Don Marco Ceccarelli, “ IlChicco di senape”

XXVII Domenica Tempo Ordinario “C” – 2 Ottobre 2016
I Lettura: Ab 1,2-3; 2,2-4
II Lettura: 2Tm 1,6-8.13-14
Vangelo: Lc 17,5-10
- Testi di riferimento: Is 7,4.9; 28,16; Mt 20,11-12; 21,21; Mc 11,22-23; Lc 6,32; 13,19; 15,29; Rm
1,17; 3,27; 1Cor 4,1; 9,16-17; 15,9-10; 2Cor 6,4; Gal 3,11; Ef 3,7; Col 3,22-24; 1Ts 2,13; 3,10; 2Ts
1,3; Eb 10,38; 11,6.26; 12,2
1. La fede (Lc 17,5-6).
- Leggendo i primi due versetti del brano di Vangelo odierno si rimane un po’ spiazzati per il veloce

botta e risposta fra gli apostoli e Gesù riguardo ad un tema così importante come quello della fede.
Certo, la richiesta degli apostoli, forse suscitata dalle precedenti affermazioni di Gesù, è di quelle
che a volte ci sentiremmo di rivolgere anche noi. Nel campo della fede, almeno in certi momenti, ci
sentiamo tutti un po’ carenti. Specialmente se si tratta di vigilare attentamente su noi stessi per non
essere di scandalo e subire quanto Gesù afferma in Lc 17,1-2, o se si tratta di continuare a perdonare
qualcuno che ci danneggia ripetutamente (Lc 17,3-4). Le nostre forze spesso non sembrano adeguate
alle “pretese” dell'insegnamento di Gesù. Se solo avessimo quella bella fede, quella grandiosa fede
che possiamo ammirare nei santi …
- Può sorprendere rendersi conto che un elemento così insignificante come il “chicco di senape” sia
nominato ben cinque volte nei Vangeli. Nelle altre ricorrenze lo si usa come metafora del regno di
Dio il quale, sebbene in partenza molto piccolo, sprigiona però una forza tale da crescere a dismisura
(Lc 13,19). Se nella risposta di Gesù riguardo alla fede si vuole intendere qualcosa di analogo,
allora possiamo capire che ai discepoli è richiesto pochissimo; ancora una volta è richiesta la cosa
giusta, vale a dire la (vera) fede. Perché quello che conta non è la quantità, ma la genuinità. Se il
chicco è genuino, anche se piccolo ha in se la forza necessaria per crescere. Non è richiesto perciò
una forza sovrumana, ma soltanto di credere in quello che Gesù dice. Si tratta di accogliere la parola
di Cristo per quello che è, senza porre ostacoli. È infatti la stessa parola di Dio, che viene dalla bocca
di Gesù, a sprigionare quella forza necessaria per realizzare cose “sovrumane”. San Paolo rende
testimonianza ai tessalonicesi del fatto che, avendo essi accolto la parola della predicazione non
come parola di uomini ma come vera Parola di Dio, essa ha operato in loro, grazie a quella fede
(1Ts 2,13). È la parola stessa di Dio che ha in sé la forza per crescere e portare frutto. Ma essa ha
bisogno che le si faccia spazio in un terreno buono – almeno tanto spazio quanto per un granello di
senape – di modo che possa prosperare.
- Certamente c’è una crescita nella fede (1Ts 3,10; 2Ts 1,3). Non possiamo dare mai per scontato
che la nostra fede è sufficientemente adulta e matura. Ma è anche vero che c’è una fede di cui è sufficiente
soltanto un punto su cui tutto si regge. È il punto d’appoggio per cui si può sollevare il
mondo. È il punto che sostiene tutto l’edificio, su cui la casa si mantiene salda, senza vacillare. È il
punto di forza grazie al quale facciamo opere superiori alle nostre forze, per cui è possibile anche
l’impossibile. È il punto di stabilità di tutta l’esistenza (Is 7,4.9; 28,16). Al contrario, se manca questo
punto, qualsiasi problema, inconveniente, tentazione, crisi, non solo fa crollare ogni proposito di
seguire Cristo, ma anche produce un’ansia, una agitazione, una paura ad affrontare la vita (Is 7,2;
Lv 26,36; Dt 28,65).
2. La ricompensa del servo (Lc 17,7-10).
- “Soltanto servi”. In questa seconda parte del vangelo odierno mi pare che il punto chiave sia l’espressione
“servi miseri” (v. 10). Il termine achreioi significa infatti non “inutili” bensì “senza diritto
di ricompensa”. Questo è chiaro anche da quanto Gesù dice nel v. 9: «Darà forse (il padrone) una
ricompensa a quel servo per aver fatto ciò che gli è stato comandato?». Vale a dire: quel servo non
ha diritto di ricevere una ricompensa speciale per aver fatto il suo lavoro. Non ha fatto nient’altro
che quanto gli spettava. Così è nella Chiesa. Nella Chiesa siamo tutti inadeguati. Nessuno può van-

tare di essere adatto a qualcosa, di essere uno “specialista”. Il servizio è un dono di Dio. Il servizio
nella Chiesa non può essere un vanto, ma è una “necessità” (1Cor 9,16) che scaturisce dalla grazia
che ci è stata data. Per quanto si sia al servizio di Dio si rimane sempre “servi senza alcun diritto”.
- “Quanto dovevamo fare” (v. 10): Noi siamo “debitori” nei confronti del Signore. Niente ci è dovuto,
perché noi non siamo i padroni, ma solo servi, o amministratori di beni non nostri. L’atteggiamento
della persona religiosa è quello di pensare di aver diritto a ricevere una ricompensa (charis,
v. 9; cfr. Lc 6,32.33.34) per quello che fa per Dio, perché ritiene che lui sta facendo qualcosa
per Dio (cfr. l’atteggiamento del figlio maggiore in Lc 15,29). La stessa pretesa si verifica in chi vive
il cristianesimo in una forma magica. Non sono le buone opere che ci ottengono la giustificazione
(contro la pretesa farisaica), nemmeno quelle dei padri (parabola della domenica precedente).
La “grazia” non è data in forza delle opere. La ricompensa che riceveremo è sempre frutto
della grazia di Dio, non delle nostre opere. Piuttosto le opere sono un segno che si è già ricevuto
una grazia (1Cor 15,10).
- Il servizio a Dio non è part-time, come un qualsiasi impiego che occupa un certo spazio della
giornata e lascia altro spazio per essere gestito in proprio. Il servizio a Dio è full-time, perché il cristiano
offre un culto vivente a Dio con tutta la sua esistenza (Rm 12,1). La persona religiosa pensa
che, dopo aver accontentato Dio con qualcosa del suo tempo, ha diritto di gestire la sua vita come
gli pare. Il cristiano invece non ha nulla della sua vita in proprio, perché ha capito che tutto gli è stato
dato in dono da Dio perché lo amministri secondo la sua volontà. Soltanto dopo aver fatto “tutto
quello che doveva fare” godrà del banchetto celeste dove Cristo stesso passerà a servirlo (Lc 12,37).
- La metafora potrebbe voler rispondere ad una implicita domanda sul perché spesso non risulta che
chi serve Dio abbia una ricompensa. I servi di Dio, i figli del regno, i cristiani, soffrono come gli altri.
Per questo il testo gioca sul contrasto tra il “subito” e il “dopo”. Siamo molto vicini alla parabola
precedente del ricco e di Lazzaro (cfr. 16,25). È soltanto dopo aver fatto in tutto la volontà di Dio su
questa terra che potremo “mangiare e bere” (v. 8) nel regno di Dio (Lc 22,30; cfr. contrasto con Lc
12,45). Il “subito” del v. 7 sta in opposizione al “dopo” del v. 8 (il “dopo” serve ad indicare il periodo
successivo alla vita terrena come in Lc 12,4-5). Non è ora in questa vita che possiamo sederci
al banchetto messianico; questo si realizzerà “dopo queste cose”, cioè dopo che avremo svolto tutto
l’incarico che ci è stato affidato, e dopo il ritorno del padrone (Lc 12,37). Per questo, dire “sono un
servo inutile” soltanto per evitare di fare un servizio è una pura ipocrisia o segno di un dannoso
complesso di inferiorità. Cristo ci invita a non attenderci una ricompensa qui su questa terra, come
invece i farisei che fanno le loro opere buone per essere ammirati dagli uomini. Per un cristiano è
già sufficiente su questa terra essere servo di Cristo. Non possiamo usare il cristianesimo per stare
bene qui. La vita su questa terra va vissuta nella volontà di Dio, sapendo che questo è già un dono di
Dio, e che non c’è modo migliore di vivere che servire Cristo.

Fonte:http://www.donmarcoceccarelli.it/

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