Abbazia Santa Maria di Pulsano, Lectio Divina, Domenica «delle parabole della divina misericordia»


XXIV del Tempo per l’Anno C
Luca 15,1-32; Esodo 32,7-11.13-14; Sal 50; 1 Timoteo 1,12-17
Antifona d'Ingresso Cf Sir 36,15-16
Da', o Signore, la pace a coloro che sperano in te;
i tuoi profeti siano trovati degni di fede;

ascolta la preghiera dei tuoi fedeli
e del tuo popolo, Israele.

L’antifona d'ingresso, da Sir 36,18, adattato, con epiclesi chiede la pace per quanti sono trovati fedeli al Signore, affinché anzitutto siano fedeli alla loro missione i «profeti», i portaparola di Dio nella comunità e al mondo. L'epiclesi finale sigilla la richiesta, insistendo sull'ascolto da parte del Signore delle preghiere dei servi suoi, e del popolo suo Israele (vedi I lettura, il salmo responsoriale, l’evangelo).

Canto all’Evangelo 2 Cor 5,19
Alleluia, alleluia.
Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo,
affidando a noi la parola della riconciliazione.
Alleluia.

Il versetto di 2 Cor 5,19ac, che orienta la proclamazione evangelica, parla del Disegno divino contemplante che è la riconciliazione con il Padre degli uomini peccatori. Il Padre se li è riconciliati mediante il Figlio morto e risorto e per portare l’effetto di questo agli uomini ha posto negli Apostoli la «Parola della riconciliazione», l’Evangelo della Grazia da annunciare agli uomini. Ancora la proclamazione evangelica di questa domenica và letta a partire da Cristo battezzato dallo Spirito Santo, mentre, così inviato dal Padre, episodio dopo episodio passa e, senza interrompere mai la sua attività, annuncia l’Evangelo e compie le opere della Carità del Regno.
Questa pericope è ancora situata nel contesto della «salita a Gerusalemme» (Lc 9,51 - 19,28). Questo grande testo è proprio di Luca, ed è proclamato dalla Domenica XIII alla Domenica XXXI. A Gerusalemme si deve adempiere l’esodo del Signore al Padre suo (Lc 9,31), che comprende la Croce, la Resurrezione e la gloria.
I lettura:  Esodo 32,7-11.13-14
Mose è salito sul Sinai per il colloquio a cui dopo l'alleanza (Es 24) il Signore lo chiama per ricevere le Tavole della Legge santa. Il popolo non tollera l'attesa, e si fabbrica il vitello d'oro, che adora al posto del Dio Vivente. Il Signore allora avverte Mosè della nefanda apostasia idolatrica e lo invita a recarsi a vedere (v. 7). E gli spiega la gravità del misfatto: il popolo intero tradì la via, si fece un idolo morto che adora, e lo onora come se fosse un dio, e avesse guidato l'esodo dall'Egitto (v. 8). Il Signore in modo giusto e severo constata adesso che si tratta di «un popolo dalla dura cervice», e chiede a Mose di lasciargli che lo punisca, distruggendolo, per costruire per lui un altro popolo da guidare (vv. 9-10). È evidente che il Signore vuole che Mose interceda, e Lo implori, affinché possa fare misericordia.
E Mosè intercede con una «supplica epicletica per la nazione». Il suo argomento è fondamentale, ed egli sa altresì che esso è secondo quanto desidera da lui il Signore, e quindi a suo modo è inattaccabile e deve essere efficace. Come, argomenta nella sua perorazione, il Signore prima ha operato con tanta potenza per estrarre via questo popolo dall'Egitto, e adesso, anche se gravemente colpevole, vuole distruggerlo? Ma allora qual è la coerenza del Disegno divino per questo popolo? (v. 11). Di più. Il Signore deve fare memoriale della Promessa irreversibile e vincolante concessa ai Patriarchi, di costituire a essi un popolo innumerevole e di donare la terra, per sempre (v. 13).
Questo voleva sentire il Signore, che Mosè, mentre ama il suo popolo, ha un'indefettibile fedeltà verso il suo Signore, e che ha anche una forte comprensione della Fedeltà di Lui. Perciò immediatamente si placa, e lo manifesta (v. 14). Infatti, nessun peccato è senza remissione, se se ne chiede al Padre Buono il perdono, per sé e per gli altri.
Il Salmo: Sal 50,7-4.12-13.17 e 19, SI  con il versetto responsorio : Ricordati di me, Signore, nel tuo amore.
Il Sal 50 è il celebre Miserere, uno dei Salmi più pregati. Il testo risente da vicino della predicazione profetica, in specie di Geremia. L'Orante, che il titolo tardivo individua in Davide adultero e omicida, mentre riconosce con spietata sincerità la sua condizione, un'esistenza di solo peccato, fa salire un'umile e contrita preghiera al Signore per ottenere i doni divini, la ricchezza del suo perdono.
L'esordio è epiclesi per ottenere la grazia (v. 3a; Sal 4,2), sulla base della Misericordia divina, l’éleos - hesed, il perenne comportamento del Signore secondo la sua alleanza fedele. L'Orante invoca la divina clemenza, la sola che possa cancellare l'abisso immane del suo peccato, la sua "iniquità", la totale lontananza dalle vie di Dio (v. 3b). Ma insieme fa appello all'Abisso della divina Bontà, che conosce bene (Sal 105,45). Adesso l'Orante innalza due altre suppliche epicletiche, in parallelismo sinonimico, per essere lavato dall'iniquità mortale (vedi v. 9; Is 1,16; Ger 4,14; Ap 1,5), e per essere purificato dal peccato (Tit 3,5; Ebr 9,14; 1 Gv 1,7.9). Parla al singolare, in quanto ha riconosciuto che come uomo peccatore la sua condizione davanti al Signore è solo esistenza di peccato (v. 4).
L'Orante ne fa la confessione più esplicita. Egli ha la coscienza viva, e dolorosa, della sua iniquità, di essersi distolto dal Signore (Sal 31,5; Is 59,12). E in più, questo suo peccato globale è una realtà incancellabile per le sue forze, gli sta sempre presente, lo perseguita (v. 5). Egli riconosce addirittura che la sua vita è come un unico peccato perpetrato contro il Signore (Gen 20,9; 39,9; lo riconosce Davide, 1 Sam 12,13; Ger 14,7.20; 1 Cor 8,12). La spina lancinante è il suo adulterio e l'omicidio conseguente, perpetrato contro un innocente. Ma in un certo senso, la gravità di queste colpe lo rende più sensibile al fatto che il peccato alla fine offende il Signore, e anche se perpetrato contro l'uomo, esso resta «davanti a Dio che tutto conosce» (v. 6). «Peccai verso il Cielo e davanti al Padre» (il figlio prodigo, Lc 15,18.21).
Adesso l'Orante rivolge al suo Signore una serie impressionante di epiclesi. Anzitutto Lo supplica per il «cuore nuovo» (Ger 24,7; 1 Sam 10,9; Sal 23,4; Sir 6,37). Il "cuore" è intelligenza, sensibilità, volontà, decisionalità, è precisamente il motore e la sede del peccato, che ha travolto nel male tutte queste facoltà donate dal Signore. Così che con il cuore nuovo è creata di nuovo la persona intera. E il segno dell'alleanza nuova e salvifica è proprio questo cuore nuovo (Ger 31,33, citato in Ebr 10,16; Ez 36,26, 11, 19; Ef 4,23-25). L'Orante sa che solo con il «cuore puro» potrà di nuovo «vedere Dio» (Mt 5,8).
Tuttavia l'Orante sa altresì che la creatura così rigenerata non è ancora attivata senza lo Spirito del Signore che lo "animi". Perciò al Signore chiede tre volte lo Spirito suo divino. Anzitutto in parallelismo con il cuore chiede lo «Spirito retto», il Condottiero sulle dritte vie del Signore. Infatti lo Spirito del Signore, insieme con il cuore nuovo, è l'altro "segno" dell'alleanza nuova (v. 12; vedi i testi citati sopra).
L'Orante insiste poi (v. 13) con un'epiclesi per la «visione del Volto» vivificante del Signore, tante volte ripetuta nei Salmi (Sal 21,2) e dai Profeti (Ger 7,15). Il Volto del Signore è la Luce e la Bontà che danno la gioia di un'esistenza degna di essere vissuta. Ma il Dono principale del Volto è lo «Spirito Santo». Qui, con Is 63,10-11, si ha per la prima volta nell'A. T. questo Nome divino, poi usuale nel N. T. Esso si troverà invece diverse volte nelle parti greche dell'A. T. È un tratto decisivo della teologia biblica. Infatti «lo Spirito del Signore» nell'A. T. non è tanto «Dio in sé», quanto «Dio che si comunica agli uomini nella loro storia».
L'Orante vuole entrare in comunione nuova con il Signore. Chiede la Comunione divina, lo Spirito divino. In un certo senso però, l'Orante vuole di più: vuole lo «Spirito della santità» divina, vuole la comunione con il Signore ma nella sua Essenza più intima, inaccessibile, inimitabile, indicibile, la sua Santità. E il Signore può comunicare la sua Santità solo attraverso il suo divino Spirito. Il vecchio «abisso del peccato» è superato solo dalla comunione all'Abisso della Vita divina stessa, la Santità vivificante.
Al v. 14, ancora in parallelismo, sono innalzate due altre epiclesi. Il cuore puro ripieno di Spirito Santo, il Volto divino con lo Spirito Santo provocano la gioia divina che salva. Per natura, il peccatore perde ogni gioia, poiché il peccato è sempre tristezza. Ma non sarà gioia egoistica, poiché l'Orante, personaggio regale, pensa sempre al suo popolo. Questa divina gioia deve venire a lui come Spirito Santo che guida il capo del popolo di Dio. Lo ha compreso il traduttore greco, con l'espressione «Spirito hêgemonikón», ossia dell'Egemone, il principe capo e condottiero del suo popolo; il latino ha qui rettamente Spiritus principalis, «del principe». Spiegano questo due fatti:
a) Sal 142,10:
(Signore) insegna a me a fare la Volontà tua, poiché Tu sei il Dio mio,
lo Spirito tuo, il Buono, guiderà me nella terra piana,
dove il verbo guidare è hodêgéô (Gv 16,13). Solo lo Spirito del Signore è in realtà il Condottiero divino verso la Volontà divina. Il Re messianico, che Lo ha ricevuto, deve porsi sotto la sua conduzione soave e forte;
b) nel «Credo», l'articolo sullo Spirito Santo dice tra l'altro: E [credo] nello Spirito, quello Santo,
quello signoriale [del Signore Risorto]
quello Vivificante,
con 4 volte l'articolo neutro, tó, dove tó kyrion, «il signoriale», è aggettivo neutro (al maschile sarebbe tón Kyrion, «il Signore»). La versione corrente è falsa già nel testo latino, che per fedeltà all'originale avrebbe dovuto tradurre «et in Spiritu Sanctum dominicus», del Dominus, il Kyrios, Cristo Risorto. Lo Spirito Santo è certo il Signore Unico, ma da altri testi del N. T., come quello esemplare di Mt 28,19.
Il Re orante adesso apre la sua visuale missionaria. Al v. 17 fa un'ammissione di fede: Solo Tu, Signore, puoi aprire le labbra mie. Come sanno bene i Profeti, e qui Is 57,19, le labbra chiuse sono il segno dell'inanimato, del mutismo di morte, dell'incomunicabilità di tutta la persona (Sai 113,12-15.16). Il miracolo del Signore che guarisce il sordomuto è la riammissione dell'ormai ascoltante e parlante nel consorzio divino e umano (Mt 9,32). L'Orante si attende questo, liberato ormai com'è dal peccato e ricolmo di Spirito Santo. Il Signore gli dona la sua Parola, e lui ormai farà della sua vita un unico canto delle divine lodi. A questo tuttavia vorrà portare anche gli empi, redenti dal Signore (v. 15). La lode a sua volta è entrare in comunione con il Signore anche da questa parte: lodando Lui, il Nome, gli attributi, le opere, la persona del laudante quasi scompare, la sua preghiera gioiosa è disinteressata. Questa si può formulare solo così: «Tu!», «Tu, perché Tu!» Essa lo ha innalzato a vivere il perenne presente davanti al Volto adorato. Lo scisma di Adamo è risanato.
Evangelo: Lc 15,1-32
Al centro della liturgia troviamo oggi quel capolavoro dell’evangelo di Luca che è il c. 15. Il testo riporta l’insegnamento di Gesù sulla divina Misericordia, contenuto in 3 parabole, le quali possono essere chiamate anche, e più esattamente, le «parabole della Misericordia e della Gioia divina».
Il brano evangelico può essere diviso in tre parti:
a. vv. 1-2: l’introduzione che offre l’ambientazione ed insieme la giustificazione dei racconti parabolici che seguono;
b. vv. 3-10: due parabole sulla ricerca ed il ritrovamento, rispettivamente collocate nell’ambiente agricolo e domestico;
c. vv. 11-32: una parabola riguardo ad un padre e ai suoi due figli.
Parabole che più di tante altre di Gesù hanno fatto breccia nel cuore dei credenti e dei non credenti. La terza, propria di Luca, è la più nota, la più lunga per la sua ampiezza e pienezza di significato, per la vastità del respiro e la dottrina che contiene e viene giustamente definita un piccolo evangelo nell’Evangelo».
Una prima osservazione: il testo non parla di “parabole”, ma di “parabola”: i tre racconti costituiscono dunque un’unica parabola, quella della misericordia di Dio. Il contesto della parabola è dato dai vv. 1-3 posti ad introduzione del racconto: è la risposta diretta alle mormorazioni dei farisei e degli scribi, indignati del modo umano e delicato con cui Gesù avvicinava i peccatori e si rallegrava per la loro conversione. Accusato di essere troppo condiscendente con i peccatori, Gesù risponde proponendo il comportamento del Padre, che egli è venuto a rivelare al mondo: «Chi ha veduto me, ha veduto il padre» (cfr. Gv 14,9): forse mai come nella condotta di Gesù verso i peccatori queste due parole, dette alla vigilia della morte trovano la più convincente esemplificazione. Più che del "figliolo prodigo" o del "fratello maggiore", è la parabola del Padre, e sono proprio le sue parole che ci danno la via per comprendere il racconto: «Bisognava far festa». L’hanno capito i peccatori, che fanno festa a Gesù; i giusti sono chiamati a fare altrettanto. La festa e la gioia del perdono cominciano quaggiù. Nel racconto accanto al verbo della gioia che scandisce le due parabole gemelle della pecora e della dramma perduta e ritrovata si aggiunge anche, e per quattro volte nella terza parabola, il verbo "festeggiare".
La gioia biblica è, certo, un’esperienza psicologica e umana, comprendente l’allegria e la serenità, ma va oltre: è, infatti, lo stato di chi è in comunione con Dio e partecipa della sua perfezione. È partecipazione al suo amore: il figlio maggiore della parabola non riesce a condividere la gioia del padre perché il suo cuore è gretto ed egoista. L’evangelista Luca, in particolare, sente la gioia come l’atmosfera dei tempi messianici inaugurata da Gesù; a lui si accosta Paolo, che così si rivolge ai cristiani di Filippi: «Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete saldi nel Signore così come avete imparato, carissimi! Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!» (Fil 4,1.4-5).

Esaminiamo il brano
v. 1 - «si avvicinavano...pubblicani e peccatori»: nonostante le strettissime esigenze appena espresse sul discepolato (14,25-35), "rinnegati e furfanti" non desistono dall’avvicinarsi a Gesù.
«tutti»: si sottolinea la totalità; nessuno è escluso, specialmente i lontani.
«per ascoltarlo»: tutti i peccatori sono ammessi come uditori della gloria di Dio. Ascoltare significa diventare discepoli.
v. 2 - «Farisei e scribi mormoravano»: Luca contrappone al gruppo dei pubblicani e dei peccatori il gruppo dei farisei e degli scribi. Per entrambi Gesù costituisce un polo d’attrazione, tuttavia, mentre il primo gruppo si avvicina per ascoltarlo, il secondo lo osserva per criticarlo. Nelle sacre Scritture gonguzō è il vocabolo della contestazione di Dio e del rifiuto del suo modo di dare salvezza («Perché ci hai fatto uscire dall’Egitto ?»; è il verbo che percorre i libri biblici che parlano di Israele nel deserto e della ribellione a Dio e ai suoi doni (Esodo, Numeri, Deuteronomio). È il verbo con cui l’uomo pretende di suggerire a Dio come dovrebbe comportarsi con l’uomo e come dovrebbe dargli la salvezza (o il castigo). Per costoro (farisei e scribi) i pubblicani e i peccatori sono persone ormai «perdute»: su di loro incombe il giudizio di Dio. L’accoglienza calorosa che essi ricevono da Gesù è inspiegabile e contro ogni logica (cfr. Lc 19,7).
v. 3 - Il motivo che spinge Gesù a narrare questa parabola è dimostrare che Dio non la pensa come gli scribi e i farisei. Scribi e farisei sono i veri destinatari del racconto; la parabola è un invito ai giusti perché si convertano dalla propria giustizia, che condanna, alla gioia del Padre, che giustifica. Gesù parla non tanto per difendersi dalle loro obiezioni, quanto per aprire loro gli occhi al mistero di Dio. Dio è misericordia.
vv. 4-6 – La prima celebre parabola è del pastore che possiede un gregge di 100 pecore. Di esse una si è incautamente lasciata distanziare dal resto del gregge e quindi si perduta nel deserto. Il pastore buono allora lascia incustodito il gregge delle altre 99 pecore, torna sui luoghi del pascolo e ricerca quell’unica pecora dappertutto, nel deserto e altrove, finché la ritrova. Allora se la prende in braccio «nella gioia» e chiamerà tutti gli amici per farsi congratulare per il ritrovamento, perché ha recuperato una pecora «che era perduta», era andata alla rovina.
v. 7 - «Così vi dico…»: La parabola conclude ancora «dal minore al maggiore», al modo rabbinico. Se per così poco si fece gioia sulla terra, allora per quell’immenso valore che è un uomo, il peccatore convertito, quello che più di tutti gli altri aveva bisogno della salvezza, quello che perciò deve essere più amato degli altri, tanto più si farà «gioia nel Cielo», ossia Dio gioirà. E questo più che per 99 giusti, che non hanno necessità della conversione. Ma così il gregge è nuovamente al completo. Nessuno può essere perduto: anche se “uno solo” manca, la comunione non è completa e la festa non può iniziare. Notiamo che Luca introduce la parabola con una domanda rivolta diret¬tamente a scribi e farisei: «Chi di voi...?». Gesù vuole incontrarli nella comune vocazione di pastori del popolo di Dio. Come agisce dunque un pastore? Chi ha bisogno di lui: le pecore sicure nell’ovile o quella perduta? In Gesù, nelle sue azioni e parole, l’agire di Dio diventa visibile. Dio si fa pastore delle proprie pecore, un pastore che corre il rischio di perdere il gregge pur di ritrovare l’unica pecora che manca all’appello. Un pastore che rischia perché si fida delle sue pecore. Un pastore capace di fare festa.
vv. 8-19 – La seconda parabola è della dracma smarrita. Una donna possiede 10 dracme e dentro casa, come succede così spesso, ne perde 1. Allora fa tutte le ricerche febbrili in casa e spazza con cura ogni angolo, finché finalmente trova la sua dracma. Perciò subito convoca e raduna le sue amiche per gioire insieme del ritrovamento. Anche qui la conclusione necessaria va «dal minore al maggiore»: tanto più nel Cielo, alla presenza di Dio circondato dalla sua corte regale che contiene le miriadi degli Angeli, si farà gioia per un solo peccatore convertitosi.
v. 11- Con la terza parabola il Signore narra la vicenda del celeberrimo «figlio prodigo». Questa parabola ha il doppione alla Domenica IV di Quaresima di questo Ciclo C. . In sintesi, Gesù invita i capi del popolo a fare proprio il cuore del Padre. Se ciò non accade, anche farisei e scribi sono figli perduti, mai allontanatisi da casa, ma incapaci di comprendere il cuore del Padre. Per questo racconta loro la terza storia.
«Un uomo»: È Dio, che nel corso della lettura si rivelerà insieme padre e madre, legge e amore.
«aveva due figli»: i due figli indicano la totalità degli uomini; peccatori о giusti, per lui siamo sempre e solo figli, per questo ha compassione di tutti e non guarda i peccati.
v.12- «Padre»: così lo chiama il figlio minore; non tanto per dei sentimenti positivi, quanto per far valere i propri diritti. Lo conosce come uno che gli deve dare delle cose.
«dammi»: attivo imperativo aoristo: inizia un’azione nuova. Alcune norme regolavano il diritto di successione alla morte del padre, о la spartizione dei beni mentre era ancora in vita il padre: cfr. Dt 21,17; Sir 33,20-24.
«divise»: Dio non è antagonista, concede ai suoi figli tutto quanto ha.
vv. 13-16 - Preso dall’ansia di vivere, portandosi via tutto, si allontana dal Padre, ma così, presto, perde tutte le sue sostanze e se stesso.
«a pascolare i porci»: il peggio che poteva capitargli in fatto di degradazione (cfr. 8,32), perché oltre a tutto, si trovava in uno stato di impurità legale (cfr. Lv 11,7; Dt 14,8).
vv. 17-19 - «rientrò in se stesso»: semplicemente rinsavisce; constata che la realtà non era come pensava. Si noti come in questo soliloquio Luca non esprima grandi sentimenti di pentimento; è una conversione a sé, più che al Padre, intuisce il vero proprio interesse. La fame gli fa capire che s’è sbagliato nel valutare le cose; è l’inizio di un cammino. Dice un antico proverbio ebraico: «Quando gli israeliti hanno bisogno di mangiare carrube, è la volta che si convertono».
«salariati...di mio padre»: lo considera e lo chiama padre, anche se non considera sé come figlio. Instaura il paragone con i salariati: istintivamente pensa che l’alternativa sia diventare come il fratello maggiore! Ha ancora una falsa immagine del Padre.
«ho peccato»: dalla considerazione della sua miseria il giovane passa al riconoscimento delle sue colpe; non ha infatti una colpa sola, ma parecchie: aver chiesto la divisione dell’eredità; l’essere andato lontano; l’aver dilapidato tutto; il non aver pensato al padre prima di cercare il lavoro umiliante.
«contro il cielo»: modo ebraico di dire, per evitare di pronunciare il nome di Dio, qui particolarmente espressivo per chi, come il figlio minore, si sente indegno di ogni perdono.
«non sono degno di esser chiamato tuo figlio»: un altro peccato si aggiunge al fardello già pesante del figlio minore: essere figlio non è questione di dignità o di merito; è un dato di fatto. Il padre può essere libero nel mettere al mondo il figlio, ma nell’essere figlio non c’è libertà; non si sceglie né di nascere né da chi. Il figlio minore non ha ancora capito che il Padre è amore necessario e gratuito; pensa, non avendola meritata, di rinunciare alla sua paternità. Il poveretto ha aggiunto ai suoi anche il peccato del giusto: il rifiuto di Dio come amore gratuito. La conversione non è diventare "degni", o almeno "migliori" o "passabili", per meritare la grazia di Dio; la conversione è accettare Dio come un Padre che ama gratuitamente.
«trattami»: attivo imperativo aoristo positivo: ordina di cominciare un’azione nuova.
v. 20 - La scena dell’incontro col padre è travolgente.
«ancora lontano»: fin qui abbiamo parlato dell’ atteggiamento del figlio; suo padre è ben altro, non aspetta al varco l’indegno per rinfacciarli una colpa senza scuse, previene ogni suo atto di pentimento,
«lo vide»: è il verbo horáō, un vedere che giunge fin sotto la superficie, nella verità delle cose. Per quanto lontano il Padre lo vede sempre; nessuna oscurità e tenebre può sottrarlo alla sua vista (Sal 139,11s). L’occhio è l’organo del cuore: gli porta l’oggetto del suo desiderio. Vedere e commuoversi sono anche le due azioni attribuite al samaritano (10,33) e allo stesso Gesù nell’episodio della vedova di Nain (7,13).
«si commosse»: questo sentimento che sconvolge il cuore del padre fornisce la chiave della sua condotta; in quella commozione è narrata tutta la sua passione per l’uomo. Letteralmente splanchnízomai «fu colpito alle viscere» indica l’aspetto materno della paternità di Dio. È la qualità di quel Dio che è misericordia In Lc 6,36 Dio ci è presentato come «padre misericordioso », cioè insieme come padre e come madre (Luca usa " oiktírmōn” che traduce l’ebraico «rahamin», che indica il ventre, l’utero materno che genera). La paternità di Dio per sé viene dopo la sua maternità; per questo siamo generati e amati senza condizioni, da sempre e per sempre accolti. In quanto madre, ci ama visceralmente, ed entra con noi in un rapporto di necessità biologica, dandoci la vita, la casa e il cibo. In quanto padre ci ama liberamente ed entra in rapporto con noi mediante la parola: ci dà un nome e ci fa crescere adulti e responsabili. Lo sguardo di Dio verso il peccatore è tenero e benevolo come quello di una madre verso il figlio malato (cfr. Is 49,14-16; Ger 31,20 s; Sal 27,10; Os 11,8; ). Quale stridente contrasto con l’emozione opposta che prende il primogenito «egli fu preso da collera» (v. 28a)!
«correndo»: è un atteggiamento affatto normale per un orientale.
«si getto al suo collo»: la corsa del padre termina in uno slancio che lo fa letteralmente "cadere addosso " al figlio. Esaù, il fratello al quale fu rubata la primogenitura, cadde sul collo di Israele, contro ogni sua aspettativa (Gen 33,4). L’incontro dei due fratelli, a lungo divisi e in lotta, è figura dell’incontro dei suoi figli. Anche Giuseppe, venduto come schiavo dai fratelli, si getta sul collo di Israele (Gen 46,29).
«lo baciò»: è il segno del perdono (cfr. 2 Sam 14,33).
vv. 21-24 - Il padre prende subito l’iniziativa: non permette al figlio di terminare la sua confessione; non dice nulla al figlio, ma quanto sta per dire ai servi parla per lui in modo più espressivo di ogni altro linguaggio.
«la veste migliore»: lett. il vestito primo, dove s’intende quella veste che è la prima in ordine di tempo e di dignità. È l’immagine e la somiglianza di Dio, gloria e bellezza originale che rivestiva l’uomo.
«rivestitelo... mettetegli»: attivo imperativo aoristo positivo: è il nuovo inizio.
«l’anello»: è il segno dell’autorità (cfr. Gen 41,42; Est 3,10; 8,2 ed anche Gc 2,2)
«sandali»: è un altro segno della recuperata figliolanza, della libertà di figlio; lo schiavo non porta sandali.
«portate»: attivo imperativo presente positivo: ordina di continuare un’azione già iniziata (siamo sempre considerati figli). Nel dare i primi ordini il padre usa l’imperativo aoristo: si tratta di cominciare azioni nuove, causate dall’inizio di una nuova condizione, quale nessuno (nemmeno il figlio stesso) oserebbe sperare possibile. Una volta restituito alla sua dignità, il resto viene di conseguenza e diventa normale: perciò il padre usa l’imperativo presente.
«il vitello grasso»: il sacrificio grasso (lett. di grano) immolato, che si "mangia", "facendo festa" è un’allusione all’eucarestia. Per i commentatori questo vitello di grano è l’Agnello immolato per quell’amore che è prima della fondazione del mondo (Gv 17,24).
«ammazzatelo»: attivo imperativo aoristo: qui è necessario per indicare un’ azione che si compie una volta sola per sempre.
«cominciarono a far festa»: non si dice "fecero festa", ma "cominciarono"; è l’inizio di ciò che sarà senza fine.
vv. 25-32 - «Il figlio maggiore»: il maggiore è Israele, il primogenito di Dio, figura di ogni giusto. Raggiungiamo ora l’apice della parabola: l’incontro con chi deve essere ancora ritrovato.
«chiamò... domandò»: il “giusto” non sa nulla della gioia di Dio, anzi gli è sospetta e per questo indaga minuziosamente, interroga un servo per sapere cosa sta accadendo.
«si arrabbiò»: conosciuto l’avvenimento reagisce come davanti ad una minaccia; è venuto meno il fondamento della sua esistenza. Quest’ira è il contrario della compassione del padre. Giona si contristò mortalmente alla prospettiva di un Dio simile (cfr. Giona 4,3.8.9).
«non voleva entrare»: l’ostinazione del giusto è dura, come quella di Giona. Attraverso la porta della misericordia i peccatori passano tutti, ma dei giusti nessuno, perché non lo vogliono.
«il padre uscì a pregarlo»: (lett. «a consolarlo») anche con questo figlio il Padre è colui che si muove per primo. Dio consolò Israele mediante i profeti, fino al Battista che «consolava ed evangelizzava» (3,18), chiamando alla conversione.
«rispose a suo padre»: paziente, quel Padre che non ha ascoltato l’umiliazione penitente del secondogenito, ascolta ora le accuse del primogenito.
«ti servo... non ho trasgredito»: è il servizio dello schiavo (duleo), non l’obbedienza del figlio verso il Padre. Il tempo presento sottolineala condizione permanente scelta da questo figlio che come uno schiavo non si è mai sognato di trasgredire un comando del Padre.
«un capretto»: davvero una richiesta minima davanti al grosso vitello.
«il figlio tuo»: Il primogenito rifiuta di dare il nome di «fratello» al prodigo ma non gli contesta il nome di «figlio» in rapporto al padre. Di colpo, il padre del figlio indegno non gli sembra più neppure suo padre; parla di lui come di un padrone al cui servizio lavora come schiavo: «Ecco, io ti servo da tanti anni [come uno schiavo: duléo» (cfr. v. 29]. Se il secondogenito si augurava di divenire, a casa del padre, un servo ben pagato, il primogenito si considera come uno schiavo verso il quale il padrone non ha alcun debito di riconoscenza. La comprensione che egli ha del rapporto padre-figlio non è migliore di quella del fratello.
La parabola tace, probabilmente ad arte, l’ulteriore reazione del figlio maggiore che del figlio minore. In una stupenda solitudine rimane il mistero dell’amore del Padre, che il peccatore non era riuscito a prevedere e il "buono" a spiegarsi.
Quell’amore imprevedibile è come una lama di luce che squarcia le tenebre della nostra condizione, la condizione di peccatori bisognosi di misericordia.
In questa prospettiva comprendiamo sempre di più cos’è la nostra eucarestia: rendimento di grazie al Padre per l’amore che ci dona, per il perdono che ci offre, per la Pasqua che vuole celebrare con noi.

II Colletta
O Dio, che per la preghiera del tuo servo Mosè
non abbandonasti il popolo ostinato
nel rifiuto del tuo amore,
concedi alla tua Chiesa
per i meriti del tuo Figlio,
che intercede sempre per noi,
di far festa insieme agli angeli
anche per un solo peccatore che si converte.
Egli è Dio…

Fonte:Abbazia santa Maria di Pulsano
http://www.abbaziadipulsano.org/

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