mons. Benigno Papa,“discepoli missionari”

VICARIATO DI ROMA
Ufficio Liturgico
Mons. Benigno Papa
TREDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
1Re 19,16b.19-21; Gal 5,1.13-18; Lc 9,51-62
1. Il contesto ecclesiale più adatto per la comprensione e per l’accoglienza

della parola di Dio contenuta nelle tre letture di questa domenica credo
sia quello di una comunità missionaria impegnata ad annunciare il
Vangelo per rendere presente nel mondo il Regno di Dio, nella quale
tutti i cristiani per il dono dello Spirito ricevuto al battesimo si sentono
chiamati a essere discepoli missionari. Nel Vangelo si parla dell’invio in
missione di alcuni discepoli in un villaggio dei samaritani, dell’invio di un
altro discepolo ad annunciare il Regno di Dio e della modalità concreta
di seguire Gesù nella vita quotidiana (Lc 57,62). Anche la prima lettura
ha come tema la chiamata di Eliseo a essere discepolo di Elia per
continuare nel regno di Israele la sua missione. Preziosa è poi la
testimonianza che Paolo dà dell’originalità della vita cristiana intesa
come esperienza di libertà che si esprime nel servizio agli altri,
compiuto nella carità e nella parresia apostolica, che sono entrambe
frutto dello Spirito.
L’espressione originale coniata da papa Francesco sui cristiani come
“discepoli missionari” (EG 117-121) va presa cosi come essa suona,
senza essere trasformata in quella di “discepoli e missionari” come se si
trattasse di due categorie distinte di cristiani o di due modelli di vita che
si succedono l’uno all’altro. Si tratta invece di due modalità distinte che
sono presenti l’una nell’altra o di due facce di una stessa medaglia, nel
senso che non si può essere vero discepolo senza che non si sia anche
missionario, e non si può essere vero missionario senza che uno sia
anche autentico discepolo. Il vero discepolo è colui che, avendo
scoperto in Gesù la gioia della propria vita, sente la necessità interiore
di condividere con altri tale esperienza (EG 14), e il vero missionario
non è colui che annuncia una sua ideologia o si limita soltanto a una
esposizione religiosamente neutra della dottrina cristiana, ma il
testimone del Risorto, colui che afferma con le parole quanto vive nella
sua esistenza. Non a caso il Signore risorto dice agli apostoli che la loro
attività missionaria dalla Pasqua alla Parusia è racchiusa nell’essere
suoi testimoni (At 1,8), programma di vita che Pietro illustra con la frase
: “Non possiamo tacere ciò che abbiamo visto e udito” (At 4,20). È il
vissuto cristiano che dà credibilità all’annuncio.
Il viaggio che Gesù compie con i suoi discepoli fino a Gerusalemme e
che si conclude con la sua glorificazione dopo essere passato
dall’esperienza della passione è un vero itinerario di fede incentrato non
tanto sull’apprendistato di una dottrina quanto piuttosto sulla
condivisione di una stessa vita, quella di Gesù, a cui il discepolo si
sente legato da un rapporto vitale per la presenza in lui dello Spirito
Santo che è lo stesso Spirito di Gesù. Il viaggio locale che conduce
Gesù con i discepoli è metafora del percorso spirituale nel corso del
quale i discepoli e noi cristiani di oggi impariamo da lui “le vie della vita”
(At 2,28) e ad accogliere Gesù come “la Via, la Verità e la Vita” (Gv
14,6).
2. La prima lettura è un breve ma grazioso racconto di vocazione
profetica, anche se redatto in terza persona singolare e non nella prima
come per il racconto delle vocazioni di Isaia, Geremia, Ezechiele e non
contiene alcun elemento teofanico. Si tratta della vocazione di Eliseo,
avvenuta verso l’anno 860 a.C., in un tempo in cui il regno di Israele
viveva una delle stagioni più floride dal punto di vista economico, ma
più critiche dal punto di vista religioso, perché la regina Gesabele
moglie di Achab, aveva introdotto il culto a Baal di Tiro quale religione di
stato del regno di Israele.
La chiamata di Eliseo nasce da un iniziativa di Dio che comanda ad Elia
di scegliere e consacrare Eliseo come discepolo per continuare la sua
missione: “Sceglierai Eliseo… come profeta al tuo posto”. Elia si
incontra con Eliseo quando questi era in campagna a svolgere il suo
lavoro quotidiano. Appartenente a una famiglia di ricchi proprietari che
contavano su di lui, Eliseo stava arando “con dodici paia di buoi davanti
a sé”. La Bibbia racconta molte storie di vocazioni avvenute quando la
persona chiamata si trova a svolgere il suo abituale lavoro quotidiano. È
questo un segno della natura assolutamente imprevedibile della
chiamata divina. Elia non rivolge a Eliseo alcuna parola, ma getta su di
lui che lavora il suo mantello, come segno che lo ha scelto perché lo
segua. È un gesto di investitura profetica perché il mantello è simbolo
del profeta, che ha un duplice significato: essere partecipe del carisma
profetica di Elia ed essere a lui legato per sempre nel corso della sua
vita. Eliseo manifesta di aver subito compreso il significato del gesto
simbolico compiuto da Elia per chiedergli se può andare ad
accomiatarsi dai suoi genitori. Cosa a cui Elia dà il suo assenso dopo
avergli ricordato qual è d’ora in poi la sa missione: “Va e torna perché
sai cosa ho fatto per te”. Che Eliseo risponda positivamente alla
chiamata divina appare dal fatto che egli uccide un paio di buoi, li fa
cuocere con la legna del suo strumento di lavoro e offre un banchetto di
addio ai suoi parenti. Si tratta di un chiaro gesto simbolico attraverso il
quale Eliseo spezza i legami con il suo passato e si mette subito a
disposizione del profeta Elia. Il racconto infatti termina con
l’affermazione: “Quindi si alzò e seguì Elia entrando al suo servizio”.
Non si tratta di un servizio puramente umano perché, essendo Elia un
uomo di Dio, è già esso stesso un servizio a Dio. Il racconto è un
esempio stupendo di obbedienza libera e incondizionata alla chiamata
di Dio mediata dal profeta Elia. Nonostante il racconto sia un esempio
della sequela dell’antico patto, esso colpisce per la semplicità e la
radicalità della scelta compiuta al servizio di Dio.
3. La seconda lettura si apre con un indicativo teologico al quale segue
immediatamente un imperativo etico. L’indicativo teologico è: “Cristo ci
ha liberati perché restassimo liberi”. La libertà è senza dubbio la
caratteristica prima dell’esperienza di grazia della vita cristiana. Essa è
un dono gratuitamente offerto da Cristo con la sua morte redentrice.
Questa convinzione profonda è proclamata da Paolo con un grido di
vittoria: “Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in
Cristo Gesù perché la legge dello Spirito ti ha liberto dalla legge del
peccato e della morte” (Rm 8,1-2). L’incontro avuto da Paolo con il
Signore risorto sulla via di Damasco venne da lui percepito come un
evento di liberazione da una gerarchia di valori su cui prima aveva
fondato la sua esistenza (Fil 3,7-ss) e la nuova vita di fede che iniziava
era intesa come un’esperienza di libertà che egli attribuisce all’azione
dello Spirito, perché “dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà” (2Cor
3,17). L’imperativo etico: “State dunque saldi e non lascatevi imporre di
nuovo il giogo della schiavitù” è indirizzato alle chiese della Galazia
perché esse non aderiscano alle proposte dei giudaizzanti che
esigevano dai pagani convertiti della regione galata oltre che la fede la
pratica della circoncisione. Ma l’esperienza pastorale da Paolo avuta
con la comunità di Corinto ove c’erano alcuni cristiani che in nome della
libertà dicevano: “Tutto mi è lecito” (1Cor 6,12) induce l’apostolo a
precisare che la libertà cristiana non va intesa in senso individualistico e
libertino. Essa infatti si concretizza in un servizio reso agli altri mediante
la carità e in una condotta morale vissuta “secondo lo Spirito” per non
rischiare di dare compimento ai desideri della carne. “La carne ha infatti
desideri contrari allo Spirito e lo Spirito desideri contrari alla carne:
queste cose, infatti si oppongo tra loro affinché non facciate qualsiasi
cosa che vorreste” (Gal 5,16-17). È questo un testo che esprime in una
maniera molto efficace la situazione di lotta in cui il cristiano vive la sua
vita di fede al centro di un antagonismo tra “Spirito e carne” dal quale,
dice l’apostolo, si esce vittoriosi se i cristiani si lasciano guidare dallo
Spirito (Gal 5,18), se conformano la loro condotta alla linea tracciata
dallo Spirito (Gal 5,25b). Non bisogna mai dimenticare che lo Spirito
Santo è lo Spirito di Gesù e, come lo Spirito ha guidato Gesù nel corso
di tutta la sua vita a restare sempre fedele al disegno salvifico di Dio su
di lui, così condurrà efficacemente i cristiani a essere fedeli al dono di
grazia ricevuto, perché lo Spirito è più forte della carne. Vale la pena
notare che in Gal 5,16-17 non si parla di due forze antitetiche uguali che
si contendono il dominio sull’uomo, come invece nella regola della
comunità di Qumran nella quale si parla di due spiriti antitetici posti da
Dio nell’uomo, lo Spirito di verità e lo Spirito di perversione (1QS
13,4.26): Paolo non parla di due Spiriti antitetici ma di un antagonismo
tra Spirito e carne, perciò chi segue le indicazioni dello Spirito è sicuro
di riuscire a superare le sollecitazioni che vengono dalla carne.
4. Il brano evangelico racconta l’inizio della parte centrale del Vangelo
(9,51-19,27) nella quale Luca descrive il “viaggio” che Gesù compie
dalla Galilea fino a Gerusalemme per dare compimento al disegno
salvifico di Dio che si realizza nella figura del Messia sofferente (At
26,23). Annunciato già dalla profezia della sua passione (9,22.44) e dal
racconto della Trasfigurazione (9,28-36) il cammino di Gesù diventa
una scuola di formazione dei discepoli che vengono istruiti sulla vera
natura dell’identità messianica di Gesù e sulla modalità della sua
sequela.
Colpisce la ferma determinazione con la quale Gesù, nella piena libertà,
decide di conformare la sua vita al progetto di Dio. Esso non è da lui
subito come una fatalità alla quale egli obbedisce in una maniera
meccanica, ma è accolto come atto di amore del Padre che “il Figlio,
l’Eletto” fa suo con altrettanto amore.
Alcuni discepoli inviati da Gesù come suoi messaggeri in un villaggio
dei samaritani per preparare la sua venuta devono fare la triste
esperienza del fallimento della loro missione perché Gesù “era diretto
verso Gerusalemme”. È qui anticipato all’inizio del viaggio quella
opposizione che Gesù incontrerà alla fine del viaggio con il rifiuto della
figura del Messia sofferente (Lc 23,35). Luca pone sulle labbra dei “Figli
del Tuono” un’espressione di Elia (2Re 1,10-12) con la quale punire
severamente i samaritani che non avevano accolto il Signore Gesù. Ma
questi li rimprovera perché la sua missione inaugurava “l’anno di
misericordia del Signore” (Lc 4,19) che dura tutto il tempo della sua
missione e per tutto il tempo della Chiesa, che è tempo di conversione,
misericordia, pazienza e soprattutto è tempo di rifiuto di ogni violenza.
La glossa interpretativa presente in alcuni manoscritti coglie nel segno il
senso del rimprovero di Gesù: “Voi non sapete di quale Spirito siete”
(perché il Figlio dell’Uomo non è venuto per perdere la vita ma per
salvarla). La correzione di Gesù ha un effetto positivo perché il gruppo
si ricompatta: Gesù non è più solo come all’inizio (9,51), perché i
discepoli lo accompagnano (9,56). Nella seconda parte del Vangelo
viene raccontato come seguire Gesù nella vita. Il discepolo di Gesù è
colui che lo segue nel suo stesso stile di vita. Nulla di umanamente
legittimo e anche di religiosamente doveroso può oscurare questo
rapporto vitale. Perciò al primo che gli esprimeva la volontà di seguirlo
ovunque, Gesù chiede di avere un cuore povero, libero da sicurezze
materiali per porre la propria sicurezza soltanto in Dio. Al secondo, che
Gesù aveva invitato alla sua sequela, chiede di avere un cuore casto,
libero da sicurezze affettive per dedicarsi alla dolce e confortante gioia
dell’evangelizzazione. Al terzo che chiede di seguirlo, Gesù chiede di
avere un cuore obbediente, libero dal proprio io personale per non
guardare al passato con nostalgia, per sentirsi impegnato nel lavoro
che si compie al presente e guardare al futuro con fiducia e speranza.

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