diffuse in tutta la Giudea e per tutta la regione»: Il brano termina con una testimonianza: la parola si diffonde, viene proclamata, travalica i confini della Galilea: c'è qualcuno che può far risorgere i morti! L'abbattimento delle barriere apre una finestra sul mistero di colui che, mostrandosi misericordioso e manifestando la salvezza del suo popolo, è riconosciuto come grande profeta e insieme si rivela come Signore della vita. Capiamo la funzione delle folle: sono presenti come testimoni, per interpretare e raccontare ciò che è accaduto. La folla esprime la propria convinzione che ciò a cui ha assistito è la “visita”, la presenza di Dio. Nell’evangelo Luca riprende il racconto della I lett. (1 Re 17,17-24) apportandovi tuttavia differenze significative:
1. Viene eliminato ogni contrasto: se la vedova di Sarepta si adira contro Elia e lo accusa di aver portato il giudizio di Dio nella sua casa (17,18), la vedova dell’evangelo non parla. Conosciamo il suo dolore soltanto attraverso lo sguardo di Gesù.
2. Elia invoca ripetutamente l'intervento di Dio: Gesù ordina al morto di alzarsi e lo restituisce alla madre.
3. La vedova di Sarepta proclama l'identità di Elia nel segreto della propria casa: nell’evangelo la testimonianza delle folle si allarga a macchia d'olio, raggiungendo luoghi non ancora “visitati” dal profeta di Dio.
Ma il contrasto più grande riguarda l'atteggiamento dei due “profeti”. Non conosciamo i sentimenti di Elia, ma Luca segnala la compassione di Gesù verso la madre, una compassione che lo spinge ad agire. Il Dio-giudice che toglie la vita come punizione per le colpe nascoste, temuto dalla vedova di Sarepta, si contrappone al Dio incontrato dalla vedova di Nain, un Dio che vede il nostro dolore, che ci avvolge con la propria compassione e ci chiede di alzarci, abbandonando ogni forma di morte.
Ricordiamo che la pericope evangelica si apre con la presentazione di due gruppi di persone:
1. Il primo segue Gesù ed è composto dai discepoli e da una grande folla.
2. Il secondo segue un morto ed è composto da «molta gente della città», raccolta attorno ad una madre.
Ancora un contrasto stridente: il primo gruppo segue un uomo potente, un profeta; il secondo un morto. Facciamo ora un piccolo gioco, quale corteo stiamo seguendo: quello funebre o quello della Vita?
A conclusione vi propongo quanto scritto da D. Felice Scalia, Gesuita, teologo dell'istituto Ignatianum (Me), impegnato nell'associazione "Nuovi orizzonti":
«Luca, nel brano che la liturgia oggi propone, narra l’incontro di Gesù con la morte ed i suoi vari volti. Colui che è "la vita del mondo", un impatto peggiore di questo con la dissoluzione non poteva averlo. Un padre scomparso precocemente, una madre precipitata ieri nell'abisso della vedovanza, ed oggi delusa, frustrata nella sua unica flebile speranza che era il figlio, un ragazzo che forse ha trovato arduo vivere e si è arreso alla morte. Certo a Gesù fu risparmiato il senso di impotenza che in casi simili attanaglia qualsiasi mortale. Disse infatti ai becchini di fermarsi, alla donna di non piangere ed al ragazzo di alzarsi: "Sono io a dirtelo!". Situazioni come queste sembrano costruite apposta per mettere in mostra la potenza del super-eroe (nel caso, Gesù) e la nostra mediocrità. Ma non è così. Bisogna piuttosto dire che situazioni come queste sono emblematiche della condizione umana, ci fanno comprendere chi siamo e che sentimenti ha l'Eterno di fronte al nostro dolore. Abbiamo costruito una macabra civiltà della morte. Mettendo al centro le cose, il possesso, il denaro, il diritto della forza, abbiamo intronizzato la morte. Siamo un po' come quel ragazzo dell’evangelo che senza un padre non sapeva crescere e preferiva scendere da quel treno in corsa folle verso il nulla che gli sembrava la vita. Siamo come la vedova che per domani attende solo il peggio: solitudine assoluta, miseria, insignificanza, morte sconsolata. Un po' rassomigliamo forse al padre del ragazzo morto, che non ha retto alla prospettiva di un mondo così poco accogliente dei poveri, chiuso ad un futuro per il suo bambino. E abbiamo pensieri simili a quelli che occupavano la mente degli accompagnatori funebri: ci attende un sepolcro spalancato.
Dio non la pensa così, non ci vuole così. Il gesto di Gesù di Nazareth di questo ci rassicura. La vita oltre ogni disperazione, il varco di luce oltre ogni muro di cemento armato, un nuovo inizio dopo la fine di tutto, tutto questo è volontà di Dio. E per dircelo a chiare lettere ha mandato il suo Figlio.
Il "miracolo" è segno straordinario dell'ordinario agire di Dio nei nostri riguardi, espressione della sua feriale - diciamo così - volontà di salvezza. Dio vuole risuscitare i morti, donare vita, stare, in ogni caso ed anche contro tutto e tutti, dalla parte della vita. E ciò non è solo «lavoro mai interrotto del Padre» (Gv 5,17), ma anche compito di ogni battezzato che vuole calcare le orme del Cristo. Compito che lo presenta al mondo come sovversivo, perché la speranza è sovversiva. Difficile dire se noi cristiani annunziamo oggi che la morte è già sconfitta. Fa male leggere l'osservazione di David H. Lawrence: "Mettono l'accento solo sul dolore, sul sacrificio, sulla sofferenza. Non si soffermano abbastanza sulla risurrezione e sulla gioia di vivere nel presente". Gesù non guariva la gente nel corpo come scusa per salvare l'anima. Gesù amava le persone concrete, voleva che vivessero come figli della Vita, di una vita che travalica ogni morte e che può sussistere perfino negli occhi di un malato terminale. Risuscitando un morto, curando un corpo, ridando la vista ad un cieco, gli rivelava insieme mondi nuovi, sconosciuti, che sono al di là dell'io chiuso in se stesso e della stessa sofferenza. È questa liberazione, questo slargamento dell'io il dono più grande del Cristo. Perché solo se si è liberati si comincia ad amare. E questo solo conta».

Il gioco è finito ora possiamo chiudere con la preghiera di colletta:

II Colletta
O Dio, consolatore degli afflitti,
tu illumini il mistero del dolore e della morte
con la speranza che splende sul volto del Cristo;
fa' che nelle prove del nostro cammino
restiamo intimamente uniti alla passione del tuo Figlio,
perché si riveli in noi la potenza della sua risurrezione.
Egli è Dio...

Fonte:Abbazia Santa Maria di Pulsano

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