JUAN J. BARTOLOME sdb,Lectio Divina"Ragazzo, ti dico, alzati!".

5 giugno 2016 | 10a Domenica T. Ordinario - Anno C | Lectio Divina
Lectio Divina su: Lc 7, 11-17
Gesù realizza questa volta uno stupendo miracolo: la resurrezione del figlio della vedova, senza
esigere la fede della donna, ma solamente per compassione. Non ha mancato di intervenire al desiderio della madre, perché Gesù non ha resistito alla sua necessità di essere misericordioso. Per questo il popolo riconoscerà attonito che Dio è l'unico che può dare la vita e ha riconosciuto nella sua benevolenza la figura del profeta. Gesù non ha pregato Dio in privato, come Elia, per il ritorno alla vita del giovane; lo ha fatto pubblicamente: una tale vittoria sopra la morte la si può riconoscere solamente dall'elogio a Dio.
Per vivere glorificando Dio basta sapere che, compassionevole davanti ai nostri mali, Egli non aspetta che gli chiediamo il suo intervento. Sembrerebbe uno strano cammino, però è necessario recuperare l'impegno di pregare Dio. Bisogna recuperare la salvezza che ci porta Gesù; ma non sempre sarà necessario che gli chiediamo la guarigione; basterebbe come fece a Nain, che riconosciamo la nostra incapacità di sostenere la vita solamente con i nostri mezzi. E per convincere Dio a intervenire, bisogna che riconosciamo la necessità del suo aiuto.
In quel tempo Gesù camminava 11 in una città chiamata Nain, con i suoi discepoli e una grande folla lo seguiva. 12 Quando si avvicinò all'ingresso della città, incontrò un corteo funebre, di un figlio unico di madre vedova, e molta gente della città era con lei.
13 Quando il Signore la vide, ne ebbe compassione e disse: "Non piangere".
14 Si avvicinò alla bara, la toccò (i portantini si fermarono) e disse: "Ragazzo, ti dico, alzati!".
15 Il morto si mise a sedere e cominciò a parlare, e Gesù lo diede a sua madre.
16 Tutti, presi da timore, glorificavano Dio, dicendo: "Un grande profeta è sorto tra noi. Dio ha visitato il suo popolo ".
17 La sua fama si diffuse in tutta la regione e l'intera Giudea.
 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice

Dopo aver narrato della guarigione del servo del centurione, un moribondo senza speranza (Lc 7,1-10; cf 2 Re 5,1-14; Eliseo) l'evangelista presenta Gesù che può anche resuscitare un morto (Lc 7,11-17; cf 1 Re 17,20-24; Elia) Il miracolo non ha corrispondenza nella tradizione evangelica, che conosce solo altri due casi di resurrezioni (la figlia di Jairo: Lc 8,40-42. 49-56; Lazzaro: Gn 11) Luca mostra la sua preferenza, combinare il miracolo a favore di un uomo e un altro in favore di una donna, ambedue socialmente emarginati: un pagano e una donna vedova. Tutte e due i miracoli confermano che attraverso il gesto di Gesù, Dio visita il suo popolo (cf Lc. 4,25-27); di fatto il popolo, testimone di ambedue i prodigi, riconosce che Gesù è un grande profeta, riconoscimento che si divulga in Galilea e in Giudea.
La differenza tra i due episodi ci pone davanti a questo suo potere senza precedenti, un potere che Gesù ci mostrò in ambo i casi; una espressione chiarissima della sua assoluta gratuità. Il miracolo che ottenne il pagano fu la conseguenza della sua fede nelle parole di Gesù, la resurrezione del figlio della vedova, si realizzò, in cambio, grazie ad una iniziativa personale di Gesù. In ambedue i casi il relatore sottolinea che i discepoli accompagnavano Gesù; quello che importa è la folla. La sua presenza è avvertita ripetutamente: sarà il popolo, non il suo seguito, che scoprirà Dio nella presenza di suo Figlio.
Il fatto luttuoso accaduto nella vita di un piccolo villaggio, è stato raccontato con rapidità e realismo. L'entrata di Gesù a Nain coincide con l'uscita di un funerale. La narrazione sottolinea l'iniziativa di Gesù, chiamato per la prima volta nel Vangelo: Signore (Lc 7.13), che vede la vedova e il suo stato di bisogno, perciò sente compassione, si avvicina alla feretro tocca il morto, gli ordina di alzarsi e lo consegna a sua madre. Gesù ha sanato senza guardare la fede della madre, però obbliga il figlio all'obbedienza. E' il primo trionfo del Signore sopra la morte. Nessuno lo aveva chiesto; nessuno immaginava che Gesù avesse un tale potere, un potere riservato solo a Dio. Non fu per la necessità della madre e neppure per la sua misura di fede, ma unicamente per la commozione di Gesù, per la sua compassione verso la donna, che portò a rivelare questo potere tanto divino.
 2. MEDITARE: applicare alla vita quello che dice il testo!

Per comprendere il miracolo operato da Gesù bisogna conoscere la situazione sociale di una vedova in Israele: nella società patriarcale, la donna aveva importanza in quanto sposa e madre; una vedova dipendeva dal figlio. La vedova di Nain, avendo perso sposo e figlio, si trovava esposta alla maggiore insicurezza e alla povertà totale; socialmente non aveva nessun valore e non contava nulla. Questa è la persona che Gesù incontra: una persona insignificante, e l'unica cosa che possiede è il suo dolore e l'angoscia per il futuro senza un figlio. A questa vedova, che non chiede nulla, non chiede il miracolo che neppure aveva sognato, Gesù consegna il figlio ritornato in vita.
L'episodio ci ricorda un dettaglio importante: è vero che non ci fu nessuna richiesta da parte della vedova, però essa provocò commiserazione nel cuore di Gesù: "al vederla Gesù ebbe compassione e le disse: non piangere". Non desiderava vederla soffrire. Prima di dirigersi verso il morto e ordinargli di ritornare di nuovo alla vita, proibì a sua madre di essere triste. Le impose di non piangere, perché sapeva che poteva riconsegnarle il figlio vivo. La gioia della madre fu possibile, perché ebbe la fortuna di incontrare nel suo cammino quel Gesù che ebbe compassione di lei senza averla mai vista. Così fece Gesù per la vedova un tempo e così può farlo anche per noi oggi.
Noi pure, che ricordiamo questo episodio della vita di Gesù, dobbiamo entusiasmarci nel sapere che possiamo contare in un Dio che non rimane insensibile quando siano desolati, che ha compassione di noi; un Dio che non rimane insensibile quando ci vede soffrire; che si decide ad intervenire quando ci scopre soli e infermi, anche se non lo abbiamo chiesto. La madre ebbe la fortuna di incontrarsi con Gesù mentre accompagnava suo figlio al cimitero. Non era certamente una buona occasione. Non ebbe bisogno di indovinare chi era e neppure ardire a chiedergli un miracolo. Non nascose la sua pena e Gesù non poté nascondere la sua compassione.
Non sarà perché non portiamo a Gesù le nostre pene, la ragione per la quale non otteniamo la consolazione incontrandolo? Ci presentiamo davanti a Lui senza ispirargli compassione, perché gli nascondiamo le cause del nostro dolore. Non lo seguiamo, affinché egli possa entrare nella nostra intimità: abbiamo familiarizzato con la sua persona, ma non abbiamo permesso che le nostre mancanze e i nostri dolori gli siano familiari. Perciò ci affliggiamo di non aver ottenuto niente in sua compagnia. Gesù non fa più miracoli in nostro favore, non perché non glielo chiediamo, ma perché gli stiamo dando l'impressione di non aver nessun bisogno; tutto ci va bene, non abbiamo nessun problema. A cosa ci deve servire un salvatore? Il Signore in cui crediamo è un Dio che si manifesta in Gesù, un uomo compassionevole verso chi soffre e che interviene, anche se non gli viene chiesto. Se questo è quello che crediamo, se questo è il Gesù del Vangelo, perché non è così con noi?
Poter contare su un Dio compassionevole, che non sopporta la sofferenza al suo fianco, è una garanzia per chi dovrà soffrire la perdita di qualcosa di importante, di una persona cara, di qualcosa di indispensabile che ci è venuto a mancare. Tutto questo dovrebbe portarci a scoprire che Dio ci accompagna nelle nostre pene, che non siamo soli nel dolore, che soffre per la nostra perdita e che è disposto a ridarcela un giorno. Però non basta vantarsi di avere un Dio compassionevole. Chi non apprende la misericordia, non è degno di Lui.
Sicuramente una delle opere più urgenti oggi, una delle testimonianze più necessarie che il cristiano deve dare, è la compassione verso quelli che maggiormente soffrono. Non esiste nessuna ragione che legittima il credente di non essere solidale con chi soffre, insensibile davanti al pianto del prossimo. Per disgrazia noi cristiani, spesso, davanti alla società, diamo l'immagine di quelli che hanno la sensibilità più dura, senza alcuna misericordia. Passiamo, osservando le disgrazie degli altri senza commuoverci, giustifichiamo il dolore degli altri come meritato, solamente perché non ci tocca, senza considerare che tutta la sofferenza umana ci appartiene. Tutto questo non è proprio da cristiani. L'indifferenza, la non misericordia, non può essere disattesa dai discepoli di un Gesù che interveniva contro la sofferenza dove la incontrava, senza fermarsi a domandarsi se era giusto o meno, se si desiderava o meno il suo aiuto.
La nostra società di oggi è, probabilmente, più ugualitaria, meno ingiusta che quella delle epoche precedenti. Però non per questo l'abbiamo fatta più umana, più fraterna: semplicemente più solidale. La missione del cristiano, oggi, è farsi più sensibile davanti al dolore e far si che il nostro mondo non trascuri la sofferenza degli altri. Non dobbiamo dimenticare che la sofferenza, il dolore, la morte, è sorella di tutti; perciò è patrimonio comune in questa vita la compassione, la misericordia, l'attenzione verso i più piccoli e verso gli ammalati. Per piccolo che sia è il dovere del cristiano: dobbiamo farci in questa vita più somiglianti a Cristo e questo ci darà il premio nell'altra. Non è lecito entusiasmarci di avere un Gesù che ha compassione del nostro dolore, se non sentiamo anche noi compassione per il dolore degli altri. Il nostro Signore era un uomo misericordioso, che non aspettava di essere desiderato per intervenire, che non pretendeva di ricevere una richiesta concreta prima di rispondere ai bisogni che incontrava.
Com'è possibile che noi cristiani ci distinguiamo per esser più sensibili alla durezza che alla misericordia, alla condanna che alla comprensione, al ricordo di un'offesa che alla volontaria dimenticanza? Ogni disgrazia presente, ogni persona disgraziata che conosciamo, dovrebbe presentare per noi, in realtà, una chiamata alla compassione, un invito a essere quello che diciamo di essere: discepoli di Gesù. Non sarebbe giusto fare affidamento a Dio per intervenire sulle nostre disgrazie, se il nostro prossimo sa che non può contare su di noi per alleggerire le sue disgrazie. Gesù preannunciò che l'esame finale, il giudizio verso di noi, sarà sopra la misericordia che abbiamo esercitato in vita e non sopra quello che abbiamo guadagnato: nel giudizio finale non verranno cancellate le nostre mancanze se abbiamo trascurato il prossimo in difficoltà. Non possiamo sperare in un Dio che si prende cura di noi, se non ci prendiamo cura di coloro che soffrono attorno a noi. Non occorre l'indicazione di Gesù, e neppure passare dal villaggio di Nain per incontrare persone che hanno bisogno del nostro aiuto, o bisogno di consolazione; incontrarle per poi accompagnarle nel loro dolore, avere tempo e attenzione per loro. Tutto ciò ci farà incontrare con Gesù e partecipare alla sua attenzione. La gente, oggi, benché abbia imparato a nasconderlo, soffre di solitudine e disprezzo: dedichiamo una parte del nostro tempo a curare le ferite e a sanare lo spirito. In questo modo il mondo saprà che Cristo gli è vicino, che Dio lo ha visitato e che noi lo teniamo custodito nel nostro cuore.
Juan J. BARTOLOME sdb
Fonte:  Fonte:  www.donbosco-torino.it  

Commenti

Post più popolari