Chiesa del Gesù - Roma, “Chi è l’altro per me?”.

Am 6,1.4-7; Sal 145; 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31
XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO 21 Set 2016
Le letture che abbiamo ascoltato ci invitano a rispondere sinceramente a questa domanda: “Chi è
l’altro per me?”.

Allo stesso tempo ci chiedono di interrogarci se viviamo con giustizia la nostra vita.

Per il profeta Amos, l’ingiustizia è rappresentata da uno stile di vita preoccupato del proprio benessere e totalmente insensibile alle sofferenze e ai bisogni degli altri, in particolare degli ultimi.

Certamente il profeta lancia le sue invettive contro la classe dominante e possidente della Samaria del suo tempo; tuttavia chiunque utilizza questa mentalità è oggetto delle accuse del profeta.

Il povero non è salvo in quanto tale; perché se entra nello stesso atteggiamento dei gaudenti, presumendo di salvarsi da solo, anch’egli vive di ingiustizia.

Il giudizio di Dio – storico in Amos: l’esperienza dell’esilio; escatologico nel vangelo: l’esperienza dell’inferno nel proprio cuore inaridito – è la testimonianza che Dio non è indifferente al male e all’ingiustizia degli uomini.

Il vangelo però non compie quella riduzione che saremmo tentati di operare noi, vedendovi solo il contrasto fra il povero e il ricco, cioè una discriminazione sociale, una lotta di classe.

Luca con più oculatezza parte dalla considerazione che l’uomo ricco e Lazzaro sono vicini, tuttavia colui che è ricco non si accorge del povero.

Il male di quell’uomo di cui non ci viene detto neppure il nome – tanto è caratterizzato da ciò che possiede – non è di essere ricco, ma di non percepire la presenza del povero, tantomeno di avvertirla come presenza salvante.

Qui il Signore non mira a condannare i ricchi per esaltare i poveri, non critica una condizione ma un atteggiamento di vita.

Piuttosto Cristo ci ammonisce di usare giustamente dell’ingiusta ricchezza, per convertirci da possidenti stolti ad amministratori saggi.

Il Signore Gesù ci invita a considerare che ci può essere un modo diverso di vivere, non piegato su se stessi ma aperto all’azione di Dio nella storia.

Qui sta la conversione! E questa conversione la possiamo compiere solo qui, in questa esistenza terrena, per raccoglierne poi i frutti maturi in quella vita senza tramonto che ci verrà donata dalla misericordia di Dio.

Il nome Lazzaro significa “Dio aiuta”: il povero non potendo confidare in se stesso – perché non ha nulla – può solo porre la propria fiducia in Dio.

E il Signore buono ascolta il grido del povero che si affida alle sue cure e lo salva.

Il ricco epulone invece è senza nome perché egoisticamente confida solamente in se stesso e in ciò che ha; ma così facendo diventa l’antagonista di Dio che per amore ha spogliato se stesso per rivestirsi della nostra umanità.

Se l’uomo ricco si riveste di porpora e di bisso per esorcizzare la sua verità di essere mortale, l’uomo povero che porta su di sé le piaghe della sua umanità, attende che sia il suo Signore a rivestirlo della dignità che gli compete.

Saranno infatti le piaghe di colui che si è fatto povero per amore nostro, a guarirci dal male che da sempre deturpa la nostra vera immagine di uomini e di figli.

Qui sta accogliere o rifiutare la salvezza!

La sorte del povero è di essere elevato per riposare con Abramo, il Padre della promessa che ha posto in Dio ogni speranza e sicurezza di vita.

La sorte del ricco è quella di essere sepolto, cioè abbassato sotto terra, poiché non ha saputo alzare gli occhi da sé per elevarli in alto verso l’altro.

Se Lazzaro vivrà per sempre nella luce del Signore, il ricco epulone vivrà nelle tenebre della sua cecità che ora sono divenute per lui eterne.

Proprio il suo vivere da ricco lo ha reso cieco di fronte al povero – seppure così vicino – e cieco di fronte alle Scritture – sebbene così chiare.

L’inferno dell’uomo ricco è l’impossibilità di essere guarito dalla presenza del povero e di essere convertito dalla voce delle Scritture.

È divenuto come scoria che brucia in eterno senza più essere trasformato dal fuoco dello Spirito di amore: brucia dell’aridità del suo cuore.

In questa condizione disperata si accorge della lontananza che ora c’è tra lui e Lazzaro, tra la sua vita e la vita di fede di Abramo che ha confidato nella Parola del Signore.

La sua preghiera è ora impotente, perché non l’ha saputa elevare nella sua vita terrena quando invece era onnipotente; soprattutto se fosse stata innalzata come intercessione per il bene del prossimo.

Il ricco vorrebbe che i suoi fratelli fossero avvertiti di non incorrere nel suo stesso errore: da sottoterra ha imparato a intercedere per gli altri.

Stupisce a questo punto il rifiuto di Abramo, che appare come l’ennesima crudeltà di un Dio che ci tende trabocchetti per prenderci in fallo.

In verità è la voce di colui che ci ricorda che abbiamo già i profeti e Mosè e che non occorre altro.

Non sono le voci che mancano, non sono le verifiche, ma la libertà per comprendere, la lucidità per vedere.

Il vivere da ricco paradossalmente rende ciechi e nella vita può esserci un troppo tardi. Occorre vivere il momento presente come l’oggi di Dio, senza perdere tempo.

Oggi mi è chiesto di alzare gli occhi per adempiere la giustizia, per vivere il tutto dell’amore e della fedeltà al Vangelo con libertà e fiducia.

Non servono eventi straordinari per convertirci; la vera conversione inizia oggi da quelle realtà ordinarie in cui giochiamo la nostra salvezza.

La vera conversione inizia dalla domanda che oggi ci possiamo porre: “Chi è l’altro per me, come posso vivere con giustizia e libertà?”

MM

Fonte:http://www.chiesadelgesu.org/

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