Alessandro Cortesi op, XIX domenica tempo ordinario – anno C – 2016

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XIX domenica tempo ordinario – anno C – 2016
Sap 18,3.6-9; Eb 11,1-2.8-19; Lc 12, 32-48
“la notte della liberazione fu preannunciata ai nostri padri perché avessero coraggio… il tuo popolo
infatti era in attesa della salvezza… ”. Notte e giorno, tenebre e luce: è contrapposizione che attraversa la Bibbia. La notte è simbolo del buio e del male, la luce della vita divina. La migrazione dell’esodo si compie di notte ma il buio è squarciato dalla colonna di fuoco e luce. La luce diviene segno: il Signore stesso guida illuminando il cammino del popolo: “la notte della liberazione desti al tuo popolo, Signore, una colonna di fuoco, come guida in un viaggio sconosciuto e come sole innocuo per il glorioso migrare”.

“Non temere piccolo gregge, perchè al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno”. Gesù indica il regno come un modo nuovo di vivere, scoprendo che Dio è vicino e genera rapporti nuovi e un modo diverso di vedere le cose: la conversione richiesta è un orientamento diverso. Passare dall’idea che le cose cambiano per opera dei grandi, dei ricchi, dei sapienti, alla consapevolezza che il regno è dato ai piccoli. Chi compie la scelta di non accaparrare per sé, chi sceglie di essere senza interessi e potere da difendere, è capace di farsi borse che non invecchiano. Non è una scelta di irresponsabile e di irrealtà: Gesù chiede di intendere in modo nuovo l’uso di tutti i beni. Quello che si ha in tanti modi e in tutte le sue forme può essere utilizzato divenendo schiavi delle cose, oppure nella logica del dono e del servizio. La parola di Gesù tocca le cose concrete, la gestione di quei beni che segnano la nostra vita. Vivere la ‘elemosina’ indica maturare una attitudine di misericordia e compassione per gli altri: non tanto fare un’offerta, ma vivere la propria vita come consegna.

La prima parabola indica una beatitudine indirizzata ai servi che il padrone ritornando trova svegli nel mezzo della notte, intenti alle loro opere. Per loro preparerà una cena e si metterà a servirli. E’ parola che evoca il gesto di Gesù nell’ultima cena, sintesi di tutta la sua vita ed anche promessa. Proprio il vangelo di Luca al momento dell’ultima cena riporta queste parole di Gesù: “chi è più grande, chi sta a tavola, o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve… e io preparo per voi un regno come il Padre l’ha preparato per me…” (Lc 22,25-29).

“Siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito apena arriva e bussa”: il profilo del padrone è particolare. E’ uno strano padrone che deve bussare per entrare: Dio è tutt’altro che padrone, è piuttosto presenza discreta che bussa e chiede di entrare e attende: “Ecco io sto alla porta e busso…” (Ap 3,20).

La seconda breve parabola parla dell’irrompere inatteso del ladro che scassina la casa di notte. E’ una parola difficile perché il venire del figlio dell’uomo è accostato al presentarsi di un ladro. Certo, chi intende la propria vita come il ricco stolto, tutto preso dal programmare come ingrandire i granai per accumulare, percepisce la venuta del Signore come un ladro che gli strappa via ciò in cui ha riposto la ricchezza della propria vita. Solo chi pensa di vivere la vita come possesso si troverà spossessato e derubato.

Una terza parabola infine presenta un amministratore fedele, pronto, al suo posto, che svolge il suo servizio nel quotidiano in fedeltà senza fare calcoli sull’ora del ritorno del padrone di casa. In quella casa dove il padrone torna, la fedeltà dell’attesa è vissuta dall’amministratore. L’amministratore non è il padrone, ma è colui che ha ricevuto in consegna qualcosa. La sua è la condizione di chi ha in affido qualcosa che non è suo.

L’invito che attraversa queste narrazioni è ad ‘essere pronti’: ‘… con la cintura ai fianchi e le lucerne accese: siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa’. Essere pronti per poter mantenersi non impediti dall’accogliere, non distratti nell’attendere. Capaci di attesa e lucidi per non lasciarsi vincere dal sonno od opprimere dalla fatica. Pronti per aprirsi ad un incontro di visita.

Essere preparati non è cosa scontata: è più facile lasciarsi sopraffare da distrazioni perdendo il senso del tempo, dimenticandone il limite. Stare pronti è l’attitudine di chi si prende cura, lo stile di chi si mette in cammino, con i fianchi cinti, e la lampada in mano per illuminare anche la notte. E’ questo il vestito della pasqua quando l’agnello fu consumato insieme divisi per famiglia, pronti a partire, con i fianchi cinti: ‘Ecco come mangerete l’agnello: coi fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano’ (Es 12,11). L’essere pronti rinvia ad un viaggio: è un sempre nuovo cammino di esodo, è il viaggio pasquale. In esso non viene meno il pericolo e l’angoscia del buio, ma si è chiamati a scorgere i segni della presenza vicina del Dio che guida come luce.

C’è quindi un richiamo forte in queste letture a considerare tutta la vita cristiana come un viaggio che trova il suo paradigma nel cammino dell’esodo. ‘Noi siamo pellegrini e stranieri come i nostri padri’ (1Cr 29,15). La percezione di essere in pellegrinaggio attraversa le diverse spiritualità. ‘Carissimi, voi siete come stranieri ed emigranti in questo mondo; perciò io vi consiglio di stare lontani da quei desideri egoistici che vi spingono alla rovina.’ (1Pt 2,11). Percepirsi nella precarietà del cammino è tratto essenziale della comunità voluta da Gesù: implica intendere tutta l’esistenza come un viaggio. E’ la condizione di chi sa di non essere arrivato, di non possedere e si scopre legato nella compagnia di tanti altri. Nel cammino l’incontro con Dio si attua nell’incontro con tutti coloro che cercano una direzione, un senso, con tutti coloro che hanno fame e sete di libertà.

Alessandro Cortesi op
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Per fede…

Domenica scorsa, nell’ultimo giorno di un luglio insanguinato da atti di violenza efferati condotti in varie parti del mondo, e in particolare dopo il gesto dell’uccisione in una chiesa di Rouen di padre Jacques Hamel da parte di terroristi islamisti che hanno accompagnato la loro violenza con il grido ‘Allahu akbar’, molti musulmani hanno aderito all’appello dei loro imam di essere presenti nelle chiese durante l’assemblea domenicale. Un gesto importante per dire che l’esperienza del credere non può condurre alla violenza e che le fedi possono convivere in pace riconoscendo una fraternità costitutiva dell’unica famiglia umana, nelle sue differenze e nella molteplicità delle religioni e delle culture.

La domanda che sorge è allora: come vivere oggi ‘per fede’ come Abramo, come Sara, come tutti i padri e le madri che sono stati testimoni di affidamento e di cammino nella vita in un orizzonte di fede? Abramo e Sara, padri e madri in particolare delle famiglie religiose che ad essi si richiamano come radici. Siamo eredi di una storia in cui le religioni sono state responsabili di violenze senza limite e di guerre. L’ispirazione religiosa è tutt’oggi sfruttata ad alimento di fondamentalismi diversi che portano a concepire l’altro come nemico, o inferiore, o da salvare nell’assimilazione e nella sottomissione. E questo deve suscitare una riflessione approfondita su come maturare forme di proposta e di educazione che contrastino ogni fondamentalismo.

Qualche voce in questi giorni ha giustamente notato che la grande offesa degli atti di violenza oggi non è stata solo rivolta ad alcune comunità religiose, ma alla comuità umana indipendentemente dalla propria appartenenza religiosa. Così è stato nelle violenze eclatanti dei terroristi che hanno seminato morte e dolore in luoghi di vita ordinaria, ristoranti, pub, metropolitane, luoghi di ritrovo, piazze, aeroporti, mercati.

Gli occhi vanno poi tenuti aperti anche sulle forme nascoste della violenza che attraversa le vicende dei popoli sia nelle molteplici guerre dove si oppongono interessi politici e economici, sia in altri modi in cui la guerra è combattuta nelle forme della devastazione ambientale, dello sfruttamento delle risorse, nell’impoverimento delle popolazioni, nelle violazioni dei diritti umani e civili fondamentali. Sono tutte le forme di un sistema ingiusto che è stato costruito, che appare ineluttabile e che genera iniquità, miseria e disperazione.

Come partire come Abramo ‘per fede’ oggi? Forse questo tempo presenta una grande sfida che in prospettiva riunisce tutti, credenti e non credenti, ed a tutti senza distinzioni è rivolta. E’ la scoperta che siamo accomunati in questa terra, e si può distruggere tutto se si pretende di vivere senza l’altro, concependo l’altro come nemico, in logiche di esclusivismo e di pretesa di essere detentori di verità e non a servizio della verità da accogliere e ricercare. Se si pensa di essere padroni della propria esistenza, se non si cresce nella consapevolezza della custodia e del rispetto mite per la natura e per le altre persone, se non si riconosce la differenza di tradizioni, culture e l'esigenza di comporre insieme un vivere affrontando i conflitti inevitabili con la parola,  tutto diviene occasione di guerra e rincorsa per il dominio. Il passo richiesto ad ogni uomo e donna oggi è quello di scoprire il proprio cammino non come esclusivo, ma aperto alla visita e al’incontro. La grande opera richiesta oggi non si pone nella linea dell’uso delle armi, nel progettare nuove guerre, ma è una silenziosa e profonda opera di disarmo interiore e culturale, un cambiamento di direzione dell’intendere la propria stessa fede: una conversione del ‘togliersi i sandali’ di fronte alla vita degli altri, ponendosi in ascolto, in ricerca.

Solo tale percezione della fragilità della propria vita, del legame che stringe gli esseri umani e questi con la terra, può generare un futuro da vivere insieme, mai senza l’altro. Ciò implica che ho bisogno dell’altro per vivere ciò che di più profondo sta nella mia stessa esperienza umana o di fede. Solamente da qui può aprirsi il dialogo che si nutre di rispetto, fiducia e simpatia, ed è riconoscimento delle differenze e faticoso cammino per aperture nuove. Per chi vive un riferimento a fedi religiose questa risorsa di pace va rintracciata nelle profondità del proprio credo, nei termini della fraternità, della compassione, del senso del limite; per chi vive la propria esperienza umana come luogo di costruzione di una convivenza con gli altri questa risorsa di pace può essere ritrovata nelle profondità della propria umanità, nella nostalgia di rimanere e diventare umani in sintonia con la terra. Per tutti la sfida è scoprirsi segnati dal limite e dall'apertura fragile. E' la ricerca di "un'altra interpretazione della parola amore" come ha ricordato Dacia Maraini in una sua riflessione di fronte alla violenza degli uomini verso le donne (Il dominio feroce dei maschi deboli, in "Corriere della sera", 3 agosto 2016) :  "Non è la vendetta che ci interessa. Non è infierendo su chi infierisce che si cambiano le cose. Quello che vorremmo è una presa di consapevolezza comune, un’altra interpretazione della parola amore. Che pure esiste. Dobbiamo solo riconoscerla dentro di noi al posto del sospetto e dell’odio".

Forse solo questa via di umanizzazione e di riconoscimento della fragilità comune può essere una via che si oppone alla devastazione della violenza nelle sue diverse forme e della guerra. Per i cristiani non si tratta forse di un passaggio di essenzialità e di scoperta che solamente nella rinuncia al dominio dell'altro e nel prendersi cura del volto sofferente è possibile sprimentare l’incontro con Dio, raccontato da Gesù come il Padre?

Alessandro Cortesi op
Fonte:/alessandrocortesi2012.wordpress.com

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