Don Severino GALLO sdb"FEDE - POVERTÀ - ATTESA DI DIO

7 agosto 2016 | 19a Domenica T. Ordinario- Anno C | Omelia
FEDE - POVERTÀ - ATTESA DI DIO
L'odierna liturgia della Parola è una esposizione della fede nelle promesse divine e nella vita eterna.
C'è un crescendo nelle tre letture.

Nel Libro della Sapienza: riflessione sulla fede del popolo ebraico in occasione dell'uscita dall'Egitto; nella seconda Lettura: riflessione sulla fede dei Patriarchi e sulla fedeltà di Dio; nel Vangelo è Gesù che ci esorta a farci borse che "non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli".

Il brano evangelico consta i tre parti: comportamento del cristiano di fronte ai beni di questa terra; il cristiano deve essere vigilante; ma soprattutto i capi della Chiesa debbono essere fedeli vigilanti.
Il discepolo di Gesù guarda alla venuta del suo Signore.
La schiera dei discepoli è un piccolo gregge. Esso vive nell'amore di Dio che è Padre. L'unica sua preoccupazione deve essere il Regno di Dio, cercato non nell'ansia, ma nell'amore: non temere!
L'eterno amore del Padre ci assicura che "nessuna creatura ci potrà separare dall'amore di Dio in Gesù nostro Signore" (Rom. 8,39).

Il cuore dell'uomo è attaccato a ciò per cui ha rischiato molto. Chi è vissuto per Dio è attaccato a Lui; chi ha dato molto per il Regno di Dio, lo ha sempre nella propria mente e nel cuore.
Chi ha il suo tesoro e la sua ricchezza in cielo, è lassù col suo cuore e con il suo desiderio.
I discepoli debbono vigilare ed essere pronti alla venuta di Gesù. Il Vangelo porta l'esempio del servo che attende il suo padrone.

Il discepolo deve essere pronto in ogni istante a seguire l'appello del Signore che viene a giudicare.
E' l'ammonimento di Gesù: "Siate pronti, con la cintura ai fianchi...". Nel linguaggio figurato, allusivo al servo in faccende, Gesù c'invita alla vigilanza e all'operosità. Abbiamo un regno da conquistare: tocca a noi farlo nostro, con generosità, con alacrità, rimboccandoci le maniche e lavorando indefessamente.

Qui rientra tutto il discorso sull'apostolato, iniziando dalla formazione di noi stessi. Qui rientra il discorso sulla missione del singolo cristiano e della Chiesa intera. Qui rientra il discorso sul problema missionario.
E' l'ansia del regno che ci deve spingere ad essere operosi e superattivi. E' troppo grande l'oggetto della promessa di Gesù per poterlo godere da soli, egoisticamente, senza tentare in tutti i modi di renderne partecipi i fratelli.

"Le lucerne accese": la lampada accesa nelle nostre mani è la fede. Essa è la luce di Dio trasfusa in noi, per cui vediamo al di là, oltre le povere apparenze umane.
San Benedetto chiama la fede "lumen deificum": luce che divinizza; cioè ci rende partecipi degli scopi, dei disegni, di gusti di Dio.
E' luce per cui conosciamo il nostro nulla e il tutto di Dio. La fede è luce che illumina il nostro cammino, spesso incerto, scabroso e gli dà un senso, l'unico senso giusto.
Quante volte la vita sembra assurda! L'uomo si arresta di fronte al mistero. Ma la fede illumina tutto. Noi sappiamo di dove veniamo, dove andiamo e che cosa ci attende. Non camminiamo nelle tenebre.
Teniamo dunque alta la nostra lampada! Essa illuminerà qualche fratello che arranca accanto a noi senza meta e senza gioia.

Una vita senza fede, è tragedia! Ecco come andò a finire una povera persona:

Racconta un miscredente:
"Finalmente, dopo tre anni di reiterati assalti, sono riuscito a rendere incredula mia moglie.
E' stata una lotta dura, tanto le stavano radicate nel cuore le sue utopie religiose! Ma con l'assiduità, con la fermezza e, specialmente, con lo scherno e l'ironia, ho potuto cantare vittoria.
Ora mia moglie - ve l'assicuro - è più incredula di me.
Così parlava un giorno un miscredente in mezzo a una combriccola di amici, raccolti a giocare in una lurida osteria.

Immaginatevi gli applausi, i commenti, le risa sguaiate di quegli untuosi beoni che - tra un bicchiere e l'altro - trovavano tutto il loro gusto nel prendersela maledettamente contro la religione, contro i sacri ministri, contro i Santi!
A notte avanzata, quel rinnegato, con lo stomaco pieno di vino come un otre, uscì dalla taverna per rincasare.

Raggiunta la sua casa, vide sull'ingresso un rimescolio di persone in disordine.
Si fece avanti, virulento e smanioso, e si trovò davanti a una scena raccapricciante. In mezzo a una pozza di sangue, ancor caldo e fumante, giacevano scomposti tre cadaveri: quello della moglie e quelli dei suoi due figlioletti.
Su un foglio scarabocchiato, che la donna aveva lasciato sopra un tavolo, si leggevano queste parole:

"Fin tanto che ebbi Iddio nel cuore e fui attaccata alla sua legge, mi sentii capace di affrontare, con generoso coraggio, le terribili prove della vita.
Ma ora che un carnefice mi ha tolto i sacri conforti della fede; ora che non mi sorride più alcuna speranza nel pensiero; ora che l'avvenire mi si para dinanzi come la cupa notte del nulla, la vita mi è insopportabile!
Senza Dio, essa non è che un'ironia crudele, ed io non trovo miglior partito che ripudiarla per me e per i miei figli".

Cari Fratelli e Sorelle, la vita senza fede in Dio è rovina, sfacelo e morte: è una tragedia! La fede è gioia e vita.
La fede è l'ingresso della nostra pochezza nell'onnipotenza di Dio, da cui attingiamo forza, fiducia, vittoria. "Questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede" (1 Gv. 5,4).
La fede è fecondità del nostro lavoro, specialmente di quello rivolto alla conquista delle anime; essa è l'impronta di Dio sul nostro cammino.
"Vendete ciò che avete e datelo in elemosina".
E' stato scritto che "l'umanità avrebbe bisogno di tanto in tanto di un San Francesco d'Assisi per fare gli Esercizi Spirituali".
Rivedere il proprio cristianesimo in base ai canoni evangelici è un impegno dei singoli e delle comunità. L'invito di Dio in questa Domenica si rivolge a noi, perché misuriamo la nostra fede su quella dei nostri padri, Abramo, Isacco, Giacobe.
Fede significa incontrare Dio. E per fare esperienza di Dio, bisogna essere poveri, perché solo il povero trasuda Dio.

La fede non significa conquista razionale, ma essere invasi dall'Amore, allora la dimora naturale di Dio è la povertà: quella povertà che per Lui in terra prese il nome di Betlemme, di fuga in Egitto, di Nazaret, di Calvario...
E' proprio dell'Amore spogliarsi per il bene dell'amato (è questo il senso dell'incarnazione): svuotarsi di sé per riempirsi dell'Altro è la risposta all'amore di Dio. Le due cose sono in diretta proporzione: come il vuoto del Sepolcro è segno della risurrezione, così la povertà è il passaggio obbligato verso la vita nuova.

Dio si comunica tutto all'uomo, quando l'uomo si dà tutto a Dio: Abramo ha offerto Isacco in un atto di disponibilità assoluta.
La povertà è la vera ricchezza, perché tutto l'uomo viene chiamato in gioco, affinché la sua vita sia un dono agli altri. E' di Sant'Agostino questa stupenda espressione: "Esto donum Dei ut sis donum Deo": sii un dono di Dio per essere un dono a Dio".

Chi non ha nulla da dare, dona se stesso, proprio come ha fatto la Madonna, che si mise a completa disposizione di Dio con il suo "Fiat".
La più piena di fede, la più povera tra i poveri fu riempita di Spirito Santo e ci donò Gesù, che è il nostro tesoro e il nostro TUTTO!

Don Severino GALLO sdb
 Fonte:  www.donbosco-torino.it

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