MONASTERO MARANGO, "Osservanti della Legge ma non del grido del povero"
26° Domenica del Tempo Ordinario (anno C)
Letture: Am 6,1.4-7; 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31
Osservanti della Legge ma non del grido del povero
1)Parecchi sono gli indizi che ci permettono di scoprire quale sia il senso che Luca vuole dare alla
parabola del ricco che banchetta lautamente e del povero Lazzaro alla sua porta. Bisogna dire che questa parabola, nella sua narrazione essenziale, ha le sue radici in un tempo molto remoto, nell’antico Egitto e poi anche nella Palestina anteriore alla venuta di Gesù. In queste antiche narrazioni leggiamo due lezioni fondamentali: la condizione degli uomini sulla terra verrà mutata nell’aldilà, e la retribuzione per il bene fatto in vita sarà elargita generosamente nell’oltre tomba. Secondo questi documenti la condizione terrena verrà rovesciata dal giudizio divino, in base a ciò che si è operato in vita. Se nulla può cambiare in questa vita, tutto può essere rovesciato nell’altra.
Ma siamo sicuri che questo sia anche il significato che Luca vuole dare alla parabola?
L’evangelista inserisce la parabola di Lazzaro e del ricco, che non si accorge nemmeno del povero che giace alla sua porta, nel viaggio verso Gerusalemme di Gesù, che ha appena istruito i suoi discepoli sul buon uso del denaro (Lc 16, 1-13) e ha rivolto un gruppo di sentenze ai farisei, denunciando la loro sicurezza e avvertendoli sulla durata e sulla fine della Legge : «La Legge e i profeti fino a Giovanni: da allora in poi viene annunciato il regno di Dio e ognuno si sforza di entrarvi» (Lc16, 16). Questo contesto storico e letterario è molto importante, perché sembra che siano proprio i farisei i primi destinatari della parabola: loro che erano attaccati al denaro e si tenevano lontani da quelli che non osservavano la Legge. La parabola vuol fare comprendere cosa vuol dire avere «la Legge e i Profeti», accogliere le Sacre Scritture come dono di Dio per la nostra conversione e per farci aprire gli occhi e il cuore davanti alla sofferenza del fratello e alla sua richiesta di aiuto.
C’era un uomo ricco , che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo.
Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta.
Di fronte alla casa del ricco c’è un povero, un affamato a cui basterebbe quello che cade dalla mensa del ricco. Avrebbe desiderato un tozzo di pane «ma nessuno gliene dava» aggiunge un antico codice, segno che era venuta meno anche la solidarietà e l’attenzione degli altri. Il povero è solo, sulla strada. Il ricco invece si sente al sicuro, dentro il suo palazzo. «Ogni giorno si dava a lauti banchetti». Sempre così quelli che ostentano le loro immense ricchezze: «distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla». C’è un muro invalicabile tra il povero e il ricco, fatto non solo di pietre squadrate e di portoni sbarrati, ma di lontananza del cuore, di durezza, di cecità.
Questo povero si chiama Lazzaro, che significa “soccorso da Dio”. Questo nome è stato messo lì per dire che non si tratta solo di un povero, ma di uno di quei poveri che attendono da Dio la loro consolazione.
Nel discorso della montagna leggiamo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli». Chiediamoci: la povertà, la miseria, è in se stessa una beatitudine? Nessuno lo crede. Affermarlo è bestemmiare Dio e offendere a morte chi già soffre per la sua condizione.
Allora, un povero è dichiarato beato perché a lui, che ha patito per tutti i giorni della sua esistenza, viene promessa una felicità nell’altra vita? Anche questa affermazione, purtroppo tante volte udita nella predicazione e nella catechesi, è una lettura alienante e deviata del vangelo, che dichiara beati i poveri perché Dio ha spezzato la catena che li teneva prigionieri del loro destino, è entrato nella loro storia e li ha sollevati dalla polvere. Il povero è beato perché qualcuno si è accorto di lui e lo ha introdotto nella sua casa.
Ma questo raramente accade. Essere poveri rimane una maledizione, perché viviamo nella “globalizzazione dell’indifferenza”.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo.
Morì anche il ricco e fu sepolto.
Come il palazzo e il portone del ricco separano i due sulla terra, così «un grande abisso» li separa per tutta l’eternità. Ora è il ricco a soffrire tra i tormenti, mentre Lazzaro siede festoso al banchetto di nozze, accanto ad Abramo. Il ricco, bruciato dalle fiamme, desidera un po’ di sollievo: gli basta che Lazzaro intinga nell’acqua la punta di un dito e gli rinfreschi le labbra.
Ma il rovesciamento della situazione, che sembra erroneamente promesso solo nell’aldilà, non è il vero motivo della parabola. Insisto: sarebbe una consolazione da poco: i ricchi continuerebbero imperterriti a gozzovigliare per tutta la vita, non credendo a niente altro dopo di loro, mentre i poveri continuerebbero a condurre una vita senza luce e senza speranza. Il vangelo non si limita ad affermazioni di principio sulla dignità dei poveri e il loro posto privilegiato nel Regno. Gesù si è chinato su di loro, è entrato nella loro miseria, ha gridato lo scandalo della loro emarginazione dalla società civile e religiosa, ha lottato per il loro riscatto. E’ morto ed è risorto perché tutti potessimo essere chiamati figli di Dio.
A tutto questo la parabola di oggi aggiunge una lezione importante: la morte fissa per sempre il destino di ogni uomo, è una discriminante tra il prima e il dopo che nessuno può più cambiare.
Il ricco della parabola per tutta la sua vita ha solo mangiato e bevuto, è vissuto nel lusso, ha pensato soltanto a sé, non ha cercato la compagnia dei poveri, non ha condiviso con loro i suoi beni, nemmeno le briciole, non ha usato il suo denaro per sollevare, almeno un poco, le miserie e le pene di qualcuno.
Ora la morte chiude per sempre la possibilità anche di un minimo cambiamento.
Abbiamo solo questa vita per operare il bene e vivere secondo giustizia.
Il ricco poteva agire diversamente?
E la risurrezione di un morto potrebbe ottenere la conversione dei suoi fratelli, i quali eviterebbero così di subire la sua stessa sorte?
Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro.
Il messaggio contenuto nelle Scritture è più convincente della risurrezione di un morto.
La parabola è, allora, la più chiara risposta di Gesù ai farisei, attaccati al denaro, osservanti della Legge, ma ciechi e sordi davanti al grido del povero. Se scelgono il denaro, la chiusura nella loro presuntuosa religiosità, che è come un palazzo fortificato nel quale nessuno può entrare, saranno esclusi dal regno di Dio, dove ci sono Abramo, Isacco e Giacobbe. E con loro una moltitudine di poveri beati, che già in terra hanno pregustato la gioia del paradiso, condividendo con tutti il pane dell’amicizia e della lode.
Scatto Giorgio
Fonte:MONASTERO MARANGO, Caorle (VE)
Letture: Am 6,1.4-7; 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31
Osservanti della Legge ma non del grido del povero
1)Parecchi sono gli indizi che ci permettono di scoprire quale sia il senso che Luca vuole dare alla
parabola del ricco che banchetta lautamente e del povero Lazzaro alla sua porta. Bisogna dire che questa parabola, nella sua narrazione essenziale, ha le sue radici in un tempo molto remoto, nell’antico Egitto e poi anche nella Palestina anteriore alla venuta di Gesù. In queste antiche narrazioni leggiamo due lezioni fondamentali: la condizione degli uomini sulla terra verrà mutata nell’aldilà, e la retribuzione per il bene fatto in vita sarà elargita generosamente nell’oltre tomba. Secondo questi documenti la condizione terrena verrà rovesciata dal giudizio divino, in base a ciò che si è operato in vita. Se nulla può cambiare in questa vita, tutto può essere rovesciato nell’altra.
Ma siamo sicuri che questo sia anche il significato che Luca vuole dare alla parabola?
L’evangelista inserisce la parabola di Lazzaro e del ricco, che non si accorge nemmeno del povero che giace alla sua porta, nel viaggio verso Gerusalemme di Gesù, che ha appena istruito i suoi discepoli sul buon uso del denaro (Lc 16, 1-13) e ha rivolto un gruppo di sentenze ai farisei, denunciando la loro sicurezza e avvertendoli sulla durata e sulla fine della Legge : «La Legge e i profeti fino a Giovanni: da allora in poi viene annunciato il regno di Dio e ognuno si sforza di entrarvi» (Lc16, 16). Questo contesto storico e letterario è molto importante, perché sembra che siano proprio i farisei i primi destinatari della parabola: loro che erano attaccati al denaro e si tenevano lontani da quelli che non osservavano la Legge. La parabola vuol fare comprendere cosa vuol dire avere «la Legge e i Profeti», accogliere le Sacre Scritture come dono di Dio per la nostra conversione e per farci aprire gli occhi e il cuore davanti alla sofferenza del fratello e alla sua richiesta di aiuto.
C’era un uomo ricco , che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo.
Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta.
Di fronte alla casa del ricco c’è un povero, un affamato a cui basterebbe quello che cade dalla mensa del ricco. Avrebbe desiderato un tozzo di pane «ma nessuno gliene dava» aggiunge un antico codice, segno che era venuta meno anche la solidarietà e l’attenzione degli altri. Il povero è solo, sulla strada. Il ricco invece si sente al sicuro, dentro il suo palazzo. «Ogni giorno si dava a lauti banchetti». Sempre così quelli che ostentano le loro immense ricchezze: «distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla». C’è un muro invalicabile tra il povero e il ricco, fatto non solo di pietre squadrate e di portoni sbarrati, ma di lontananza del cuore, di durezza, di cecità.
Questo povero si chiama Lazzaro, che significa “soccorso da Dio”. Questo nome è stato messo lì per dire che non si tratta solo di un povero, ma di uno di quei poveri che attendono da Dio la loro consolazione.
Nel discorso della montagna leggiamo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli». Chiediamoci: la povertà, la miseria, è in se stessa una beatitudine? Nessuno lo crede. Affermarlo è bestemmiare Dio e offendere a morte chi già soffre per la sua condizione.
Allora, un povero è dichiarato beato perché a lui, che ha patito per tutti i giorni della sua esistenza, viene promessa una felicità nell’altra vita? Anche questa affermazione, purtroppo tante volte udita nella predicazione e nella catechesi, è una lettura alienante e deviata del vangelo, che dichiara beati i poveri perché Dio ha spezzato la catena che li teneva prigionieri del loro destino, è entrato nella loro storia e li ha sollevati dalla polvere. Il povero è beato perché qualcuno si è accorto di lui e lo ha introdotto nella sua casa.
Ma questo raramente accade. Essere poveri rimane una maledizione, perché viviamo nella “globalizzazione dell’indifferenza”.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo.
Morì anche il ricco e fu sepolto.
Come il palazzo e il portone del ricco separano i due sulla terra, così «un grande abisso» li separa per tutta l’eternità. Ora è il ricco a soffrire tra i tormenti, mentre Lazzaro siede festoso al banchetto di nozze, accanto ad Abramo. Il ricco, bruciato dalle fiamme, desidera un po’ di sollievo: gli basta che Lazzaro intinga nell’acqua la punta di un dito e gli rinfreschi le labbra.
Ma il rovesciamento della situazione, che sembra erroneamente promesso solo nell’aldilà, non è il vero motivo della parabola. Insisto: sarebbe una consolazione da poco: i ricchi continuerebbero imperterriti a gozzovigliare per tutta la vita, non credendo a niente altro dopo di loro, mentre i poveri continuerebbero a condurre una vita senza luce e senza speranza. Il vangelo non si limita ad affermazioni di principio sulla dignità dei poveri e il loro posto privilegiato nel Regno. Gesù si è chinato su di loro, è entrato nella loro miseria, ha gridato lo scandalo della loro emarginazione dalla società civile e religiosa, ha lottato per il loro riscatto. E’ morto ed è risorto perché tutti potessimo essere chiamati figli di Dio.
A tutto questo la parabola di oggi aggiunge una lezione importante: la morte fissa per sempre il destino di ogni uomo, è una discriminante tra il prima e il dopo che nessuno può più cambiare.
Il ricco della parabola per tutta la sua vita ha solo mangiato e bevuto, è vissuto nel lusso, ha pensato soltanto a sé, non ha cercato la compagnia dei poveri, non ha condiviso con loro i suoi beni, nemmeno le briciole, non ha usato il suo denaro per sollevare, almeno un poco, le miserie e le pene di qualcuno.
Ora la morte chiude per sempre la possibilità anche di un minimo cambiamento.
Abbiamo solo questa vita per operare il bene e vivere secondo giustizia.
Il ricco poteva agire diversamente?
E la risurrezione di un morto potrebbe ottenere la conversione dei suoi fratelli, i quali eviterebbero così di subire la sua stessa sorte?
Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro.
Il messaggio contenuto nelle Scritture è più convincente della risurrezione di un morto.
La parabola è, allora, la più chiara risposta di Gesù ai farisei, attaccati al denaro, osservanti della Legge, ma ciechi e sordi davanti al grido del povero. Se scelgono il denaro, la chiusura nella loro presuntuosa religiosità, che è come un palazzo fortificato nel quale nessuno può entrare, saranno esclusi dal regno di Dio, dove ci sono Abramo, Isacco e Giacobbe. E con loro una moltitudine di poveri beati, che già in terra hanno pregustato la gioia del paradiso, condividendo con tutti il pane dell’amicizia e della lode.
Scatto Giorgio
Fonte:MONASTERO MARANGO, Caorle (VE)
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