Mons. Benigno Papa,“La tua fede ti ha salvata, va in pace”

VICARIATO DI ROMA
Ufficio Liturgico
UNDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
2Sam 12,7-10.13; Gal 2,16.19-21; Lc 7,36-8,3
1. Nell’anno del giubileo straordinario della misericordia la celebrazione

eucaristica di questa domenica ci consente di prendere rinnovata
consapevolezza che la Santa Messa è il dono più grande della
misericordia di Dio perché non soltanto ci permette di riflettere sul tema
del peccato e della misericordia, che è il contenuto delle letture bibliche,
ma soprattutto perché possiamo renderci conto che il dono della
misericordia di Dio è un’esperienza pasquale che ci fa passare dalle
tenebre del peccato alla luce della grazia, dalla morte alla vita.
Non deve sorprenderci il fatto che il cammino di fede dei credenti sia
segnato dal peccato. Nonostante i doni di grazia che Dio ha riversato e
riversa sull’umanità e nella vita del suo popolo, noi restiamo uomini
deboli, fragili, e non riusciamo sempre a fare un uso buono della libertà
che Dio ci concede. Ma la storia umana non è segnata soltanto dal
peccato dell’uomo, ma anche e soprattutto dalla misericordia di Dio che
dona e ridona sempre e a tutti vita, luce, coraggio, speranza. Dobbiamo
sempre tener presente che “Dio è misericordioso e pietoso, lento all’ira
e ricco di amore e fedeltà” (Es 34,6), che il suo volto misericordioso si è
reso visibile in Gesù Cristo, nel suo modo di relazionarsi con le
persone, con tutto il suo insegnamento e soprattutto con la modalità
con cui ha voluto consegnare la sua vita alla morte perché noi
potessimo passare dalla morte alla vita.
Anche se il tema della misericordia di Dio è estraneo alla cultura diffusa
nella società non per questo bisogna ritenere che essa non ne abbia
bisogno. “Abbiamo sempre bisogno di contemplare il mistero della
misericordia, è fonte di gioia, di serenità e di pace… è la legge
fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con
occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia
è la via che unisce Dio all’uomo perché apre il cuore alla speranza di
essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato”
(Misercordiae Vultus 2).
Quando ci sentiamo schiacciati dal peso del peccato non dobbiamo
aver paura di far appello alla sua misericordia. Dio “non si stanca mai di
perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere la sua misericordia.
Colui che ci ha invitati a perdonate settanta volte sette ci da l’esempio.
Egli perdona settanta volte sette. Torna a caricarci sulle sue spalle una
volta dopo l’altra. Nessuno potrà toglierci la dignità che ci conferisce
questo amore infinito e incrollabile. Egli ci permette di alzare la testa e
ricominciare con una tenerezza che mai ci delude e che sempre può
restituire la gioia. Non fuggiamo dalla risurrezione di Gesù, non diamoci
mai per vinti, accada quel che accada. Nulla possa più della sua vita
che ci spinge in avanti” (Evangelii Gaudium 3).
2. La prima lettura racconta il peccato di Davide. Una triste esperienza del
re di Israele che è rimasta sempre viva nella tradizione biblica antico e
neo testamentaria. Il Salmo 51,2 lo ricorda nel suo titolo: Quando
Natan, il profeta venne dal lui (Davide) dopo che si era accostato a
Batsabea. Il Vangelo di Matteo (1,6) sottolinea che Salomone nacque
da Davide e dalla moglie di Uria.
Si tratta di un peccato molto grave: per la passione verso una donna,
Davide non solo commise un adulterio ma divenne un assassino. E
l’aspetto più infamante nel delitto commesso sta nel fatto che egli fece
uccidere Uria a tradimento. Comandò infatti a Joab, generale del suo
esercito impegnato in una campagna militare contro gli Ammoniti, di
collocare il marito di Betsabea in una zona della battaglia nella quale
egli sarebbe certamente morto. La gravità del peccato è tanto più
pesante quando si pensa che Davide era stato da Dio riempito di doni:
era stato scelto e unto re di Israele, era stato liberato dalle mani di Saul
che più volte aveva tramato contro di lui, aveva anche ereditato l’harem
della reggia di Saul. Ma tutte le donne della reggia non erano sufficienti
per lui: ne desiderava un’altra coniugata con Uria, l’Ittita.
Il Signore mandò Natan da Davide per fargli prendere coscienza del
suo peccato. Il profeta raccontò con abilità al re una parabola che a
prima vista non sembrava avere nulla a che fare con la triste storia
dolorosa del peccato, e invita il re, nella sua qualità di giudice dei suoi
sudditi, a pronunciare una sentenza su quanto raccontato. Cosa che
Davide fa, pronunciando in tal modo la sua stessa condanna. Riesce
poi facile al profeta aprirgli gli occhi sulla gravità della sua colpa: “Tu sei
quell’uomo” (2Sam 12,7). Natan poi gli fa notare che, pur essendo stato
Davide ampiamente gratificato da Dio, “aveva disprezzato la parola del
Signore” (2Sam 12,10). Con quest’espressione il profeta rimprovera
Davide di aver compiuto il male agli occhi di Dio per aver trasgredito la
vita di alleanza con Lui, alla quale il re - come qualsiasi altro suddito e
più di qualsiasi altro israelita - avrebbe dovuto attenersi. Tra le “dieci
parole” che regolano la vita di alleanza con Dio c’è il “Non uccidere” e il
“Non commettere adulterio”. Natan accusa il re di aver violato questi
due principi fondamentali della vita di fede della comunità di Israele.
Dopo aver ascoltato le accuse precise del profeta, Davide riconosce
apertamente il suo peccato: “Ho peccato contro il Signore”. È la formula
classica della confessione con la quale si afferma di aver mancato
contro qualcuno, uomo o Dio. Troviamo questa espressione sulle labbra
del figlio minore che ritorna pentito alla casa del padre (Lc 15,18). Sulle
labbra di Davide questa espressione dice soprattutto di aver tradito la
fiducia di Dio con un duplice atto di disobbedienza alla parola del
Signore, che è alla base del rapporto vitale con Lui.
A questo punto il profeta, a nome di Dio, annuncia a Davide: “il Signore
ha perdonato il tuo peccato: tu non morirai” (2Sam 12,13). Nel ritornello
del salmo responsoriale risuona il legame che c’è tra confessione del
peccato e perdono: “Ti ho fatto conoscere il mio peccato, non ho
coperto la mia colpa. Ho detto confesserò al Signore la mia iniquità e Tu
hai tolto la mia colpa e il mio peccato”. Il salmo testimonia la gioia che il
peccatore perdonato da Dio sperimenta: “Beato l’uomo a cui Dio non
imputa il peccato”, che egli non riesce a contenere nella sua persona,
ma sente la necessità interiore di comunicare agli altri: “rallegratevi nel
Signore, esultate o giusti; voi tutti retti di cuore gridate di gioia”.
3. La seconda lettura espone in maniera stringata la nuova relazione
dell’umanità con Dio, compiuta nella pienezza del tempo con la venuta
del suo Figlio il Signore Gesù Cristo “che ha dato se stesso per i nostri
peccati, per strapparci da questo mondo perverso secondo la volontà di
Dio e Padre nostro” (Gal 1,4). L’evento della croce di Gesù non è un
capriccio della storia, non è accaduto per caso, ma per un disegno
salvifico della misericordia di Dio che non può essere vanificato. Non è
l’osservanza della legge che rende giusti gli uomini, ma la fede
nell’amore misericordioso del Padre e l’adesione piena e totalizzante
alla persona di Gesù che è morto e risuscitato per farci morire al
peccato e farci rivivere per Dio al servizio dei fratelli, sull’esempio di
Gesù. È una giustizia, quella che ci viene offerta in dono, che ci libera
dalla presunzione e dalla disperazione che la necessità di osservare la
legge genera nelle persone, e ci consente invece di avere una relazione
vitale con Cristo, il cui amore per noi è fondamento di una fiducia piena
in Lui: “Questa vita che io vivo nella carne, la vivo nella fede del Figlio di
Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).
4. Quanto affermato da Paolo con un linguaggio teologico astratto, è
raccontato da Luca nel brano del Vangelo. Esso è collocato alla fine di
una sezione letteraria in cui Gesù aveva premiato la fede del centurione
di Cafarnao guarendo il suo servo, aveva dato la vita al figlio della
vedova di Nain senza alcuna richiesta previa e aveva risposto ai
delegati di Giovanni il Battista, che lo avevano interrogato sulla sua
dignità messianica, che la sua attività dava compimento a quanto era
stato preannunciato dai profeti in merito (Lc 7,22). Nonostante ciò i
farisei e i dottori della legge, come non avevano accolto Giovanni il
Battista (Lc 7,30), così non vedevano in Gesù se non “un mangione e
un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” (Lc 7,34). Il racconto
evangelico ha il suo centro nella modalità diversa di valutare il
comportamento di una peccatrice da parte del fariseo Simone che
aveva invitato Gesù a mangiare da lui e lo stesso Gesù, sulla cui
identità i commensali si interrogano (Lc 7, 49). Nei confronti della donna
che stando dietro a Gesù bagnò i suoi piedi con le lacrime, li asciugò
con i suoi capelli, li baciò e li cosparse con olii profumati, il fariseo non
vede se non una peccatrice e nel gesto da lei compiuto una riprova che
Gesù non può essere un profeta perché, se lo fosse, non si sarebbe
lasciato toccare da una peccatrice (Lc 7,39). Gesù invece, conoscendo
quanto frullava nella mente di Simone, gli risponde con una parabola:
un creditore aveva due debitori; uno gli doveva cinquecento denari,
l’altro cinquanta. Non avendo essi la possibilità di restituirli il creditore
condonò il debito a tutti e due. “Chi di loro due lo amerà di più?” Questa
domanda posta a Simone e alla quale il fariseo risponde in maniera
corretta, spiana la strada per leggere in maniera autentica il
comportamento della donna nei confronti di Gesù, confrontabile con
quella manifestata da Simone nella sua risposta. Mentre questi non
aveva visto nella donna se non una peccatrice da cui Gesù avrebbe
fatto bene a prendere le distanze, Gesù invece, amico dei pubblicani e
dei peccatori, vede nel comportamento della donna una peccatrice
perdonata e perciò dichiara a Simone: “I suoi molti peccati sono
perdonati giacché ha molto amato” (Lc 7,47). Il fariseo non conosce il
dovere della gratitudine, è estraneo alla logica del perdono perché
ignora i doni del Signore, anzi è convinto che con l’osservanza dei
precetti della Legge è lui a dare qualcosa a Dio; la peccatrice invece sa
di aver ricevuto molto da Dio perché il suo debito era molto grande.
Sentitasi perdonata dal Signore ha avvertito il bisogno interiore di
manifestare il suo amore grande verso Colui dal quale si sentiva accolta
e perdonata. Non è stato l’amore espresso con il suo comportamento a
diventare causa del perdono dei suoi peccati, ma è il perdono ottenuto,
l’amore ricevuto dal Signore che spinge la peccatrice a rispondere con
amore verso Gesù. La frase successiva di Gesù “Colui al quale si
perdona poco, ama poco” (Lc 7,47b) conferma quanto detto prima. Non
siamo noi per primi ad amare, ma è Dio. Il nostro primo dovere è
riconoscere il suo amore nei molteplici gesti di perdono che egli ci
elargisce e rispondere a Lui con un amore che dovrà sempre essere un
amore riconoscente. Poi Gesù ripete anche alla donna quanto aveva
detto a Simone manifestando cosi di avere l’autorità divina di rimettere i
peccati (Lc 5,21), così come aveva manifestato di avere l’autorità divina
di ridare la vita al figlio della vedova di Nain. La domanda dei
commensali “Chi è mai costui che perdona anche i peccati?” resta
senza una risposta esplicita, ma questa è implicita nei fatti che sono
segni autentici della sua autorità divina. Il Vangelo termina con le parole
di Gesù rivolte alla donna della quale sottolinea la fede nella
misericordia di Dio che distrugge tutti gli ostacoli che si frappongono fra
questa povera peccatrice e Dio e le ridona la pace: “La tua fede ti ha
salvata, va in pace”.

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