Carla Sprinzeles "Come possiamo incontrare Dio?"

Commento su Deuteronomio 30,10-14; Luca 10,25-37
Carla Sprinzeles  
XV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (10/07/2016)
Vangelo: Lc 10,25-37 
La liturgia oggi ci propone il centro della buona notizia di Gesù.
Come possiamo incontrare Dio?
Dio è una presenza che può trasformare il nostro cuore.

Il senso della nostra vita non sta nelle norme esteriori, ma in un agire che si avvicina a Dio.
Il nostro modello è Gesù, occorre trasformare il nostro cuore, dall'indifferenza al riconoscere l'altro, a prendersi cura del fratello che ha bisogno di noi.
DEUTERONOMIO 30, 10-14
La prima lettura è tratta dal libro del Deuteronomio e conclude i cinque libri del I Testamento, la Legge, la Torà, si tratta delle ultime parole pronunciate da Mosè alla fine del suo quarto e ultimo discorso.
Il gruppo dei redattori del Deuteronomio ha riscritto la storia relativa agli episodi dell'Esodo e del lungo cammino nel deserto oltre sette secoli più tardi, in un periodo di forte crisi per Israele, quella che coincide con la distruzione di Israele, quella che coincide con la distruzione di Gerusalemme, l'esilio babilonese e il difficile ritorno. Ne traspare la convinzione che vi sia un'unica via d'uscita da questa drammatica situazione: ritornare alla Legge, alla Torà di Mosè, ad attuare una scrupolosa osservanza dei decreti e dei comandamenti del Sinai, assumendoli quale regola di vita.
La "legge " di Dio scaturisce dall'Alleanza, una relazione di amore e fedeltà, che impegna Dio e l'uomo. In base a questa relazione di amore, l'obbedienza ai comandamenti è l'espressione di una fiducia e di un riconoscere Dio che si è mostrato vicino all'uomo con la sua parola e in molti modi.
Ciò che il Signore chiede è una "conversione" interiore perché la sua Parola non avrà altra efficacia finché non passerà dalle tavole di pietra al "cuore dell'uomo".
Ognuno la può imparare, ricevere, conservare dentro, mettere in pratica e tradurre in coerenti scelte di vita.
Conoscere, amare e incarnare nella nostra vita questo comando d' amore cessa di essere un impegno estraneo e inarrivabile.
Ogni nostra difficoltà a comprendere e praticare questa Parola è il risultato di una nostra carenza di amore, un campanello di allarme che ci avverte come nel nostro cuore questa sorgente si è pericolosamente inaridita.
I precetti del Signore fanno gioire, non sono vincoli che opprimono l'uomo, che lo privano della libertà, ma piuttosto come le indicazioni per avere una buona vita felice, per riuscire nell'esistenza, proprio avendo i precetti divini come orientamento di azione.
Mettere in pratica la sua parola, non è rinunciare alla nostra autonomia, ma agire secondo verità e saggezza, per diventare autenticamente liberi.
La vera libertà sta nel vivere da figli di Dio.
La vita da figli ci libera infatti dai condizionamenti generati da cose, da persone, da noi stessi, condizionamenti di cui spesso diventiamo schiavi e che ci privano della vera gioia.
LUCA 10, 25-37
Oggi come abbiamo già detto siamo condotti al cuore dell'evangelo di Gesù.
Tutto si svolge a partire da un interrogativo di un dottore della Legge: "Cosa devo fare per ereditare la vita eterna?".
Gesù gli risponde con un'altra domanda: "Cosa sta scritto nella Legge?", perché il suo interrogativo era superfluo anzi pretestuoso. Lo scriba sa che accanto all'amore di Dio non deve mancare quello incondizionato ai fratelli, scritto già nel Levitico!
Quindi pone un'altra domanda: "Chi è il mio prossimo?"
Forse con la sua domanda pretendeva un elenco rassicurante di persone per bene alle quali indirizzare il proprio amore, o un elenco di categorie secondo gradi di parentela, di vicinanza etnica o religiosa.
Gesù non si allinea con nessuna scuola di quel tempo, ma raccontando una parabola esce dalle categorie abituali, invita ad andare oltre, verso una concezione nuova.
La cornice del testo è il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, e se ricordate il vangelo di qualche domenica fa, era stato respinto dai samaritani proprio perché era diretto verso Gerusalemme.
Poi Gesù viene accolto nella casa di Marta, Maria a Betania. E' chiaro che l'evangelista faccia notare come Gesù, nella sua difficile missione, sperimenta la gioia dell'accoglienza e la tristezza del rifiuto e disprezzo. Anche il discepolo deve aspettarsi situazioni contrapposte.
Per spiegare chi è il prossimo, si rivolge al dottore della legge e gli fa toccare con mano che parla di un personaggio presente, non lontano, di un Samaritano che vide il malcapitato e ne ebbe compassione, un profondo trasporto emotivo, che spinge il Samaritano a prendersi cura dell'uomo mezzo morto, rendendolo suo "prossimo".
Gesù stimola il suo interlocutore, il dottore della legge, e noi, a uscire dallo stretto ambito della legge e a confrontarsi con la realtà della vita, dove si rende conto di fare strada con fratelli e sorelle che sono nel bisogno.
Chi vuole ereditare la vita, deve collocarsi in questo ambito di vicinanza e di solidarietà con l'altro, mettendo in atto l'unico movimento d'amore che abbraccia Dio e il prossimo.
Il sacerdote e il levita che "passano dall'altra parte" non sono cattivi, sono persone legate al concetto e alle leggi del "puro e impuro". Si erano appena purificati e avrebbero potuto assolvere ai loro doveri se avessero "toccato" l'uomo mezzo morto.
"Un Samaritano ebbe compassione". Uno che non praticava la religione giusta, un eretico, un escluso, comunque certo uno da cui non ci si poteva aspettare granché di buono. E lui ebbe compassione.
In un dormitorio pubblico veniva ogni tanto una donna che viveva sulla strada. Non si lavava mai e puzzava al punto che perfino gli altri barboni si allontanavano da lei.
Non parlava ma ogni tanto lanciava un urlo, a qualsiasi ora, rischiando di svegliare tutti. Non si coricava mai, restava dritta su una sedia. Una notte, il giovane psicologo di guardia, che già tante volte aveva provato ad entrare in relazione con lei, era triste: aveva dovuto ricoverare la madre nel pomeriggio. Quella sera, troppo preoccupato pensava di essere inutile. A un certo punto si sentì abbracciare con tenerezza, una mano si posò sulla sua spalla mentre una voce sconosciuta gli chiedeva perché stava così male. Era lei. Senza nemmeno accorgersi si era trovato a piangere sulla sua spalla, a confidarle le preoccupazioni per la mamma. Solo lei aveva saputo venirgli incontro e scoprire la sua pena, nonostante fossero presenti altri operatori amici.
"Chi è stato il prossimo? Chi ha avuto compassione?"
Quella donna matta e disprezzata.
Ma allora è forse necessario vivere in una situazione di sofferenza per essere in grado di lasciarsi toccare dalla fatica dell'altro?
L'amore esige una certa connaturalità. Chi soffre intuisce le difficoltà dell'altro più facilmente di chi è euforico. Ritrova nell'altro il proprio smarrimento, e lo può avvicinare senza paura, perché non ha più niente da perdere.
Chi invece possiede molti beni si china sul povero, ma rimane lontano per la paura che suscita in lui l'immagine di una umanità devastata.
Amici, non ci resta che guardarci dentro, siamo ricchi delle nostre convinzioni, ma poveri di amore? La domanda del dottore della legge, non verteva tanto sul comandamento dell'amore, quanto sull'applicazione della legge. Il superamento della tensione tra il "prossimo" come oggetto d'amore e il "prossimo" come soggetto d'amore, garantisce l'aderenza alla realtà compassionevole.


Fonte:qumran2.net

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