MONASTERO MARANGO, "Un invitato a nozze che sa fare della sua vita un dono

23° Domenica del Tempo Ordinario (anno C)
Letture: Sap 9,13-18; Fm 9b-10.12-17; Lc 14,25-33
Un invitato a nozze che sa fare della sua vita un dono
 
1)Molti si chiedono cosa significhi essere discepoli di Gesù. Non voglio addentrarmi in una lunga serie di risposte possibili, che hanno tutte un loro fondamento. Mi limito ad osservare quello che dice la pagina del Vangelo proposta per questa domenica. 

Una folla numerosa andava con Gesù.
Camminano insieme: Gesù davanti e tutta la gente dietro, lungo le strade polverose della Galilea. Se Gesù fosse stato un leader politico si sarebbe accontentato di questo superficiale successo. Siamo abituati a vedere folle che riempiono le piazze acclamando il dittatore di turno, pronte poi ad abbatterne le statue e a versarne il sangue quando il vento gira in senso contrario. Gesù però non è un uomo della politica.

Gesù precede tutti gli altri, si volta e dice: «Se uno viene a me». 
Con Gesù non si sta come si sta tra la folla. Anonimi. Al sicuro tra una moltitudine di volti tutti uguali, che proferiscono parole imparate alla scuola del consenso di massa. E’ umiliante osservare come siamo sempre meno capaci di un pensiero alto e nobile, di una lettura della storia e della realtà appresa attraverso la fatica della ricerca e del confronto, di un impegno nel mondo che non ripeta gli stereotipi a cui ci hanno abituati i maestri della propaganda. Siamo uomini ad una dimensione, fruitori inerti del mercato globale. 
Gesù, al contrario, interpella ciascuno, lo chiama per nome, e pone da subito la questione della sequela: essere discepoli significa stare con lui, ma non in forma anonima, rimanendo quello che si era, senza dover rinunciare a nessuno dei propri idoli o delle proprie sicurezze. Gesù ci insegna a praticare dei cambiamenti radicali, delle inversioni di rotta, che comportano anche rotture, capovolgimento delle priorità e dei valori ai quali eravamo abituati. 

Se chi viene a me «non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». E’ discepolo chi mette Gesù al di sopra di tutto e di tutti, anche del padre, della madre, della moglie e dei figli. Perché questa pretesa, che sembra essere in netta concorrenza con tutto ciò che costituisce la nostra vita reale, i nostri bisogni più essenziali, i nostri bisogni più profondi? La risposta è contenuta nel nucleo incandescente del Vangelo: se non amiamo Gesù più di tutti non riusciremo ad amare anche tutti gli altri: il padre, anche quando diventa infermo; la madre, anche quando viene colpita da demenza precoce; il marito, anche quando ha tradito le proprie promesse; la moglie, anche quando perde un patrimonio con i videogiochi; l’amico d’infanzia, anche quando si droga o il vicino di casa, anche quando ti copre di insolenze perché le foglie del tuo albero sono cadute nel suo giardino; o i figli, anche quando rinnegano l’insegnamento ricevuto e si allontanano dalla vita di fede.

Amare Gesù, sopra ogni altra cosa, significa non accampare scuse quando siamo invitati a «mangiare il pane nel Regno di Dio» (Lc 14,15): «Ho comprato un campo, e devo andare a vederlo. Ho comprato cinque paia di buoi, e vado a provarli. Mi sono appena sposato, e perciò non posso venire».
E’ a motivo di questi rifiuti che la sala del banchetto, preparata per noi, è piena di «poveri, storpi, ciechi e zoppi». Forse non abbiamo ancora capito che la fede è un incredibile e inaspettato invito a nozze, dove non dobbiamo portare regali costosi per aver diritto al pranzo, ma semplicemente accettare con gioia l’invito ricevuto.
Amare Gesù significa ricordare la sua parola: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti, e il mio comandamento è questo: amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato». In definitiva è donazione totale agli altri, senza alcun altro scopo che quello di amare, liberàti dalla preoccupazione della ricompensa e dalla pretesa di essere ricambiati. L’amore per Gesù è ricercare il vero bene del padre, della madre, della moglie, dei figli, degli amici e anche dei nemici. 

Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
La croce, già ai tempi di Gesù, era segno di un’enorme sofferenza e di una massima emarginazione. Non erano infrequenti le scene di condannati che andavano al luogo del supplizio portando la croce. 
Essere cristiani, anche oggi in tantissimi luoghi, significa perdere ogni diritto sociale, ogni avere; significa venire emarginati anche dalla propria famiglia, essere esposti alla condanna e alla morte. Non dimentichiamolo, noi «cristiani del divano» (papa Francesco).
Gesù ha portato la croce, per il bene del suo popolo e di tutti; così il discepolo, anche se consegnato alla morte, accetta la prova, la sofferenza derivante dalla persecuzione a motivo della fede, e ama intensamente, donandosi, come Gesù, per il bene di tutti. 
Occorre però valutare bene se siamo in grado di desiderare cose così grandi, più grandi della edificazione di una torre o di un’epica impresa in battaglia.
Non si tratta di avere tanti mezzi a disposizione, anzi, occorre prenderne le distanze: «Chi non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo». Rinunciare significa letteralmente: “dire addio, separarsi, prendere le distanze”. E gli averi sono “i mezzi disponibili, le glorie presenti, i beni posseduti – anche quelli spirituali – quello che è in tuo possesso”. 
Così il vocabolario. 
Ma così anche le condizioni per poter seguire Gesù con leggerezza, personalmente, per poter iniziare con lui un lungo cammino.
Buona strada.
 
Giorgio Scatto 
MONASTERO MARANGO CAORLE (VE)

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