MONASTERO MARANGO,"Pellegrini, portati dalla Parola, pronti a nuove partenze, avendo in faccia l'eternità"

19° Domenica del Tempo Ordinario (anno C)
Letture. Sap 18,6-9; Eb 11,1-2.8-19; Lc 12,32-48
Pellegrini, portati dalla Parola, pronti a nuove partenze, avendo in faccia l'eternità

1)Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava.
L’esistenza del credente è un cammino, una faticosa via da percorrere. Ma è anche una via piena di gioia.
Questo è esattamente ciò che chiamiamo «fede», fondamento della nostra speranza e annuncio di una realtà invisibile e futura. Si parte in obbedienza ad una parola di Dio, il vero attore principale del cammino della fede; una parola che sentiamo rivolta direttamente a noi stessi, personalmente. Non si tratta di andare da qui a là, da un posto all’altro, ma di lasciarci precedere dai passi di un Dio che vuole condurci oltre il limite del nostro piccolo orizzonte, dilatando gli spazi della nostra libertà. Occorre però saper abitare «nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende», non nei palazzi, aspettando la città futura che sarà costruita per noi da Dio stesso.
Il credente, dunque, è un pellegrino, un nomade, un senza fissa dimora, uno che si sente a casa dappertutto e ovunque si sente straniero. Uno che serve il mondo senza servirsene; che abita la terra senza farne oggetto di violenta rapina. Uno che sperimenta la possibilità di una umanità riconciliata e capace di condividere il pane e la vita con chiunque, perché non vive per accumulare beni ma per mettere a servizio i doni ricevuti.
Ma il credente non sa esattamente dove lo porterà il cammino, quali vie dovrà attraversare, quanto lungo sarà il cammino.
E’ bene che se lo ricordino anche coloro che rimproverano a papa Francesco di alimentare l’incertezza nella Chiesa, di portarla su strade poco praticabili e non del tutto sicure. Anzi, pericolose! Questi scribi e dottori della Legge – perché di essi si tratta – sono prigionieri del loro sapere, e hanno dimenticato che a fondamento della fede c’è solo il Signore, e non una dottrina, per quanto essi cerchino di avvicinarsi con la dottrina al cuore del mistero. E il Signore, che noi conosciamo attraverso il dono delle Scritture lette nella Chiesa, è sempre oltre la dottrina. «La Chiesa deve accettare questa libertà della Parola, che è efficace a suo modo, e in forme molto diverse, tali da sfuggire spesso le nostre previsioni e rompere i nostri schemi» (Evangelii Gaudium, 22). «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva» (Deus caritas est, 217).
Abramo, Sara, tutti i patriarchi e i profeti, sono maestri della nostra fede perché si sono lasciati portare dalla novità di una Parola che Dio rivolgeva loro, e si sono incamminati su strade mai percorse prima. Non sono maestri della fede perché li abbiamo trovati appollaiati sulla sicurezza della loro dottrina teologica, bene attenti a non sporcarsi le vesti nel fango delle strade.
Io, allora, sto gioiosamente con Francesco, che cammina umilmente dietro al suo Signore e sta conducendo la Chiesa, con audacia profetica, dove solo il Signore gli mostrerà, strada facendo. Intanto, qualcuno mi risponda se le sue parole,i suoi gesti, aderiscono o meno alla lettera e allo spirito del Vangelo. Se così non fosse, è autorizzato a prendere le distanze e andarsene.

La notte (della liberazione) fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio.
La fede del pellegrino, del nomade di Dio, non è senza garanzie. Già nell’Antico Patto c’erano annunci che si adempivano, come quello nella notte della cena pasquale: per gli ebrei quella cena apriva loro un futuro di gioia e di speranza, segno dell’attuarsi delle promesse di Dio. Segni simili ne riceviamo anche noi, se abbiamo occhi per vedere e orecchie per ascoltare. Dio ci mostra sempre la strada giusta, anche se talvolta dobbiamo attraversare dure prove, come Abramo, o certi profeti, o i martiri e i santi di ogni tempo, perché la fede non può appoggiarsi in ultima analisi su segni e miracoli, ma solo sulla fedeltà di Dio, che mantiene inalterabile la sua parola.

Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese.
Il vangelo sviluppa in molteplici modi la necessità, per i cristiani, di vivere come pellegrini, pronti sempre a nuove partenze. E questo tanto più quanto maggiori sono i doni che il Signore ha dato alla sua Chiesa. Provo una tristezza sempre maggiore nel costatare che ci sono comunità cristiane che per molti anni hanno ricevuto molto, e hanno accumulato tesori spirituali, ma li hanno tenuti gelosamente per loro, come fossero cosa propria, senza condividere nulla con altre comunità più povere e prive di mezzi. Il Vangelo «ha sempre la dinamica dell’esodo, del dono, dell’uscire da sé, del camminare e del seminare sempre di nuovo, sempre oltre» (E.G. 21).

Beati quei servi che il padrone, al suo ritorno troverà ancora svegli.
Siamo chiamati a vivere ogni istante della nostra esistenza in faccia all’eternità. Se dimentichiamo questo, dimentichiamo anche il contenuto del nostro compito terreno, che è quello di servire i fratelli, mettendo a frutto i doni ricevuti. Vivere senza attesa ci porta a farci padroni, nella vita pubblica quanto in quella ecclesiale, e allora tutto si corrompe, tutto diventa occasione di rapina, di occupazione di posti, di violenta negazione del diritto dell’altro a esistere. Saranno la prepotenza, l’ingordigia, la menzogna, a piegare le situazioni a nostro vantaggio, a stabilire i criteri del giusto e dell’ingiusto, di ciò che è opportuno e di ciò che non lo è.

A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto, a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più.
Il cristiano non può vivere senza la speranza dell’attesa. Se crediamo che il Signore verrà, e ci chiederà conto del nostro operato, impareremo come comportarci in questo mondo, servendo i fratelli e condividendo i beni spirituali e materiali che abbiamo ricevuto in dono.
Sì, attraverso un esodo incessante, è urgente «entrare in un deciso processo di discernimento, purificazione e riforma» (E.G. 30). E crescere nella gioia della gratuità del dono generosamente offerto.


Giorgio Scatto
Fonte Monastero Marango Caorle (VE)

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