MONASTERO DI RUVIANO"Un fatto divenuto Parola"

DECIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
1Re 17, 17-24; Sal 29; Gal 1. 11-19; Lc 7, 11-17
Un fatto divenuto Parola
            L’evangelo di questa domenica ci narra un episodio, solo di Luca, che è un “segno”, non tanto
della potenza di Gesù, quanto del fatto che Lui è la vita; negli evangeli ci sono tre miracoli di risurrezione: la figlia di Giairo (Mc 5, 21-43 e par.), Lazzaro (Gv 11) e questo del figlio della vedova di Naim e tutti e tre hanno questo scopo: dire che Gesù assume la morte per liberarci dalla morte in quanto Lui è la vita, come dirà esplicitamente nella riflessione del Quarto Evangelista: “Io sono la risurrezione e la vita” (cfr Gv 11, 25).

            Inoltre, Luca pone qui questo racconto, prima della domanda dei discepoli di Giovanni, perché nella risposta che Gesù darà per indicare di essere davvero “Colui che deve venire” ci sarà anche la risurrezione di morti (cfr 7, 18-23).

            Il racconto è singolarissimo e pieno di particolari tutti significativi per la rivelazione dell’identità di Gesù e del senso della sua presenza come Messia e Salvatore.

            Notiamo, in primo luogo, che il miracolo è suggerito solo dalla compassione di Gesù e dalla sua iniziativa; nessuno chiede nulla … e, d’altro canto, chi potrebbe essere così folle da chiedere qualcosa di impossibile, qualcosa che contrasti una morte già avvenuta? Cosa mai avrebbe dovuto chiedere quella madre disperata e senza più alcuna risorsa né affettiva, né sociale (il ragazzo è figlio unico di una vedova)? C’è solo la sua disperazione ed il suo pianto; questi interpellano Gesù. Inoltre è chiaro che questa donna, per Gesù, è una sconosciuta e dunque non ha alcun merito, nulla ha fatto per meritare un dono così grande; di contro, nel racconto del Primo libro dei Re che oggi è stato la prima lettura, la risurrezione del figlio della vedova di Zarepta da parte di Elia, è chiaro che quella vedova ha molti meriti: ha accolto e sfamato il profeta fuggiasco, lo ha fatto rischiando la fame e la morte per sé e per il figlio, si è fidata dell’ “uomo di Dio” … qui nulla di tutto questo: la vedova di Naim ha solo il suo dolore che genera in Gesù dolore compassionevole, un dolore che Luca esprime con un verbo che ama molto (“splanchnízein”) che, come più volte abbiamo rilevato, richiama il grembo, l’amore materno che soffre del dolore del figlio; questo dolore, che Gesù sente nel grembo, basta a Gesù per intervenire e lo fa con un ordine: “Giovinetto, dico a te, alzati!” (e usa il verbo “eghéiro” che è tipico, nel Nuovo Testamento, per parlare della risurrezione di Gesù stesso); l’ordine di Gesù non è preceduto da nessuna preghiera; Elia nel racconto del Primo Re ha, invece, fatto ripetutamente dei gesti e ripetutamente ha invocato il Signore, per tre volte! … qui no, Gesù pronuncia un ordine. Prima c’è solo un piccolo gesto, ma significativo: tocca il feretro. Per la tradizione ebraica toccare un morto è contrarre impurità e somma impurità, quella della morte. Gesù si contamina con la morte degli uomini, la assume; la sua compassione non è a basso prezzo; il suo compatire vorrà un prezzo di dolore e di morte, di sangue e di lacrime che Lui stesso verserà. Ferma il pianto della donna e si espone al pianto, sconfigge la morte ma ne ingoia tutta l’amarezza velenosa.

            Certamente Luca vuole sottolineare la forza della parola di Gesù; tutto l’evangelo sarà un canto a questa Parola che salva, Parola potente, performativa, Parola propedeutica d ogni risposta di fede: le donne al sepolcro devono ricordarsi le parole di Gesù per poter accedere alla comprensione della tomba vuota (cfr Lc 24, 6.8); i discepoli di Emmaus sono infiammati dalla Parola del Viandante sconosciuto e, con quel fuoco nel petto, potranno riconoscere il Risorto (cfr Lc 24, 32) … Qui la parola di Gesù è comando di resurrezione, qui tutto il racconto è definito da Luca una parola che si diffonde annunziando la visita di Dio. Nell’ultimo versetto del nostro passo, infatti, si dice, alla lettera: “questa parola si diffuse in tutta la Giudea e per tutta la regione” e non “la fama di questi fatti si diffuse …” Per Luca è chiaro che questo “miracolo” è una parola che è un fatto e che è un fatto colto come parola.

            E’ questa la fatica richiesta a chi si trova dinanzi a Gesù e deve leggere la rivelazione di Dio non solo nelle cose che Gesù dice ma, prima ancora, in quello che Lui compie; è questa la fatica di chi oggi legge l’Evangelo e deve cogliere il volto vero di Dio da quello che Gesù dice e da quello che Gesù compie; è questa la fatica che oggi dobbiamo compiere come cristiani per leggere la storia con uno sguardo contemplativo sapendovi cogliere le voci di Dio; è la fatica da fare dinanzi ad una Parola scritta e consegnata alla Chiesa ma che di continuo rinvia alla vita e chiede di diventare vita in un continuo e compromettente clima di incarnazione. La compassione di Gesù allora qui cerca spazi di compassione, la sua tenerezza cerca spazi di tenerezza, il suo compromettersi pagando il prezzo della contaminazione cerca chi sappia dire un suo sì coraggioso a toccare le morti del mondo, il putridume della storia degli uomini prendendone tutte le conseguenze.

            Il discepolo di Gesù non può che essere questo.

            Essere discepoli significa essere stati scelti per annunziare questa grazia, come scrive Paolo ai cristiani della Galazia, nel testo che oggi è la seconda lettura; scelti come strumenti amati, scelti a prendere posizione nella storia senza calcoli di rischi.

Fonte:www.monasterodiruviano.it

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