Chiesa del Gesù - Roma, "Appartenere totalmente a Dio"

Es 32,7-11.13-14; Sal 50; 1Tm 1,12-17; Lc 15,1-32 
XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Centro delle letture di questa domenica è la narrazione dell’amore fedele e mite del Padre, che Cristo
è venuto a rivelare con la sua vita.

Gesù, attraverso i racconti parabolici, invita a guardare le cose dal punto di vista di Dio e non semplicemente dal punto di vista nostro.

Con queste parabole il Signore non vuole prima di tutto descriverci il peccato o il male che attraversa l’uomo, piuttosto sottolineare l’amore e la misericordia di Dio che cerca il peccatore per perdonarlo.

Anche la prima lettura non punta l’accento sul peccato di idolatria d’Israele, quanto sulla preghiera di intercessione di Mosè.

Di fronte alla colpa del suo popolo, Dio si propone di rigettarlo e presenta a Mosè un’alleanza particolare, perché da lui possa nascere un popolo nuovo, puro e santo.

Mosè risponde al Signore facendosi intercessore, ricordando a Dio il suo amore, la sua fedeltà e la sua alleanza.

Davanti alla supplica del profeta, Dio desiste dal suo proposito di rigettare Israele e di abbandonarlo al suo peccato, perché è un Dio fedele!

La grandezza di Mosè sta nel ritenersi inseparabilmente unito al suo popolo; pur appartenendo totalmente al Signore, il profeta sta anche dalla parte di Israele e intercede per lui presso Dio con la preghiera e la supplica.

Mosè vince la tentazione di una vocazione privata che prescinda da quella del suo popolo; e il perdono del Signore sembra quasi passare attraverso questa decisione del profeta.

La medesima scelta di Mosè la possiamo riconoscere negli atteggiamenti di Gesù, che fin sulla croce si è fatto intercessore per tutta l’umanità.

Il Signore ha scelto di rimanere legato alla nostra umanità per sempre e di continuare a intercedere in nostro favore presso il Padre: questo per riconciliarci nell’amore.

Le letture invitano a non sentirci estranei a questa umanità amata e perdonata dal Signore; di non inseguire un destino privato di salvezza, ma di partecipare all’ansia del Padre perché ogni uomo goda della grazia della redenzione.

Questa è la bellezza della nostra vocazione cristiana: appartenere totalmente a Dio, perché resi figli nel Figlio e allo stesso tempo essere dalla parte di tutta l’umanità, non possedendoci più, perché radicati nell’amore di Cristo, tanto che ormai egli vive in noi.

Questa duplice appartenenza ci fa partecipare sia alla gioia del Signore, perché ciò che era perduto è stato ritrovato, sia alla gioia di ogni singolo uomo, reintrodotto nella casa del Padre, avendo ritrovato finalmente il proprio fine.

Se con-gioiamo con Dio, dobbiamo anche partecipare con lui al dolore della perdita, alla sua ansiosa ricerca di ciò che è andato smarrito.

Il figlio maggiore della parabola lucana non può aderire alla esultanza del Padre, perché non ha preso parte al suo dolore, per la partenza del fratello.

Questo figlio, a differenza di Mosè, ha aderito alla tentazione di perseguire un destino privato, avulso da quello del fratello, anzi in concorrenza aperta con lui.

Non facendosi intercessore, sceglie di rimanere estraneo al comportamento del Padre e alla sorte del fratello.

Possiamo invece immaginare che il figlio minore si sia fatto mediatore presso il Padre, perché uscisse fuori per invitare il fratello a entrare nella festa.

Solo chi ha fatto profonda esperienza dell’amore e della misericordia del Signore può intercedere per gli altri.

Nella spiegazione della parabola della pecora smarrita, il Signore parla di conversione del peccatore, ma non dice assolutamente nulla di ciò che il peccatore debba fare per convertirsi.

Anzi nei primi due racconti, di fronte all’agire di Dio che fa di tutto per ritrovare ciò che si era smarrito, sembra sottolineata una certa passività della creatura.

Nella terza parabola, invece, è la figura del Padre che appare passiva e inerme: non mette il figlio minore in guardia dai pericoli che può incontrare andandosene da casa, non lo rimprovera quando ritorna, né gli chiede penitenze o espiazioni per essere riammesso in casa.

Così, di fronte alla durezza del figlio maggiore non si altera, né lo respinge.

L’unica cosa che il Padre fa è amare in modo incondizionato e unico i due figli, perché in questo atteggiamento di fiducia possano esprimere in tutta verità ciò che sentono e provano, aprendosi così al suo perdono.

La riconciliazione può avvenire grazie a questa debolezza, resa efficace dalla croce di Cristo.

Lo scandalo della rivelazione cristiana sta nell’accogliere un Dio che si è fatto impotente nella croce del Figlio, per operare la nostra riconciliazione.

Davanti a questo amore estremo, in cui ogni uomo è in grado di sentirsi perdonato, giustificato e salvato, non possiamo che convertirci a un Dio che per primo si è convertito verso di noi.

Il segno dell’avvenuta conversione, generata da questo amore gratuito, accolto e donato, lo possiamo riconoscere nella capacità di intercessione e nella compartecipazione al dolore e alla gioia del Signore.

Il figlio minore si è veramente convertito se prende parte al dolore del Padre, perché il fratello maggiore si è autoescluso dalla festa; il figlio maggiore può convertirsi se partecipa della gioia del Padre per il fratello ritrovato.

Chiediamo ancora al Signore con la preghiera Colletta, di sperimentare la potenza della sua misericordia, per dedicarci con tutte le nostre forze al suo servizio e a quello dei fratelli. Chiediamogli di curare la nostra duplice appartenenza, perché non ci consideriamo salvati senza il fratello.

MM

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